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→  maggio 20, 2007

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di Eugenio Scalfari

NASCE oggi a Milano la sesta banca mondiale e la prima italiana per quanto riguarda la capitalizzazione, superando la concentrazione Intesa-Sanpaolo, con 100 miliardi di euro contro 77, novemila sportelli contro settemila, 40 miliardi di ricavi contro 18. Ma queste cifre, di per sé eloquenti, non dicono ancora tutto.
L’Unicredito di Profumo e Geronzi avrà il 9 per cento di partecipazione in Mediobanca mentre Intesa ha acquistato di recente il 2,5 della maggiore banca d’affari italiana ma fuori sindacato. Nelle Generali la stessa Mediobanca detiene il 14 per cento e la nuova Unicredito il 6 per cento contro il 2,3 di Intesa.
Impressionante è la mappa delle partecipazioni industriali del nuovo colosso, presente nei sindacati di Pirelli, Camfin, Gemina, Investimenti Infrastrutture, Rizzoli-Corsera, Parmalat, Borsa Italiana, Autostrade, Fiat. Senza contare le posizioni di sostegno finanziario consolidato in molte altre imprese.
In sostanza la fusione tra Unicredit e Capitalia oltre a costituire una concentrazione bancaria perfettamente complementare quanto a distribuzione di sportelli dal Piemonte fino alla Sicilia, è anche una grande holding presente con dimensioni importanti nei punti nodali dell’economia industriale italiana.
Un “monstrum” quale ancora non si era mai visto in Italia dagli anni Trenta del secolo scorso, quando la crisi mondiale tagliò le gambe all’altro “monstrum” dell’epoca che faceva capo alla Banca Commerciale di Toeplitz e finì poi nelle braccia dell’Iri appositamente creato per salvare dal collasso l’intera economia italiana. Il “monstrum” di oggi è profondamente diverso da quello di allora che aveva immobilizzato le banche con investimenti rischiosissimi nell’industria pesante. Oggi non è così. La finanza domina l’industria ma l’impegno diretto delle banche e quindi l’immobilizzazione del capitale e i rischi che ne conseguono sono infinitamente minori. Inoltre il mercato bancario conta molti operatori, sia italiani che europei, la vigilanza delle banche centrali è notevolmente aumentata e gli istituti di credito sono tutti contendibili. Insomma la concorrenza è rilevante e obbliga i vari operatori ad una continua attenzione e ad un continuo ammodernamento del quale i clienti non possono che beneficiare.
Sta di fatto però che la rete degli incroci tra banche e imprese e i conflitti d’interesse che ne derivano è enorme. La nascita del nuovo Unicredito non solo non li elimina ma li moltiplica e questo non è certo un bene.

Aggiungo anche che l’Unicredit che fin qui abbiamo conosciuto soltanto come “predatore” può diventare una preda per i «private equity» e per le grandi banche americane. Pur non essendo tra i difensori per principio dell’italianità delle aziende e delle banche, suscita preoccupazione pensare che eventuali operazioni di conquista del nuovo Unicredito metterebbero le mani su una parte rilevante dell’economia del nostro paese. Per non parlare del dislivello di potere tra i colossi banco – finanziari e l’autorità politica che, dopo queste operazioni (ma già da prima) diventa incommensurabile.

Trent’anni fa il problema degli incroci azionari tra banche e imprese provocò un dibattito molto acceso. La legge bancaria, redatta quasi contemporaneamente alla nascita dell’Iri, poneva un divieto assoluto che per molti anni restò invalicabile. Proprio per ovviare ad una separazione così rigida fu creata Mediobanca (e con minori dimensioni l’Imi): istituzioni di proprietà pubblica che non potevano raccogliere depositi ma soltanto emettere obbligazioni, collocate tra i risparmiatori dalle banche di credito ordinario.
La particolarità di Mediobanca (quella fondata e diretta per tre decadi da Cuccia) fu proprio questa: le sue azioni erano in mano all’Iri il quale tuttavia non aveva poteri di indirizzo sulle operazioni e neppure di vigilanza: quest’ultima era esercitata dalla Banca d’Italia, quanto alle erogazioni del credito a lungo termine, cioè di finanziamento delle imprese, era Mediobanca a decidere in piena autonomia. L’Iri in sostanza funzionava come una cassaforte nella quale erano chiuse a doppio mandato e congelate le azioni di Mediobanca. Per dire che Mediobanca non era scalabile e per certi aspetti simile ad una fondazione.
Il sostegno finanziario alla Fiat, alla Pirelli, alla Montecatini, alla Orlando, all’industria tessile, alla Ferruzzi, a De Benedetti, insomma all’industria italiana di grandi dimensioni, faceva capo a Mediobanca. Le fusioni facevano anch’esse capo a Cuccia, lo sviluppo dell’economia privata era insomma finanziato da una società pubblica. Da allora fu chiamata il salotto buono. Buono per chi ci stava dentro, nient’affatto buono per chi ne era fuori.
L’internazionalizzazione dell’economia e i progressi tecnologici, insieme alla crisi del modello familiare sempre più inadatto a gestire imprese di grandi dimensioni, mandarono a gambe all’aria questo modello. Le banche ordinarie cominciarono ad eludere il divieto della legge bancaria; prese piede il modello della banca totale, diversificata, che accanto all’esercizio del credito di funzionamento cominciò ad erogare crediti finanziari a medio e lungo termine.
I rischi assunti crearono sofferenze sempre più ampie e nuove immobilizzazioni, anche se in misura molto minore di quanto era avvenuto nei primi trent’anni del Novecento.
La legge bancaria fu modificata, l’ingresso delle banche nel capitale industriale fu di nuovo consentito sia pure con rigidi limiti. Gli incroci presero nuovo slancio.
La legge Draghi cercò di dare una sistemazione a tutta questa materia. Fu introdotta l’Opa obbligatoria al di sopra del 30 per cento. Gli incroci azionari furono limitatamente legalizzati. Fu creata la Consob e altre autorità di regolamentazione a cominciare dall’antitrust.
Perché rievoco questo (recente) passato? Perché da allora, com’era facile prevedere, la rete degli incroci è diventata una foresta vergine.
Oggi l’attualità ci suggerisce di rivisitare questa foresta almeno per quanto riguarda l’operazione Unicredito – Capitalia. Ho sotto gli occhi un grafico pubblicato su «24 ore» di venerdì. Queste sono le reciproche presenze tra di loro dei vari soggetti coinvolti: Unicredit detiene il 3,7 per cento di Generali; Generali il 2,3 di Capitalia; Capitalia il 2,6 di Generali; Intesa il 2 per cento di Capitalia; Capitalia il 9 per cento di Mediobanca (ma Profumo si è impegnato a venderlo agli azionisti di quella banca); Generali hanno il 2,1 di Mediobanca ma quest’ultima detiene il 14 di Generali; ancora Generali hanno il 5 per cento di Intesa; Intesa ha il 2,2 di Generali e il 2,5 di Unicredit. Infine Unicredit ha il 9 di Mediobanca.
Che ne dite, voi lettori, di questa rete? Anzi di questo gomitolo che a districarne i capi ci vorrebbero anni? Non vi ingannino le percentuali di partecipazione apparentemente modeste: alle spalle di esse esistono patti di sindacato tra i vari soggetti che raggiungono quote di controllo assai consistenti e si basano sul rispetto dei reciproci interessi.
Non a caso il 9 per cento di Capitalia in Mediobanca, che insieme alla nascita del nuovo Unicredito sarà venduto, non andrà sul mercato ma verrà offerto in prelazione agli attuali membri del sindacato e ad altri graditi ai predetti. Tra questi spuntano le Casse di risparmio di Torino e di Verona e la società Perseo. Le due Casse fanno parte del sindacato che controlla Unicredit. Perseo è invece una società con un azionariato molto interessante; ne fanno infatti parte la Cassa di risparmio di Torino, le Generali, Mediobanca, Aviva: controllori e controllati tutti insieme come la Sacra Famiglia. Ancora una volta incroci, incroci, incroci. La nebulosa del conflitto di interessi avvolge ormai l’intera economia del pianeta, globalizzata e – specie in Occidente – finanziarizzata. Lo stesso Guido Rossi, che negli ultimi vent’anni ne è stato il principale studioso e il più tenace avversario, sembra ormai essersi rassegnato di fronte alla vastità del fenomeno. Questa ormai è la più aggiornata edizione del capitalismo di fronte alla quale sia l’autorità politica, sia le sempre più deboli organizzazioni sindacali si dimostrano impotenti. La politica resiste nel suo ruolo di guida soltanto nei regimi strutturalmente dittatoriali: in Cina, in Russia e in pochi altri luoghi di incerta fisionomia sociale. Nuove disuguaglianze esplodono, nuove ingiustizie agitano la società.
Ma questo è un discorso più vasto e non riguarda soltanto la piccola Italia.

Personalmente sono favorevole all’operazione Profumo di fusione tra Unicredit e Capitalia. E’ perfetta dal punto di vista strettamente bancario, crea un «campione» italiano nel settore del «banking» con una proiezione all’estero robusta; non affievolisce la concorrenza sul mercato italiano e l’accentua su quello europeo. Infine si compie nel rispetto di tutti gli azionisti dei due istituti promotori.
Naturalmente crea molto potere aggiuntivo al management in carica. Accresce la densità degli incroci.
Raccoglie in un solo punto la concentrazione e la guida d’una parte rilevante del sistema economico-finanziario italiano. Questi sono gli aspetti negativi o quanto meno inquietanti dell’operazione.
Si dice che Profumo voglia correggere tali aspetti ma non sarà certo un’impresa facile. Dubito molto che i suoi potenti azionisti lo lasceranno procedere autonomamente su questa strada. Certo ha dimezzato la partecipazione del nuovo Unicredito in Mediobanca dal 18 per cento al 9, ma questa «virtuosa» iniziativa è avvenuta per evitare una guerra senza esclusione di colpi con gli azionisti francesi guidati da Bolloré e per venire incontro alla «moral suasion» di Draghi, al broncio di Bazoli, all’opposizione della stessa Mediobanca e delle Generali. Vedremo il seguito, per ora siamo agli inizi.
Il governo non ha influito in nessun modo sull’operazione. Chi parla di ingerenze e di alleanze politiche non sa quel che dice per la semplice ragione che la politica – l’abbiamo già detto – non è in grado di influire in nessun modo sul potere bancario. Quanto al potere bancario, esso è neutrale rispetto al mondo della politica, lo considera irrilevante dal suo punto di vista ed ha perfettamente ragione.
Però c’è un però. Non riguarda le singole operazioni ma l’erogazione del credito nel suo complesso.
Può quell’erogazione obbedire semplicemente alla creazione di valore per gli azionisti? La moralità aziendale esaurisce e soddisfa la moralità pubblica complessiva? E quella individuale dei protagonisti?
L’erogazione del credito è lo strumento di potere più efficace che esista perché crea e distrugge ricchezze e destini di individui, regioni, nazioni. Non è affatto neutrale sulla felicità delle persone e delle comunità, nel presente e nel futuro delle generazioni.
Credo che questi pensieri ci siano nella mente dei protagonisti dell’operazione Unicredito o almeno nel suo primo attore. Sarebbe interessante se volesse dirci come la pensa in proposito.

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Unicredit-Capitalia
di Franco Debenedetti – Il Foglio, 19 maggio 2007

Unicredit darà ancora soddisfazioni
di Franco Debenedetti – Libero Mercato, 19 maggio 2007

→  aprile 1, 2007


di Stefano Lorenzetto

Quando nel 1984 lasciò McKinsey, la più famosa società di strategia e di consulenza manageriale, il boss gli fece il miglior complimento che abbia mai ricevuto in vita sua. «Vedete», disse agli ospiti intervenuti alla cena di commiato, «Ettore possiede una dote davvero rimarchevole: ha lo stesso numero di figli che noi in media abbiamo di mogli». E allora ne aveva solo tre.

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→  marzo 23, 2007


di Piergiorgio Odifreddi

Torna in libreria lo “scandaloso” saggio di Bertrand Russell sul matrimonio
Il 24 febbraio 1940 il City College di New York affidò a Bertrand Russell l’incarico di tenere l’anno seguente tre corsi di filosofia: il primo sui concetti moderni della logica, il secondo sulle basi della matematica e il terzo sulle relazioni tra scienza pura e applicata. Il vescovo William Manning inviò immediatamente una lettera ai giornali cittadini, avvisando la popolazione che l’incaricato era «un uomo noto come propagandista antireligioso e antimorale, che difende in particolar modo l’adulterio». Il settimanale gesuita America precisò che egli era «un arido e decadente difensore della promiscuità sessuale», e il senatore John Dunigan dichiarò in aula che la filosofia di Russell «sovverte religione, stato e famiglia».

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→  marzo 19, 2007

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di Alberto Statera

“Un allarme per la democrazia”, scandì Romano Prodi quando nella Commissione Antitrust, regnante Berlusconi, furono nominati da Pierferdinando Casini e Marcello Pera, rispettivamente presidenti di Camera e Senato, Giorgio Guazzaloca e Antonio Pilati. Un allarme così grave perché l’ Autorità per la concorrenza, in un paese democratico, è la più importante e, in un sistema bipolare si richiede che sia una “forte e robusta istituzione di garanzia”. Pena, tra l’ altro, “la delegittimazione dell’ Italia nel contesto europeo”, aggiunse Prodi. Lo scandalo, pur in un momento in cui i conflitti d’ interessi erano ben altri, era allora più che legittimo, visto che a garantire il mercato, la concorrenza e i consumatori d’ Italia erano stati chiamati due personaggi che il rispetto sostanziale della legge avrebbe dovuto escludere a priori: Giorgio Guazzaloca, di professione macellaio ed ex sindaco di Bologna, quindi a digiuno totale di mercato e concorrenza, e Antonio Pilati, tutt’ altro che digiuno, ma autore del testo della Gasparri, la legge sulle telecomunicazioni fatta su misura per l’ allora presidente del Consiglio in carica, un signore competente che assurgeva a controllore delle leggi da lui stesso elaborate. Sudamerica, panorama sudamericano.
Passati gli anni, Guazzaloca e Pilati sono restati a piè fermo, senza che l’Europa per la verità ci abbia espulsi come vaticinava Prodi. Due commissari scaduti, Carlo Santagata e Nicola Occhiocupo, sono stati invece sostituiti giorni fa, con nomina firmata dai presidenti delle Camere Fausto Bertinotti e Franco Marini, ben impreparati entrambi in tema di mercato e di concorrenza, si presume sentito Palazzo Chigi. I fasti dell’ era berlusconiana si spera siano inimitabili, e nessuno avrebbe avuto il coraggio di proporre la nomina all’ Antitrust del panettiere bolognese della signora Flavia Prodi, nè del grande banchiere Nanni Bazoli, o del furbissimo consigliere presidenziale Angelo Rovati, autore del famoso piano di riassetto della Telecom, che tante grane procurò al premier. Ma la scelta di Marini e Bertinotti non è quella che ci si sarebbe aspettata. Non certo quella che ribalta la valutazione delle Autorità, che dovrebbero essere garanti dei consumatori e della democrazia, pena l’ allarme denunciato tre anni fa dall’ attuale premier.
Sono personaggi indiscutibilmente di vaglia Carla Rabiti Bedogni e Piero Barucci, nominati all’ Antitrust da Bertinotti e Marini. La prima è docente di diritto del mercato finanziario alla Sapienza di Roma. L’ altro, ex ministro del Tesoro, è presidente della Banca Leonardo e ha ricoperto posizioni di vertice in molte banche, dal Credito Italiano al Monte dei Paschi di Siena, fino a Mediobanca. Ma soprattutto è stato presidente dell’ Abi, l’ Associazione Bancaria Italiana, che è la lobby dei banchieri, più volte oggetto delle attenzioni non proprio amichevoli dell’ Antitrust per i sospetti di cartello. Nel primo caso, come ha notato Franco Debenedetti, ex senatore dei diesse che, non ricandidato, fa ora il giornalista con impatto assai più efficace di prima, c’ è quantomeno uno “sgarbo istituzionale”, in quanto i presidenti delle Camere sapevano benissimo che c’ è all’ esame delle loro assemblee una legge che prevede il divieto del passaggio da un’ Autorità all’ altra, per evitare il “professionismo” delle Autorità. E la Bedogni, purtroppo, viene dalla Consob. Nel secondo caso, è piuttosto evidente che la storia personale, come si dice, non fa del professor Barucci, nonostante la stima che se ne coltivi, il più puro difensore delle regole della concorrenza, del mercato, il più inflessibile persecutore delle posizioni dominanti, degli abusi, né l’irrogatore senza cuore di sanzioni a banche, di cui magari è stato per anni amministratore delegato o consigliere. Credevamo francamente che l’ “allarme democratico” lanciato a suo tempo dall’ ex presidente della Commissione Ue, avrebbe guidato meglio, “qui e ora”, la mano digiuna di mercato di Bertinotti e Marini.

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Antitrust. Gli errori di Marini e Bertinotti
di Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore, 12 marzo 2007

→  febbraio 15, 2007


di Mattia Feltri

Nel nuovo libro di Andrea Romano la parabola di tre ex ragazzi tra divisioni e ripensamenti. Come quello di Veltroni che da giovane criticava il kennedismo e inneggiava a Mao
Ognuno col suo viaggio, ognuno diverso», scrive Andrea Romano a proposito di Massimo D’Alema, Piero Fassino e Walter Veltroni, e citando il poeta – cioè Vasco Rossi – che per il cognome, da un certo punto in poi, è l’elemento più ortodosso rimasto in campo. Nella sua ribalderia, Romano ha perlomeno la grazia di omettere il verso successivo: «Ognuno in fondo perso dentro i c… suoi».

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→  febbraio 6, 2007

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di Salvatore Bragantini

Prima due articoli di Francesco Giavazzi, poi una lettera di Franco Debenedetti hanno criticato sul Corriere la nascita di F2i, il fondo per le infrastrutture promosso dalla Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) e da altre banche; se Giavazzi riconosce i meriti del capitalismo di Stato nella rinascita postbellica—ricordati da Barry Eichenberg nel suo “The european economy since 1945” — entrambi temono che rinasca l’Iri.
Il capitalismo di Stato è il passato, non il futuro; su alcuni punti, tuttavia, è bene tornare. Aveva ragione l’allora presidente Iri, Prodi, a cercare di togliere ai privati il controllo di Mediobanca, giacché esso era esercitato grazie a un accordo impresentabile, e perciò nascosto. Definito da Cesare Merzagora un pasticcio di allodola e cavallo, esso conferiva ai privati un peso sproporzionato alle poche lire da loro investite; era il tipico prodotto di un mondo del quale nessuno — certo non Giavazzi o Debenedetti — ha nostalgia.

Se il capitalismo di Stato non ha futuro, ciò non comporta che lo abbia invece un altro capitalismo, spesso relazionale, familista e teso ad estrarre dalle imprese i benefici privati del controllo, più ostile al mercato di quello di Stato. La sagacia dei grandi gruppi del cortile domestico nel costruire buoni progetti industriali spesso sonnecchia, come Omero. Si pensi al fiasco del reimpiego degli indennizzi per le imprese elettriche prima, o al sonno tranquillo di Fiat come azionista di Telecom poi: c’è voluta la ruspante razza padana, con la sua inclinazione per le scorciatoie legali, per scoprire quale miniera si nascondeva lì sotto.

In verità i nostri due capitalismi, di Stato e privato, sono sempre andati a braccetto. Ciò vuol dire che non possiamo puntare sui privati? Certo che dobbiamo farlo, però pregando la divina provvidenza, ove pensi a tali minuzie, di far crescere, alfine, il medio capitalismo italiano: quello che miete successi in giro per il mondo, sempre schiacciato dal capitalismo di relazione. Questo, peraltro, ci pensa da solo a sparire: si vedano le grandi imprese che sono sparite nell’oblio, quando non affondate negli scandali.

Quanto a F2i: nascono tanti fondi per infrastrutture nel mondo, perché non dovrebbe nascerne uno in Italia, che di infrastrutture moderne ha gran bisogno? Se il rischio d’impresa per esse è più basso, i fondi possono trovare soldi prospettando rendimenti inferiori a quelli usuali nel private equity. Se ciò avvicina i fondi più ai bond a lungo termine che alle azioni, che c’è di male? I fondi pensione avranno fame di questi asset. Era indispensabile che in F2i ci fosse, con la Cassa, denaro pubblico? No, ma se partecipano Intesa San Paolo, Lehman e Unicredit, perché non può farlo, in minoranza e senza patti d’antan, una banca pubblica? F2i stimolerà, non impedirà, la nascita di fondi simili.
La partecipazione di Cdp in Terna non sarà venduta a F2i, perché una legge lo impedisce, a tutela degli investitori. Ci volle infatti una legge “speciale” per consentire ai gestori di fondi immobiliari di cedere immobili ai “propri” fondi. Ne beneficiò Pirelli Re, insieme a qualche ente pubblico; non si ricordano molte proteste. C’è pericolo che F2i compri a poco prezzo cespiti senza gara, facendo concorrenza sleale, o al contrario paghi care le reti di società decotte, a favore delle banche creditrici? Quando accadrà ci ribelleremo: farlo ora è un processo alle intenzioni, senza presupposti di fatto. Se poi F2i acquistasse infrastrutture dal settore pubblico, il peso di questo nella nostra economia scenderebbe, liberando risorse per scopi più consoni.
Certo, a pensar male spesso ci si prende, e F2i potrebbe deragliare dalle intenzioni dichiarate, ma il rischio che esso avvii la riscossa del capitalismo di Stato mi pare inferiore a quello di una nuova era glaciale. Non si vede, infine, perché il denaro pubblico, che non ha fatto voto di castità, debba precludersi, anche in piccola parte, l’accesso alle sensuali delizie della leva finanziaria, così beatamente godute dagli oligopolisti privati.

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Sotto quel fondo moderno c’è molto di antico, l’Iri
di Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore, 26 gennaio 2007

Capitalismo di stato
di Francesco Giavazzi – Il Corriere della Sera, 27 gennaio 2007

… a proposito di F2i -Fondo Italiano per le Infrastrutture
la risposta di Vito Gambarale, 27 gennaio 2007