→ Iscriviti
→  novembre 17, 2006


di Riccardo Gianola

La scena più gustosa del libro «Il baco del Corriere» di Massimo Mucchetti, compare a pagina 12. Il giornalista racconta che il 5 novembre 2004, alle nove di sera, l’amministratore delegato Vittorio Colao gli si presenta davanti. Prende un pezzo di carta bianca sulla scrivania e scrive una domanda in stampatello. “Dove possiamo parlare in sicurezza?”». Mucchetti gli risponde sempre per iscritto, per evitare evidentemente che qualcuno ascolti le loro voci: «Troviamoci sotto, all’angolo fra Solferino e Moscova».

leggi il resto ›

→  novembre 2, 2006

sole24ore_logo
di Antonio Sassano

In due articoli apparsi sul Sole 240re (il 21 ed il 31 ottobre), Franco Debenedetti ha definito il ddl Gentiloni: “Una legge che guarda al passato e ritarda il futuro”, “vessatoria per Mediaste”. La mia opinione è che, invece, si tratti di una legge che inizia a smontare il passato per costruire il futuro. Cerco di spiegare il perché.
Le critiche di Debenedetti sono suddivise tra le due questioni centrali: quella del mercato pubblicitario e quella delle frequenze. Voglio concentrarmi sulla seconda ma parto dalla prima. Debenedetti ci dice che il ddl Gentiloni trascura lutti gli “altri proventi afferenti ad un’impresa”, si concentra sulla sola pubblicità televisiva, dimentica “i modelli economici dei mercati a due versanti”. Nella sua sofisticata analisi economica sfugge però a Debenedetti che l’Antitrust ha concluso (Indagine conoscitiva 23/2004 ) che è proprio il mercato della “raccolta pubblicitaria su mezzo televisivo in chiaro” ad essere a due versanti mentre quello a pagamento è ad un solo versante. Si tratta, insomma, di mercati distinti. E dunque, il ddl è metodologicamente autorizzato a concentrarsi sul primo. La questione diviene: è giusto limitare un singolo soggetto al 45% del totale delle risorse disponibili su un singolo mercato, anche tenendo conto della sua rilevanza ai fini del pluralismo? Il ddl risponde positivamente: non mi sembra si tratti di una risposta particolarmente vessatoria.
Per quanto riguarda le frequenze Debenedetti afferma che: “La risorsa scarsa non sono (mai state) le frequenze bensì i contenuti”. È un’affermazione sorprendente. Tutti gli esperti concordano sul fatto che quello delle frequenze e della loro occupazione inefficiente sia “il” problema. Secondo Debenedetti il ddl Gentiloni ha l’obiettivo di ritardare l’avvento delle nuove tecnologie e di limitarsi a regolare il morente mercato analogico.
Questo tentativo è sintetizzato in tre mosse: lo spostamento della data dello switch off al 2012, il “trasferimento forzoso” dei palinsesti e l’introduzione di vincoli che “rendono impossibile a Mediaset e Telecom trasmettere i programmi che avevano promosso il digitale”, a vantaggio di Sky. L’ultima affermazione è una grave accusa di distorsione del mercato a favore dell’operatore satellitare. Grave ma infondata. Il ddl non prevede alcuna limitazione alla diffusione dei programmi pay per view. Non la prevede durante la fase di transizione, nella quale gli operatori di rete possono rimanere verticalmente integrati e dedicare ai propri conte-nuti il 60% della capacità trasmissiva dei propri multiplex. E neanche a regime (nel 2012): il limite del 20% garantirà una capacità sufficiente a trasmettere contemporaneamente fino a 14 programmi di ottima qualità. Nel 2012 ci saranno almeno cinque fornitori di contenuti in grado di trasmettere in diretta ed in alta definizione l’intero campionato di serie A e di competere tra loro e con l’operatore satellitare.
Quanto al “trasferimento forzoso” di due reti analogiche e allo spostamento dello switch off
Al 2012, le due obiezioni si contraddicono. Se scegliere il 2012 significa rimandare sine die, la data dello switch off può essere anticipata al 2010, diciamo. Ma se si vuole spegnere tutto nel 2010 non si può definire “forzoso” il trasferimento di due palinsesti nel 2009. Sarebbe piuttosto, un avvio tardivo del processo di transizione. Se conveniamo sull’effetto di forzamento del trasferimento dei due palinsesti in digitale, dobbiamo ammettere che la scelta del 2012 è una grande scommessa sulla capacità industriale e organizzativa del nostro Paese. Le “incertezze degli operatori e degli utenti” sono state prodotte dal continuo spostamento in avanti di scadenze che non si riusciva a rispettare. Resta la questione del “trasferimento forzoso”. La ratio dell’intervento è duplice: avviare la transizione e impedire che essa divenga una mera trasformazione 1-a-1 delle reti analogiche in digitali. Nel 2004 l’Antitrust raccomandava “misure di carattere strutturale che garantiscano una rapida ed ordinata transizione allo scenario previsto dal Piano digitale e che le precedenti posizioni detenute nelle reti analogiche (…) non si trasferiscano al futuro mercato digitale terrestre”.
La raccomandazione è ancora valida? La risposta è nei fatti. Rai e Mediaset non hanno posto mano alle reti analogiche,con la loro struttura ridondante e l’uso inefficiente di una risorsa preziosa per il Paese come lo spettro frequenziale. Le reti digitali sono state realizzate utilizzando le poche frequenze di qualità che le tv locali mettevano a disposizione. Ora non ne esistono più. Quando l’Agcom ha chiesto un piano di transizione al digitale, la risposta di Rai e Mediaset è stata: abbiamo tre reti analogiche, le trasformeremo 1-a-1 in tre reti digitali.
Nessun accenno al fatto che le reti analogiche di Rai e Mediaset utilizzano, ognuna, circa 1.000 impianti-frequenza ad ampio bacino di servizio contro i 260 previsti dal Piano dell’Agcom. Nè al fatto che migliaia delle nostre frequenze analogiche non sono coordinate a livello internazionale (Piano di Ginevra).
I principali operatori, senza stimoli esterni, ignorano il coordinamento internazionale, tendono a non trasformare le reti analogiche e a non muoversi verso lo scenario digitale, il ddl Gentiloni tenta di smontare questa situazione di equilibrio stabile. Fissa l’avvio della transizione a 15 mesi dalla sua approvazione, affidando agli operatori il progetto del trasferimento, che dovrebbe essere approvato dall’Agcom e prevedere il riutilizzo di parte delle frequenze intrappolate nelle reti analogiche. Ovviamente in accordo al Piano digitale europeo di Ginevra e al Piano dell’Agcom.
Le frequenze non utilizzate in questo progetto, grazie alla maggior efficienza delle reti digitali, tornerebbero allo Stato e, quindi, al mercato. Le frequenze e non gli impianti, che resterebbero agli operatori. E dunque, Rai e Mediaset sarebbero affiancate da eventuali nuovi entranti nel finanziare la realizzazione delle nuove reti. Più attori e più risorse per il mercato. Nè il ddl Gentiloni impedisce agli operatori di iniziare, da subito, la transizione al digitale. Potrebbe trattarsi anche dell’azione coordinata con gli altri operatori che Carlo Rognoni ha felicemente definito la “mossa del cavallo” e che per Claudio Cappon (IL Sole 24 Ore del 31 ottobre) è “coerente con gli obiettivi di apertura del mercato del ddl Gentiloni”. Il ddl Gentiloni avrebbe così ottenuto l’obiettivo strategico di accelerare la transizione con la semplice indicazione di una credibile strategia d’azione.
Se però, com’è possibile, nel 2009, a tre anni dallo switch off, gli operatori televisivi fossero ancora immobili nel loro equilibrio stabile, Franco Debenedetti considererebbe davvero un forzamento inaccettabile quello di spegnere finalmente due reti analogiche di trasferire i rispettivi palinsesti sui multiplex digitali e di aprire il mercato delle frequenze? Sinceramente, non lo credo.

ARTICOLI CORRELATI
Una legge vessatoria per la sola Mediaset
di Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore, 31 ottobre 2003

→  ottobre 23, 2006

di Guido Baglioni

Il caso dell’Alfa Romeo di Arese si contrappone agli esempi di altre due case automobilistiche, una inglese l’altra americana. La condivisione degli obiettivi di impresa è una formula di successo – La cultura della cooperazione nel nostro Paese è osteggiata anche dai manager.

A che cosa serve il sindacato. Questo è il titolo del volume appena uscito e, fatto insolito per gli studi che riguardano le relazioni industriali e sindacali, produrrà un vivace dibattito. A ciò contribuirà anche il sottotitolo: Le follie di un sistema bloccato e la scommessa contro il declino. Le follie si esprimono emblematicamente nelle modalità del conflitto nel settore dei trasporti; la scommessa è attribuita alle possibilità di innovazione strategica e culturale del sindacalismo confederale.

leggi il resto ›

→  settembre 17, 2006

lastampa-logo
di Tito Boeri

Dopo aver seguito in questi giorni le animate conferenze stampa della nostra fitta delegazione, i cinesi si stanno probabilmente chiedendo che razza di Paese sia l’Italia. Loro se ne intendono sia di affari che di intervento dello Stato in economia. E hanno ascoltato una sequenza di notizie alquanto sorprendenti. Primo, il manager del più grande gruppo italiano (anche per numero di consulenti ed advisors) rimane in sella per cinque anni pur a fronte di risultati deludenti, se non addirittura disastrosi come nei media, e di un indebitamento al di sopra della media del settore.
Secondo, questo numero uno rinnega, con l’approvazione unanime del consiglio di amministrazione, la promessa fatta agli azionisti sul prospetto informativo depositato solo un anno e mezzo fa. I risparmiatori, tra cui forse anche qualche cinese emigrato in Italia, hanno mestamente assistito negli ultimi 5 anni al dimezzamento del valore del titolo in Borsa credendo nelle «sinergie» e nella «creazione di valore» associata all’integrazione fra fisso, mobile, Internet e media. Apprendono ora, tutto d’un colpo, che il valore si crea invece solo spaccando in due, anzi in tre, l’azienda.
Terzo, il nostro governo, impegnato a convincere uomini d’affari cinesi a investire in Italia e le autorità di Guangdong a fidarsi di noi, divulga nei minimi particolari i contenuti di trattative riservate in corso tra Telecom e altre aziende.
Quarto, il nostro premier confessa di essere del tutto all’oscuro della vicenda, nonostante vi sia, tra i suoi consiglieri, chi ha preparato piani di riassetto dell’azienda in puro stile banca di investimento (termine tradotto in italiano perché, come è noto, nella merchant bank di Palazzo Chigi non si parla l’inglese).
Quinto, il numero uno di cui sopra si dimette, motivando la sua scelta non tanto in base ai pessimi risultati dell’azienda quanto alle interferenze del governo, e il consiglio sempre all’unanimità chiama l’uomo della provvidenza, attualmente alla guida della Federcalcio. In effetti, i cinesi hanno potuto in questi giorni toccare con mano la Coppa del Mondo esibita negli stand dell’Ice a Canton. Ma non c’era bisogno di questo per convincerli che il rosso, declinato al plurale, è sinonimo di successo.
Probabilmente i cinesi, nelle prossime settimane, avranno altro di cui occuparsi. Non potranno dunque acquisire quelle ulteriori informazioni, che forse potrebbero dare un senso a vicende apparentemente incomprensibili. Siamo il Paese in cui si lasciano sempre trapelare i segreti, basta che siano quelli degli altri. Quindi tranquillizziamoci: prima o poi, sapremo tutto. Ma una cosa è chiara sin d’ora, anche ai cinesi che sono maestri nel fare e disfare scatole e nello stare in mezzo al guado, fra Stato e mercato.
Se avessimo un capitalismo maturo e una classe politica che ha una cultura economica (prima ancora che di mercato) adeguata, probabilmente nulla di tutto ciò sarebbe avvenuto. Non avremmo catene di controllo bizantine, per cui gli utili di un’azienda che continua a macinare profitti nella telefonia mobile grazie alla scarsa (altro che eccessiva!) regolazione del settore, non vanno ad abbattere l’indebitamento, ma affluiscono ai piani alti della catena. Non avremmo neanche manager-padroni che possono sopravvivere, nonostante i loro palesi errori, ai posti di comando per quelli che nei mercati finanziari sono tempi biblici. Avremmo invece più concorrenza nelle telecomunicazioni e prezzi più bassi per gli utenti, il vero interesse nazionale, mentre il maggior gruppo italiano sarebbe un conglomerato con azionariato diffuso, controllato da un manager con una piccola quota. Non avremmo neanche personale nella cabina di regia con smanie di protagonismo, che vogliono intervenire in prima persona nella vita di un’impresa privata, anziché limitarsi a regolare e far leggi che assicurino che i piccoli azionisti abbiano voce in capitolo. Non avremmo progetti, comunque maturati non lontano dalle stanze dei bottoni, in cui torna in auge una creatura, assai popolare nella scorsa legislatura, come la Cassa Depositi e Prestiti, per rinazionalizzare la rete telefonica. Non vi sarebbe neanche chi al governo, per fortuna non tra i ministeri economici, chiede l’utilizzo della golden share, come se fossero in gioco gli «interessi vitali» del Paese. Di vitale per il Paese c’è in questa vicenda solo la credibilità internazionale. Bene salvaguardarla, a tutti i livelli.

ARTICOLI CORRELATI
Lo Stato regoli, il mercato giudichi
di Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore, 14 settembre 2006

Core business, equazione irrisolta
di Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore, 12 settembre 2006

Tutti gli errori dei due contendenti
di Alessandro Penati – La Repubblica, 15 settembre 2006

Verso le nuove partecipazioni statali?
di Carlo Scarpa – La Voce, 11 settembre 2006

→  settembre 15, 2006

larepubblica_logo
di Alessandro Penati

Pirelli deve uscire dal cul de sac in cui si è cacciata cinque anni fa, indebitandosi per strapagare la conquista di Telecom. L’avventura ha lasciato gli azionisti con l´amaro in bocca: il titolo ha perso il 30% del suo valore negli ultimi cinque anni, nonostante la Borsa sia salita del 61%. E Pirelli con tanti debiti: probabilmente supereranno i 2 miliardi a fine anno, più gli oltre 3 di Olimpia, che Consob dovrebbe chiedere di consolidare. Le dismissioni potrebbero essere una soluzione. Ma se anche Pirelli cedesse la rimanente parte di pneumatici e immobiliare, per eliminare il debito e concentrarsi in Telecom, non riuscirebbe a remunerare adeguatamente gli azionisti se non fra qualche lustro. L’alternativa – riconoscere di aver strapagato, vendere la quota in Telecom al miglior offerente, e voltare pagina – è inaccettabile per il gruppo di controllo: Pirelli diventerebbe un gruppo industriale di medie dimensioni, ancora indebitato, fuori dalle luci della ribalta.
Da qui la “riorganizzazione” di Telecom per risolvere i problemi di Pirelli: vendere le attività che valgono di più (Tim, e la Rete) per azzerare l´indebitamento; cavalcare l’entusiasmo della Borsa per il connubio media-Internet; e riposizionarsi nel settore che in Italia garantisce il maggior peso politico. Un piano giustificato con il deterioramento delle prospettive della telefonia e i vincoli posti dall’Authority, che impedirebbero a Telecom di competere. Argomentazioni deboli.
Giustamente l’Authority impedisce a Telecom di offrire ai clienti della rete fissa, acquisiti in virtù del vecchio monopolio e finanziati dal canone, un telefono che fuori di casa si trasformi automaticamente in un portatile: sarebbe un’offerta commerciale che nessun concorrente potrà mai replicare. Ma non le vieta di proporre un servizio integrato di telefonia fissa, mobile e Internet, come altri operatori. Inoltre, è vero che le prospettive della telefonia sono peggiorate ovunque, ma i problemi della società sono imputabili anche a una serie di errori nella gestione Tronchetti Provera: per primo, l’incredibile errore di valutazione al momento dell’acquisizione del controllo.
La politica di cessione delle partecipazioni estere ha concentrato l’attività di Telecom sul mercato italiano, saturo e a bassa crescita. Gli investimenti nel settore dei media, dove l’azienda vuole riposizionarsi, sono stati disastrosi: dal 2002 a oggi, le televisioni del gruppo hanno fatturato 550 milioni, perdendone 350 (prima di oneri e tasse). L’indebitamento di Telecom, più elevato della media di settore, non è piovuto dal cielo: 15 dei 41 miliardi derivano proprio dalla fusione con Tim, che è stata finanziata con il debito per non diluire il valore del premio di controllo di Olimpia. E il debito non si riduce anche perché sugli utili di Telecom grava l’onere dei dividendi che devono affluire ai piani alti della catena di controllo.
La vendita di Tim sarebbe un errore fatale: priverebbe Telecom della principale fonte di cash flow e di un vasto parco clienti da utilizzare, come fanno le società telefoniche di mezzo mondo, per finanziare gli investimenti nella banda larga e nell’acquisto di contenuti multimediali. Per comprare Tim ci sarebbe la coda. E, paradossalmente, al nuovo proprietario, basterebbe acquisire una società che già offre banda larga (come Fastweb) e, avendo risorse e clienti, negoziare accordi con grandi produttori di contenuti per ricostruire in poco tempo una “Telecom” più forte.
L’ipotesi poi che il valore delle attività Internet possa moltiplicarsi, trasformando Telecom in una media company, è discutibile. Nel connubio media-rete vince chi ha i contenuti, non chi li distribuisce: sono i contenuti a fidelizzare i clienti, non la rete, anche perché sono in molti a poter offrire l´accesso alla banda larga. Qualsiasi accordo con Murdoch andrebbe a vantaggio soprattutto di Sky. E poi, ci si dimentica che il successo di Internet implica un trasferimento di ricavi e pubblicità a danno dei media tradizionali. Ma poiché la quantità di media che le persone consumano al giorno è limitata, e la rete aumenta la concorrenza nella distribuzione, è più logico aspettarsi che in futuro siano i multipli di valutazione dei media a ridursi, piuttosto che quelli delle società telefoniche a esplodere.
La verità è che per cercare di mettere fine alle sofferenze degli azionisti Pirelli, si pregiudica il futuro di Telecom. Capisco la preoccupazione del cittadino Prodi. Ma la sua reazione come capo del Governo è censurabile per quattro ragioni. Perché non può violare le regole del libero mercato dei capitali che lui stesso ha posto alla base della costruzione europea. Perché regala al gruppo di controllo di Telecom la patente di vittima di un ottuso e obsoleto dirigismo, facendone passare in secondo piano le gravi responsabilità nella gestione del gruppo. Perché il problema non è Tim in mani straniere, ma un fallimento clamoroso di governance e regole di mercato, che permette a Trochetti Provera e ai suoi manager, che non sono proprietari di Telecom, né di Pirelli, di continuare a gestire il primo gruppo italiano, dopo cinque anni di risultati deludenti. E perché i fallimenti del nostro capitalismo non si risolvono con la quasi nazionalizzazione delle reti, attraverso la Cassa depositi e prestiti, o con la tutela pubblica che trasforma Palazzo Chigi nella succursale di una investment bank.
Le dimensioni di una società telefonica sono oggi incompatibili con la presenza di un gruppo di controllo. La miglior difesa degli azionisti di Telecom e degli interessi nazionali sarebbe dunque una società a capitale diffuso con un management scelto solo in base a capacità e risultati. Senza badare a pedigree o passaporti. E questo è possibile solo se investitori istituzionali, consiglieri indipendenti e stampa specializzata fossero pronti a fare pressioni per rimuovere il management incapace. In Telecom, come in qualsiasi altra azienda.

ARTICOLI CORRELATI
Lo Stato regoli, il mercato giudichi
di Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore, 14 settembre 2006

Core business, equazione irrisolta
di Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore, 12 settembre 2006

Verso le nuove partecipazioni statali?
di Carlo Scarpa – La Voce, 11 settembre 2006

Linea disturbata
di Tito Boeri – La Stampa, 17 settembre 2006

→  settembre 11, 2006

lavoce
di Carlo Scarpa

Non so se il vituperato documento di Rovati (consigliere di Romano Prodi) sia uno scandalo, ma senza dubbio è un pasticcio che testimonia di una grande confusione nel Governo su chi debba dettare gli indirizzi di politica industriale, e su quali debbano essere tali indirizzi.
Al momento della costituzione del Governo avevamo già rilevato come fosse in atto un tentativo di unificare le strategie industriali del Governo (direttamente sotto il controllo della Presidenza del Consiglio) ma come tale tentativo fosse ricco di contraddizioni. Queste contraddizioni oggi puntualmente esplodono, arricchite dalla evidente eterogeneità della maggioranza e della stessa compagine governativa.
Riassumiamo alcuni dei passi compiuti in questi pochi mesi del nuovo Governo.

Mercati “frammentati”: Il ministro Bersani riesce a far passare un decreto sulla liberalizzazione di libere professioni, sulla vendita di farmaci, ecc. (sui taxi, lasciamo perdere…).

Mercato energetico: Sono stati annunciati alcuni provvedimenti per aumentare la concorrenza per energia elettrica e gas sono ma tali interventi non ancora stati esplicitati. Per contro, si è cercato di aiutare Enel nel suo tentativo di entrare oltr’Alpe, ed Eni sul mercato russo (e fin qui niente di male), ma sempre (a quanto si è letto) offrendo alle controparti dei pezzi di mercato italiano in cambio di aperture a questi “campioni nazionali”.
Dopo mesi (forse anni) di trattative fallite, pare andare in porto la fusione tra Aem Milano e Asm Brescia con un accordo tra i sindaci di Milano (destra) e Brescia (sinistra). Il fatto che questo potrebbe limitare sostanzialmente la concorrenza nel mercato elettrico – già dominato da Enel – non sembra preoccupare nessuno.

Trasporti: Si cerca di bloccare – con argomentazioni formali del tutto speciose e argomentazioni sostanziali di difesa dell’italianità dell’impresa – l’operazione di fusione tra Autostrade e la spagnola Abertis .
Si rinnovano i vertici di pezzi importanti della presenza statale nel settore, o confermando chi ha guidato i disastri degli ultimi anni, o promuovendo ex sindacalisti e altri.
Spicca tra questi un ex dirigente IRI che negli ultimi anni ha condotto la Stretto di Messina S.p.A., massima fautrice del discusso progetto del ponte sullo stretto, che è stato posto ai vertici di Anas. Due dettagli: il primo, è che il Ponte sullo Stretto era l’unica opera esplicitamente menzionata nel Programma dell’Unione per dire che non andava fatta. Il secondo, che il neo presidente di Anas non si è ancora dimesso dalla Stretto di Messina, che dovrebbe essere quanto meno un promoter di un’opera data in concessione dalla stessa Anas. Meno male che la maggioranza vuole riprendere in mano il tema del conflitto di interessi…
Alitalia resta nei guai, ma per fortuna sulle sue alleanze interviene anche il vice-presidente del Consiglio, come se il management (appena rinnovato) dovesse agire sotto tutela e senza la fiducia del Governo.
Ma nel programma dell’Ulivo non c’era scritto che si voleva un’Autorità indipendente per il settore dei trasporti? Pare in realtà che la presenza pubblica sia in aumento, non in diminuzione…

Telecomunicazioni. Un consigliere del Presidente del Consiglio immagina un piano di pesante ristrutturazione di un’impresa privata (Telecom), lo comunica su carta intestata della Presidenza ai vertici di questa impresa, ma il Presidente del Consiglio (a quanto pare) non ne sa nulla. All’interno di questo piano si prefigura una ri-nazionalizzazione della rete telefonica tramite la Cassa Depositi e Prestiti, che già da diversi anni (soprattutto sotto Tremonti e Siniscalco) è tornata al centro delle “nuove partecipazioni statali”.
Da più parti della maggioranza si reclama l’utilizzo dei poteri speciali associati alla golden share, che dovrebbe essere riservata a casi in cui siano lesi gli “interessi vitali” del paese.
Cosa emerge da questo mosaico, a parte alcuni curiosi elementi di dilettantismo? Forse effettivamente alcune regolarità, alcune linee guida si possono dedurre.

  1. Il Governo crede (ma certo senza estremismi) nella deregulation dei settori che potenzialmente sono concorrenziali (professioni, commercio), ma le lobby (taxi) restano molto ascoltate;
  2. Il Governo cerca di dire la sua su ogni grande operazione e su ogni grande impresa, che sia all’interno del portafoglio del Tesoro (Alitalia) o meno (Telecom);
  3. Le grandi imprese (autostrade, Enel, Eni, …) vengono in primo luogo difese, soprattutto nella loro italianità;
  4. La presenza politica nell’industria non sembra destinata a diminuire, e talvolta appare in aumento;
  5. La smania di protagonismo dei diversi membri del Governo e della maggioranza prevale sul tentativo di avere una “cabina di regia” della politica industriale.

Alcune di queste cose sono del tutto legittime, per carità, e se è vero che l’Italia non ha mai avuto governi liberisti, anche questo non fa eccezione. In questo e in altri sensi, non si può certo dire che i segnali di discontinuità siano molto forti. Se al vertice di Bankitalia il cambiamento è stato marcato (e benvenuto!), al vertice del paese forse servirebbe lo stesso rispetto dei ruoli tra autorità pubblica e imprese che oggi contraddistingue il comportamento del Governatore Draghi.
Speriamo che eventuali discontinuità non provengano dalla nazionalizzazione delle reti: non si sente proprio il bisogno di aumentare il numero di reti in mano pubblica. Si pensi alla qualità della rete ferroviaria, alla rete idrica che perde circa il 35% dell’acqua immessa, alle infrastrutture del sistema energetico, che 3 anni fa ci ha dato il black-out e che l’anno scorso ci ha costretto ad abbassare la temperatura delle case. Vogliamo altre reti pubbliche? Per carità…
E nessuno sente veramente il bisogno che sia Palazzo Chigi a dettare i comportamenti a Telecom Italia. Le preoccupazioni sono legittime, il resto (i toni, il documento Rovati, …) lascia perplessi. Quello che veramente servirebbe, sarebbe più chiarezza per i piccoli azionisti (che ogni anno si trovano di fronte a piani industriali sempre meno credibili) e maggiore capacità degli stessi azionisti di minoranza (inclusi i fondi di investimento) di intervenire a difesa del valore dell’impresa.
Che lo Stato si occupi delle regole e di fare funzionare i mercati (e le autorità di regolazione ove strettamente necessario). Al resto dovrà pensare la responsabilità degli azionisti. Forse la riunione del CdA di Telecom che ha condotto alle dimissioni di Tronchetti Provera è un buon segno; lo vedremo nei prossimi giorni.

ARTICOLI CORRELATI
Lo Stato regoli, il mercato giudichi
di Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore, 14 settembre 2006

Core business, equazione irrisolta
di Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore, 12 settembre 2006

Tutti gli errori dei due contendenti
di Alessandro Penati – La Repubblica, 15 settembre 2006

Linea disturbata
di Tito Boeri – La Stampa, 17 settembre 2006