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→  marzo 26, 2008

corrieredellasera_logoCosa insegna il caso AUDI

di Massimo Mucchetti

Da sei mesi in qua accadono fatti curiosi. A Londra, la Bank of England nazionalizza la Northern Rock dopo averle prestato risorse ingenti senza le usuali garanzie. A New York, la Federal Reserve assicura con risorse pubbliche il salvataggio della banca d’investimento Bear Stearns a opera della JP Morgan per evitare che la sua insolvenza mandi a picco altre banche sue controparti. A Detroit, la General Motors e la Ford licenziano operai e impiegati con salari alti e protezioni pensionistiche e sanitarie per sostituirli con giovani pagati la metà e senza corporate welfare. In Germania, l’Audi dà un bonus di 5.700 euro ai dipendenti, e non è la sola grande impresa a farlo. Sono episodi legati a circostanze specifiche, ma riletti in sequenza sembrano declinare la crisi dell’arciliberismo. Nel suo «Supercapitalism», che l’editore Fazi sta traducendo per l’Italia, Robert Reich, già ministro del Lavoro nella prima presidenza Clinton, sostiene che la supremazia del consumatore finisce per mettere in crisi il cittadino. La concorrenza senza vincoli determina la ritirata del diritto, figlio della politica, a favore di una contrattazione sempre più parcellizzata, nella quale prevale il più forte e la rappresentanza del lavoro dipendente viene sopportata come un cartello residuale. Nella pubblica amministrazione e nei monopoli, in effetti, gli insiders costituiscono spesso corporazioni di fatto. Ma nei settori esposti alla concorrenza gli interessi delle persone si manifestano diversamente. La ristrutturazione dell’industria automobilistica americana è l’esempio classico di quanto costi l’ aumento della concorrenza derivante dalla globalizzazione. E di come questo prezzo venga caricato sulle spalle di lavoratori che credevano di far parte della classe media, architrave delle democrazie. Detroit fa emergere le schizofrenie del cittadino lavoratore. Come produttore, questo cittadino cerca il salario migliore. Come sottoscrittore del fondo pensione, può aver interesse al licenziamento di altri produttori se così salgono le quotazioni dei titoli nei quali il fondo investe per pagargli la pensione domani. Come consumatore, desidera merci e servizi ai prezzi più convenienti, ma non avrà nessuna soddisfazione a vedere scaffali pieni e auto coreane a buon mercato se non ce la fa più a star dietro alle offerte perché, come scrive Reich, al netto dell’inflazione prende la stessa paga oraria di trent’anni prima, ha già rinunciato a 15 giorni di vacanza per arrotondare, la moglie lavora, ha il mutuo, la casa in pegno alla banca, e magari teme pure di perdere il posto. La nuova popolarità del protezionismo non deriva da un errore della storia, ma dai limiti di quello che Giulio Tremonti chiama mercatismo.

Può essere che anche in Italia i dazi, ancorché calibrati, difendano la manifattura di 5 anni fa e non quella attuale che ha imparato a fare i conti con la Cina. Può essere che l’invocazione di un governo sovranazionale della globalizzazione suoni meglio se fatta da un euroentusiasta anziché da un euroscettico. Può essere tutto. Ma può bastare la pedagogia liberista o non serve invece una politica che ricomponga l’Io diviso del cittadino nell’ età della globalizzazione? Chi è sensibile alle sofferenze del mondo può accettare sacrifici, meglio se provvisori, quando l’ apertura dei mercati e le nuove tecnologie offrano occasioni di riscatto a centinaia di milioni di persone. Ma è difficile imporre un prezzo se non è ben ripartito. Negli Usa dove la religione del Pil si è celebrata anche sull’ altare dei subprime, la disuguaglianza è a livelli record. Nell’ Italia della crescita stenta, come la definisce Draghi, i salari restano al palo, mentre i guadagni di top manager e capitalisti volano. Si dice sia il mercato dei migliori, ma forse è soltanto il circolo collusivo al vertice della piramide sociale. E’ in tale contesto che si scopre il vero volto della più globalizzata delle attività economiche, quella bancario-finanziaria: non è la più concorrenziale, e nemmeno la meglio organizzata come si è raccontato fin qui per giustificare i fasti della sua gerenza, ma la più protetta perché non corre il rischio di fallire. E perché a pagare il conto sono i contribuenti, i dipendenti e i soci (fra cui i fondi pensione), assai meno il vertice che conserva retribuzioni, vecchie stock options, consulenze e commissioni fondate su gestioni di cui ora pagano il fio soprattutto gli altri. Se l’ economia in generale rischia una selezione rovesciata con il protezionismo, lasciar fare al capitalismo finanziario e abbandonare a se stesso il lavoro minaccia la coesione della società. Le soluzioni non sono facili per nessuno. Ma, in fondo, il caso Audi qualcosa insegna. La società tedesca paga un premio ai dipendenti per due buone ragioni. La prima è perché guadagna bene grazie ad automobili eccellenti prodotte in modo efficiente, segno di un sistema che sa rinnovare la propria vocazione industriale anche per effetto delle politiche pubbliche. La seconda è perché nel consiglio di sorveglianza dell’ Audi siedono i rappresentanti dei lavoratori: non perché abbiano investito nelle azioni della ditta, ma perché lo stabilisce la legge. Quando Nicolas Sarkozy auspica l’ equa tripartizione del valore aggiunto tra capitale, lavoro e fisco dimostra che anche per un francese di destra la sfida della cittadinanza passa attraverso un’ inversione di tendenza nella redistribuzione. L’ Audi aggiunge che la redistribuzione è tanto più solida quanto più potere e responsabilità sono condivisi per decisione democratica dei cittadini.

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→  marzo 8, 2008

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Protezionisti e liberisti

di Angelo Panebianco

Questione dell’aborto a parte, quella innescata da Giulio Tremonti su protezionismo e globalizzazione, con le reazioni polemiche che ha suscitato, è, almeno fino ad ora, l’unica discussione politico- culturale degna di questo nome della campagna elettorale. Investe un tema su cui l’intero Occidente è diviso e, plausibilmente, si dividerà ancor più nei prossimi anni. Una divisione che, per giunta, è impossibile ricondurre alla logora distinzione destra-sinistra. Si pensi, ad esempio, al fatto che il protezionismo è una delle bandiere del candidato alla nomination democratica Barack Obama.

Tremonti, armato dell’intelligenza e dell’anticonformismo che tutti gli riconoscono, ha rotto lo schema classico che vede (dall’epoca reaganiana e thatcheriana in poi) i liberal- conservatori combinare anti-proibizionismo in economia e tradizionalismo nelle questioni etiche. Riprendendo temi che aveva già sollevato in passato e a cui ha dato veste più sistematica nel suo ultimo libro, Tremonti ripropone l’idea della necessità di una dura difesa europea, e occidentale, dalla concorrenza asiatica. Nel quadro di una rivolta, anche morale, contro la rinuncia della politica a guidare il mercato. Sarebbe facile (ma sbagliato) dire che in questo modo i «no-global», coloro che combattono il mercato globale, hanno trovato un campione, inaspettato ma anche molto più preparato di quelli che si erano scelti fino ad oggi. Sarebbe sbagliato perché Tremonti non è certo, a differenza dei no-global, un avversario del capitalismo e della libera impresa. Ciò che propone è una protezione del capitalismo occidentale dal dumping
sociale, ossia dall’aggressione economica portata da Paesi nei quali le condizioni politiche garantiscono bassi salari e vantaggi competitivi. Una protezione che, nella visione di Tremonti, spetta agli statisti, a una politica di nuovo consapevole del proprio ruolo di comando, assicurare.

Non c’è dubbio che una posizione come quella di Tremonti sia fatta per dividere trasversalmente gli schieramenti. Contrastata dai liberali del centrodestra (ben rappresentati da economisti come Renato Brunetta o Antonio Martino) può trovare orecchie attente nel sindacalismo, Cgil compresa. Può attrarre quella parte del ceto medio, per esempio il mondo artigianale, estraneo ai processi di internazionalizzazione dell’economia, ma può anche arrivare a spiazzare e imbarazzare la sinistra estrema.

Non è certo l’unico, né il primo, Tremonti, a mettere in guardia contro la cosiddetta «faccia oscura della globalizzazione». In Occidente lo hanno già fatto molti altri prima di lui. Ma c’è una differenza. Tremonti occupa un ruolo politico di primissimo piano all’interno di uno schieramento liberal-conservatore e, se le elezioni daranno la vittoria al Popolo della libertà, sarà di nuovo alla guida dell’economia italiana. Ha ragione Alberto Mingardi quando, sul Riformista, osserva che Tremonti sembra proporre l’archiviazione del reaganismo, sinonimo (più nell’immaginario che nella realtà) di liberalismo economico senza vincoli, e il ritorno a forme di conservatorismo «sociale» come quello che fu incarnato in Europa dal generale De Gaulle.

Come Francesco Giavazzi (su questo giornale), come Renato Brunetta, come Antonio Polito (Il Riformista), come Fabrizio Onida (Il Sole 24 ore), anche chi scrive pensa che la strada indicata da Tremonti non sia quella giusta, e che la concorrenza, anche quella drogata dei colossi asiatici, possa essere affrontata solo con riforme liberalizzatrici e con la lotta contro l’oppressione burocratico-statale dell’economia. E non mi sembra che questo sarebbe un compito indegno, o subalterno, da proporre alla politica. Per esempio, piuttosto che la creazione di istituti di credito, se non pubblici, comunque guidati dallo Stato, non servirebbe di più al nostro Mezzogiorno, come ha proposto l’Istituto Bruno Leoni, la sua trasformazione in una no taxation area per le imprese disposte ad investirvi?

Pur non condividendo, riconosco tuttavia che quella di Tremonti è una posizione rispettabile e seria. È quello, comunque, uno dei più importanti temi con cui gli occidentali dovranno confrontarsi nei prossimi anni. Nonostante il ruolo politico di Tremonti, tuttavia, non credo che, in caso di vittoria del centrodestra, la sua posizione culturale possa tradursi in immediata azione politica. Non solo perché nel centrodestra sono in molti a pensarla diversamente da lui. Ma anche, o soprattutto, perché chi avrà responsabilità di indirizzo economico nei prossimi anni sarà inevitabilmente «assalito dalla realtà», dovrà fare i conti, prima di ogni altra cosa, con la necessità, comunque, di liberalizzare l’economia, colpire le rendite politiche annidate al centro e alla periferia, fare insomma tutte quelle cose che piacciono ai liberali, a quelli che pensano che il mercato, meglio senza frontiere, non sia solo il mezzo più efficiente per creare e distribuire ricchezza ma sia anche garanzia di libertà (per chi ce l’ha) e di emancipazione (per chi vi aspira).

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di Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore, 08 marzo 2008

→  marzo 3, 2008


Ex Kathedra

di Michele Boldrin

All’accumularsi di segnali di recessione da un lato e di un cambiamento radicale nella distribuzione mondiale dell’attività economica (e di tanti prezzi relativi) crescono i profeti del cambio epocale e, soprattutto, della grande catastrofe. Discutiamone, prendendo come spunto recenti affermazioni di quei profeti dell’economia dell’orrore che si esprimono nella lingua del bel paese là dove il sì suona.

Caveat I. La morale a cui vorrei arrivare, alla fine della terza puntata, NON È che tutto va bene madama la marchesa, tutt’altro. A mio avviso i dati, i fatti e la teoria economica suggeriscono che non di una normale recessioncina si tratta (come pensavo, erroneamente, circa un anno fa sulla base dell’evidenza allora disponibile) e che alcuni cambiamenti radicali, germogliati e cresciuti nell’ultimo quindicennio, sono oramai maturi ed operanti. Tali cambi nel panorama economico mondiale, nel ruolo che l’economia USA svolge nel medesimo e nel modo in cui l’economia USA funziona, non sono cosa da poco e richiedono, credo, cambi sostanziali nelle politiche economiche nazionali ed internazionali. Di queste credo sia il caso di discutere, perché molta è l’incertezza sul che fare e sostanziale la nostra ignoranza delle implicazioni di lungo periodo di tali cambiamenti. Fare del catastrofismo gratuito per attirare su se stessi l’attenzione mediatica, o per raccogliere una manciata di voti prodotti dal timore popolare per il cambiamento, non è cosa né buona né giusta. Certamente non è fonte di salvezza per il cittadino comune.

Caveat II. Discutere di previsioni catastrofiche e di complessi scenari in cui “tutto ciò che può andare storto va” e quindi crollano il tempio, le case circostanti ed anche i villaggi limitrofi, non è mai cosa facile. Per una semplice ragione: tali scenari si basano sull’accumularsi di una serie di ipotesi di base tutte teoricamente possibili, ma ognuna di esse altamente improbabile. Come tutti sanno, se un singolo evento ha probabilità bassa (diciamo un 1/20) ed un altro evento, indipendente dal precedente, pure, la probabilità che entrambi gli eventi si realizzino simultaneamente è uguale a 1/400. Se poi gli eventi che simultaneamente devono verificarsi sono, per esempio, quattro o cinque ed ognuno ha probaiblità 1/20, la probabilità della loro simultanea realizzazione è, rispettivamente, 1/160.000 e 1/3.200.000. E questi sono numeri molto piccoli, mentre molto alti sono i loro complementi ad uno, che misurano la probabilità che qualcos’altro, meno catastrofico ma in genere più difficile da capire, succeda.

Non vi è nulla di male nel considerare anche eventi così improbabili: quando si fanno dei piani per il futuro è metodo ragionevole considerare tutto il possibile. Ma, quando si devono approntare politiche, occorre ricordarsi che di tutte le politiche possibili una sola è attuabile in ogni dato momento nel tempo. Non solo, molto spesso (e nel caso in questione, come argomenterò alla fine) le politiche adeguate alle circostanze che appaiono come più probabili escludono, anzi sono antitetiche, a quelle che si adatterebbero alle circostanze meno probabili. Peggio ancora: nelle circostanze in questione le politiche appropriate per il caso dell’improbabile catastrofe risulterebbero essere estremamente dannose se si verificassero gli eventi che, sulla base di quanto ci è dato conoscere in questo momento, appaiono come i più probabili. È quindi saggio, fra le politiche possibili, mettere in atto quelle adeguate alle situazioni più probabili e non quelle adeguate alle situazioni meno improbabili. Sulla base di questa banale nota metodologica, consideriamo gli scenari catastrofici.

Mi scuso in anticipo per la lunghezza di questo articolo, che cercherò di mantenere nei limiti del ragionevole non citando direttamente gli argomenti che discuto ma facendo riferimento ad articoli disponibili in rete. Sarò costretto comunque a farlo in tre puntate: l’alternativa sarebbe lanciarmi in affermazioni apodittiche, non argomentate, e completamente prive di supporto statistico. Insomma, affermazioni tanto improbabili quanto quelle che mi appresto a discutere. Cominciamo da Nouriel Roubini, senza dubbio il più visibile, in Italia, fra i profeti di sventura.

Ipotesi 1. Che i prezzi delle case negli Stati Uniti possano crollare (nel giro di un anno o due) tra il 20 e il 30 per cento rispetto al picco della bolla e che tra i 10 e i 20 milioni di famiglie (mica male l’intervallo di confidenza) si possano vedere costrette a vendere le proprie case è affermazione ingiustificabile sulla base di quanto sappiamo al momento. Potrebbe succedere? Certo, potrebbe, ma al momento la caduta media è di circa il 6% dal picco (dati dettagliati, dati sommari). Occorre anche saper interpretare queste variazioni: esse misurano la differenza fra i prezzi delle case vendute nel 2007 rispetto ai prezzi delle case vendute nel 2006. Poiché le case che cambiano di proprietà nel giro di un anno sono una frazione piccola dello stock totale (non ho i numeri sotto mano, ma se la memoria non mi inganna non dovrebbero superare il 6-7%) e poiché, quindi, una grande quantità di persone possiedono case comprate dieci, quindici o venti anni fa a prezzi bassissimi rispetto agli attuali, il fatto che il valore ipotetico della casa di costoro sia calato anche del 10% dal suo picco di un anno fa, non vuol dire un beato nulla. Queste famiglie, e stiamo parlando probabilmente dell’80-90% delle famiglie americane, deve pagare un mutuo residuo molto piccolo rispetto al valore di mercato attuale della casa. Non solo, anche fra quel 20-25% circa di famiglie che ha acquistato la propria casa negli ultimi 4 o 5 anni (fra cui il sottoscritto: la casa dove vivo ora l’ho acquistata un anno fa) non tutti si trovano davanti a cadute vertiginose del valore dell’immobile, anzi. Se date un’occhiata ai dati che ho appena citato, vedrete che in molte zone la caduta è di pochissimi punti percentuali, ed in altre i prezzi delle case sono addirittura saliti durante il 2007. Per quanto posso osservare dalle transazioni in corso nell’area dove vivo ora, i prezzi sono stabili o in leggera ascesa. Quasi simile la situazione nella zona dove vivevo prima, MN, che pure era stata una protagonista, in piccolo, della bolla: la flessione dei prezzi è dell’ordine del 3-5%. Insomma, di quel 20-25% di famiglie a “rischio” non più della metà (la mia stima è di un terzo, ma teniamoci larghi) si trova in aree in cui i prezzi stanno cadendo di percentuali superiori al 6-7%. Quante possano trovarsi in aree dove la caduta è del 20-30% non so, ed NR non indica le fonti delle sue previsioni. Occorre ora fare un altro aggiustamento: fra questo 10-12% di famiglie che possiedono case il cui valore è caduto del 10-15%, un certo numero riceve redditi alti e non ha alcun problema di continuare a pagare la rata del mutuo. È vero, è possibile che anche alcuni di costoro, a fronte del fatto che stanno pagando 100 per una casa che ne vale 80, decidano di lasciar andare tutto comprandosi un’altra casa. Ma, per ovvie ragioni di costi di transazione, perdite in conto capitale, caduta del credit rating, etcetera, moltissime famiglie non lo faranno. Io non conosco nessuno che teorizzi di voler fare una tale panzana, e fra le decine di amici che vivono ad LA e che dopo la bolla dell’inizio anni ’90 si trovarono con una casa che valeva il 30% (ebbene sì: in alcune zone del paese è già successo, e nessuna fine del mondo sembra essere avvenuta), nessuno decise di fare default. Pagarono per vari anni un mutuo esagerato rispetto al prezzo della casa, alcuni fecero re-financing a tassi più bassi, altri ricontrattarono con la banca ricevendo sconti ragionevoli. Tutti ora possiedono case che, anche dopo il crollo attuale, valgono il doppio o l’80% in più di quanto le pagarono. Insomma, una stima pessimista è che un 4-5% delle famiglie USA si trovino in difficoltà e possano considerare di abbandonare la casa che ora possiedono, smettendo di pagare il mutuo, e trasferendosi in una più piccola. Se guardiamo di nuovo ai dati, questo implica che circa 6-7 milioni di famiglie sono a rischio di default. Non un numero piccolo, ma tra la metà ed un terzo di quanto preveda NR. Cosa giustifichi le sue previsioni non ci è dato sapere ed NR non svela la propria formula magica …

Ipotesi 2. A causa del concatenarsi di posizioni determinato dall’uso di derivati, la caduta del settore immobiliare trascinerà con sé l’intero sistema finanziario. Fandonie, almeno in principio queste sono fandonie. Un derivato, per definizione, è un gioco a somma zero. Messo in maniera molto brutale (lo so che qualcuno m’impiccherà per questo, e cercherò di chiarire mano a mano che il bisogno si presenti) è una scommessa complicata scritta sul valore di un titolo fondamentale sottostante. Visto da un altro punto di vista, un derivato è una maniera per assicurarsi, per diminuire parzialmente la rischiosità del proprio portafoglio: ovviamente se riesco a passare parte del mio rischio a qualcuno il suo rischio è probabilmente cresciuto (probabilmente, perché non è nemmeno sempre vero.) Se il valore del fondamentale sale vince A e perde B, nel caso opposto perde A e vince B. Ciò che uno perde l’altro guadagna. Guardate in giro con attenzione e leggete con attenzione i giornali, per favore. Non tutte le banche ed istituzioni finanziare hanno perso soldi sui derivati legati ai subprime mortgages. Alcune hanno fatto tonnellate di soldi. Tutti han menzionato Goldman&Sachs perché gli enormi guadagni di questa banca han fatto sensazione, ma in giro ve ne sono molte altre. Parecchie banche italiane e spagnole, se capisco bene, ci han guadagnato alla grande. Idem, da quanto mi dicono cari amici ben più ricchi di me, per svariate dozzine di hedge funds che avevano visto il disastro arrivare un anno e mezzo fa e s’erano mossi in tempo. Certo, per fare chiarezza occorrerà del tempo e per molti mesi ancora faremo fatica a capire chi ha perso e chi ha vinto le scommesse [prima indicazione di policy: facilitare il più possibile che chiarezza di mercato si faccia su chi ha perso cosa e chi ha guadagnato cosa]. Ma scommesse a somma zero queste erano. La perdita NETTA del sistema sarà uguale alla perdita di valore del fondamentale, ossia dello stock di beni immobiliari USA più i costi di transazione che situazioni come queste generano e che possono essere sostanziali. Non amo fare l’indovino, ma direi che siamo di fronte a perdite in conto capitale dell’ordine del 4-5% del PIL USA nel peggiore dei casi, ossia circa l’1% della ricchezza nazionale. Tanti soldi? Certamente. La fine del sistema bancario? Ma neanche per scherzo!

Ipotesi 3. Crolla anche tutto il resto, ossia prestiti su carte di credito, prestiti ai consumatori, prestiti per acquisto di beni durevoli … Non so che dire. Io il conto delle mie carte di credito lo pago. I dati rivelano una leggera crescita nel default su carte di credito, ma stiamo parlando di numeri molto piccoli. Può succedere? Certo. È probabile? Non credo proprio, alla luce di quanto si vede.

Ipotesi 4. Crolla anche il settore dell’edilizia commerciale, ossia negozi, uffici, supermercati, palestre, cinema, bordelli e casinò di Las Vegas e chi più ne ha più ne metta. Di nuovo, non so che dire. Ho provato a cercare dati , e mi sembra che al momento il calo sia circa metà di quello discusso al punto 1. con riferimento all’edilizia per abitazioni. Valgono anche in questo caso tutti i caveats menzonati prima: il negozio di Tiffany sulla Quinta Avenue dubito perda di valore. Infatti, mi sbaglio o i prezzi di Manhattan continuano a crescere, anche se più lentamente?

Ipotesi 5., 6., 7. … Mi sto stancando. Più leggo l’articolo di NR, sia nella versione in italiano che in quella in inglese, più mi rendo conto che stiamo discutendo di aria fritta, oppure di previsioni fatte da persone con capacità divinatorie fuori dal normale, e che non gradiscono spiegare come tali arti divinatorie si esercitino. Un disastro immane dietro all’altro, decine di migliaia di aziende che chiudono – al punto 8. NR parla di un tasso di fallimento delle imprese che può arrivare al 10-15% ma non dice cosa vi sia al denominatore anche se fa intuire che si tratta … del totale delle imprese! Ma scherziamo? – perché nessuna banca è in grado fare prestiti a nessuno, milioni di disoccupati, la caduta verticale di consumi e degli investimenti, il panico, la fine del mondo, il prossimo copione per un qualche mega-horror-piece-of-crap-from-hollywood … Tutto perfettamente possibile? Certo, tutto perfettamente possibile in qualche videogioco per chi voglia provare il panico da fine del mondo ed i brividi che esso provoca. Ecco il copione:

Ciò risulterà in un circolo vizioso di perdite, contrazione del capitale, contrazione del credito, liquidazioni forzate e svendite massicce di asset a prezzi inferiori ai fondamentali, portando a un ciclo di perdite e di ulteriore contrazione del credito sempre più lungo. Le perdite in conto capitale daranno luogo a ulteriori richieste di integrazione dei depositi di garanzia e a una iscrizione nei bilanci di asset e passività rimaste fino a quel momento fuori bilancio nel sistema finanziario ombra. L’evento che innescherà la successiva fase di questo fenomeno a cascata sarà l’abbassamento del rating delle assicurazioni mono-ramo e il conseguente veloce crollo dei mercati azionari, che, a loro volta, porteranno a ulteriori richieste di integrazione dei depositi e di iscrizioni a bilancio degli asset e delle passività rimaste fino a quel momento fuori bilancio.

La cosa divertente è che alla fine di questa girandola di crolli, la stima di NR delle perdite TOTALI del settore finanziario USA ammonta a 1 trilione di dollari. Che non sono pochi soldi, sia chiaro, ma che, visto che il PIL degli USA viaggia fra i 14 ed i 15 trilioni di dollari, significa al più un… 7% della torta annuale ed un 1.7% della ricchezza nazionale USA! Questo, ripeto, nel caso della catastrofe infinita in cui tutto ciò che può andare storto va stortissimo. La mia stima (basata sui dati riportati sopra e sull’ipotesi pessimista che le famiglie che fanno default sul mutuo non siano tutte nel 50% più povero della società USA, com’è altamente probabile, ma siano invece distribuite uniformemente in tutti i gruppi sociali, cosa alquanto improbabile) era di un 1% della ricchezza nazionale. Insomma, il scenario dell’orrore aggiunge, alla fine, uno 0.7% …

Tanto rumore per nulla, decisamente. Ci risentiamo fra qualche giorno.

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di Giuliano Cazzola

Quando si è saputo che Pietro Ichino era disposto a candidarsi nelle liste del Pd (si veda lo scambio di lettere sul Corriere della Sera tra il giurista milanese e Franco Debenedetti che lo sconsigliava di accettare) è successa l’iraddiddio (pardon: della dea Ragione, visto che essere laici è più politacally correct). Gli esponenti della Cosa Rossa hanno fatto a gara nel coprire di insulti il povero professore, avvalendosi – sono parole di Lanfranco Turci – di argomentazioni simili a quelle che sono costate la vita a Massimo D’Antona e a Marco Biagi e che costringono Pietro a vivere “blindato” da anni. Più cauti e civili i sindacalisti della Cgil (Paolo Nerozzi e Nicoletta Rocchi andranno a riequilibrare in Parlamento i picchi di riformismo in cui si esibisce Veltroni). Ma la musica è sempre la stessa: giù le mani dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. A tarda serata, dopo il lancio di un chilo di dispacci di agenzia carichi di contumelie nei confronti del giurista, è giunta la presa di posizione ufficiosa del Pd, all’insegna del veltroniano “ma anche” (che ha fatto la fortuna del comico Crozza). “Ichino è bravo – si diceva – e darà sicuramente un grande contributo, ma il programma del Pd contiene delle cose diverse dalle sue”. E Massimo D’Alema – su Il Sole-24Ore – ha chiuso il caso: Ichino “è intelligente – ha dichiarato – coraggioso e creativo. Fare il commentatore, però, è diverso che fare il politico”. In pratica, ragazzino lasciaci lavorare!

E adesso? Che cosa farà il professore? Rinuncerà all’arma potente dell’editoriale del Corriere della Sera per diventare un “profeta inascoltato”? Questa esperienza Ichino l’ha già archiviata più venti anni or sono (come deputato del Pci): era senz’altro più giovane e meno noto di adesso, ma si accorse ben presto che al suo pensiero innovativo nessuno dei suoi compagni prestava attenzione. Tanto che – e fu la sua fortuna – non venne rieletto. Sinceramente avremmo gradito che il Cavaliere – in un guizzo comunicativo – si fosse rivolto a Pietro Ichino – proprio nel giorno in cui subiva in solitudine la gogna delle Erinni e dei trinariciuti – offrendogli di capeggiare la lista del PdL in Lombardia e promettendogli di poter svolgere, a vittoria avvenuta, un ruolo di primo piano nel prossimo governo. “Caro professore – avrebbe dovuto affermare Berlusconi – perché si ostina ad essere trattato come un cane in chiesa? Le sue idee sono le nostre. Venga a prendere il posto che fu di Marco Biagi. In materia di lavoro avrà carta bianca”. Sicuramente – e purtroppo – Ichino avrebbe declinato l’invito, ma la mossa del leader del PdL avrebbe fatto discutere e preteso una risposta seria da parte dell’interessato. Ma se il Cavaliere non ha colto l’occasione una ragione ci deve essere. Basta scorrere le prime anticipazioni del programma del PdL che girano al largo delle tematiche “dure” del lavoro. Per non parlare – solo per carità di patria – della polemica di Giulio Tremonti contro la globalizzazione. L’handicap del centro destra continua ad essere il solito: con scarse propensioni riformiste il PdL non riesce a penetrare nell’intellighenzia del Paese. Così finisce per diffidare degli intellettuali e dei tecnici, in nome di un primato della politica tutto da dimostrare. Ed è un atteggiamento sbagliato, perché niente è più credibile sul piano internazionale di un civil servant di indiscusso prestigio, la cui influenza non dipenda dai voti del suo partito ma dalle competenze che gli sono riconosciute. Nessun ministro dell’Economia sarebbe meglio di Mario Monti. Se Prodi non avesse potuto contare sulla credibilità di Tommaso Padoa Schioppa, i circoli internazionali avrebbero sbattuto la porta in faccia alla sua compagine senza attendere nemmeno un minuto. Alla pregevole azione del governo Berlusconi è mancato proprio l’ésprit de finesse della competenza. Si prenda, per tutti i casi, la legge di riforma costituzionale, ottima nell’ispirazione di fondo (tanto da tornare di attualità), ma scritta coi piedi sul piano della tecnica legislativa. Si consideri, al contrario, la legge Biagi, una delle pagine più alte della legislatura, un provvedimento che ha fatto il giro del mondo e che fa testo ovunque si studi il diritto del lavoro. Dietro ad essa c’era la cultura non solo di uno studioso eccellente, ma della sua scuola, tanto che Michele Tiraboschi è stato pronto a prendere il posto del maestro caduto e a portarne a termine l’opera. Ma se Biagi non fosse caduto sul campo dell’onore, la CdL avrebbe avuto il coraggio di andare fino in fondo?

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Intervista a Tremonti

*In rosso, le porzioni di testo evidenziate da Franco Debenedetti

La distribuzione. Per fermare i prezzi stop alla globalizzazione. Lo Stato dovrebbe acquistare beni di prima necessità da distribuire alle famiglie più bisognose

ROMA – Onorevole Tremonti, l’inflazione cresce e il problema del potere d’acquisto è sempre più urgente. Veltroni vi accusa di avere bloccato la restituzione del tesoretto. Cosa replica?

«Sul set – risponde il vicepresidente di Forza Italia – è già tutto pronto per il ciak della scena prima. La sequenza: “imbarco-uscita in mare della nave”. I riflettori sono accesi, la nave è nuovissima, il comandante iconografico nella sua uniforme, l’ascensore sociale – quello della mobilità e dei talenti – sta portando sul ponte di prima classe bella gente: affascinanti e attempati gentiluomini, ricercatrici avvenenti, figli di industriali. Tutto intorno si cominciano ad occupare con garbo elegante le chaise longue. La lista dei passeggeri di seconda e terza classe non è ancora nota. Ma in fondo non è importante. La rotta della nave è quella della felicità: nel discorso di Milano si stabilisce “il diritto alla felicità” e sulla banchina se ne distribuisce il biglietto. La nave si chiama Titanic, l’iceberg contro cui andrà a sbattere si chiama Istat. Quanto al tesoretto non è che noi abbiamo detto no, è che non esiste».

Ma l’iceberg inflazione c’è per tutti. Voi come lo eviterete?

«Prima di partire bisogna conoscere il mare in cui entri. Quello uscito con l’Istat non è il solito dato congiunturale sull’inflazione, è un dato strutturale sul “carovita”. Un fenomeno nuovo che viene dall’Asia e impatta violentemente e verso il basso sulle masse popolari dell’America e dell’Europa. E’ il portato della globalizzazione, un fenomeno disegnato, creato e cantato da quelli che hanno governato l’Occidente, l’Europa e l’Italia negli Anni Novanta e che ora si ricandidano a farlo. Artefici e vittime di un destino che non hanno capito. Quella che vendevano come l’età dell’oro è durata solo per un pugno di anni, ora stanno arrivando tempi di ferro. La globalizzazione ci sta presentando il suo primo conto. Quando nel 1995 ho scritto il “Fantasma della povertà” nessuno ci credeva!».

Ha portato guai davvero così terribili la globalizzazione?

«Un fenomeno che altrimenti avrebbe occupato decenni e decenni è stato prima compresso e poi fatto esplodere in pochi anni: la Cina è entrata nell’Organizzazione del commercio mondiale solo l’11 dicembre 2001. L’India in parallelo. È così che di colpo sono cambiate la struttura e la velocità del mondo. Un miliardo di persone sono passate di colpo dall’autoconsumo al consumo, dal mercato chiuso al mercato aperto e hanno cominciato a vivere con noi, come noi, insieme a noi. Se il petrolio che c’è nel mondo, se gli animali da carne che ci sono nel mondo, se il grano che c’è nel mondo restano uguali ma la domanda cresce violentemente, i prezzi esplodono. Quello che voglio dire è che la causa del drammatico impoverimento popolare che sta arrivando non è interna ma esterna. E qualcosa di simile non si è mai visto nella storia. Il secondo conto della globalizzazione è quello della crisi finanziaria, una crisi che sta piegando l’economia americana e con questa l’economia dell’Europa e dell’Asia. È una alternativa drammatica: se la globalizzazione continua come oggi la massa della nostra popolazione sarà più povera, se la globalizzazione entra in crisi finanziaria sarà ancora peggio. Le cause, le colpe, i rimedi li ho scritti in un libro che uscirà ai primi di marzo».

Che propone di fare?

«Per cominciare bisogna dire che cosa non fare. Non entrare in questo scenario con il pensiero debole, con il populismo leggero, con il relativismo, con il sincretismo, con il veltronismo. Nei dodici punti di Veltroni c’è tutto tranne l’essenziale. Ci trova il congedo di paternità, il Sud che diventa un hub, l’energia pulita con il sole e con il vento come nel Mulino Bianco, le centrali di sapere, le infocittà, i cento campus ecc. ecc. Non trova le tre parole che invece marcheranno i prossimi anni: la parola crisi, la parola solidarietà pubblica, la parola Stato. Ricorda quando parlavo di colbertismo? Le annuncio il clamoroso necessario ritorno del pubblico! Veltroni pensa a “chiamare il mercato” per risolvere i problemi sociali. Io penso che, in tempi di ferro, questo lo debba e lo possa fare molto di più lo Stato. Veltroni è arrivato alla Terza Internazionale essendosi preparato sui libri della Seconda. E’ arrivato a copiare il Berlusconi del 1994 solo che Berlusconi lo faceva nel 1994 oggi siamo nel 2008, in un mondo totalmente diverso».

Il vostro programma invece ha la ricetta giusta?

La nostra bozza di programma incorpora il tempo duro che c’è e che arriva. Se ci fa caso comincia dall’Europa, dalla protezione delle nostre industrie e dei nostri capannoni, del nostro lavoro. Quando la chiedevamo con Bossi, Veltroni ci accusava di barbarie economica adesso le stesse cose le chiedono Obama e McCain. Un dettaglio che non è un dettaglio: prevediamo che il governo compri beni di prima necessità e li distribuisca ai comuni e al volontariato per aiutare chi non arriva a fine mese».

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di Luca Ricolfi

Veltroni ha presentato sabato le promesse del Partito democratico (Pd), fra una settimana circa Berlusconi presenterà quelle del Popolo della libertà (Pdl). È probabile che, al netto delle parole in cui saranno avvolte, le promesse finiscano per rivelarsi affini. Più sicurezza, meno tasse, sostegno ai redditi bassi, aiuti alla famiglia, contenimento della spesa pubblica, misure per la competitività, alleggerimenti fiscali sugli straordinari: chi avrà il coraggio di non ripetere le solite promesse?

Il punto dunque non è che cosa Pd e Pdl ci promettono, ma che garanzie offrono di mantenere le promesse. Di solito chi solleva questo problema aggiunge che ogni promessa costosa (come la soppressione dell’Ici sulla prima casa, o il bonus per i nuovi nati) dovrebbe essere accompagnata da un’indicazione precisa delle relative «coperture», ossia dei soggetti su cui verrebbe fatto gravare il peso finanziario della promessa. Giustissimo, ma da sempre i politici hanno escogitato un modo sicuro per aggirare la domanda. Alla richiesta di indicare le coperture rispondono: a) recupero di evasione fiscale; b) riduzione degli sprechi nella pubblica amministrazione; c) maggiore crescita. E il discorso finisce lì.

Andrà così anche in questa campagna elettorale, e quindi non proviamo nemmeno a scongiurare i politici di rivelarci «dove prenderanno i soldi» per fare le meravigliose cose che ci promettono. Non ce l’hanno mai detto, non ce lo diranno mai. Perciò siamo e resteremo indifesi di fronte al fiume in piena delle promesse. C’è una cosa, tuttavia, che può aiutarci a capire se un programma è credibile oppure non lo è: la sincerità con cui ci racconta il nostro passato e il nostro presente.

Non possiamo sapere che cosa Veltroni o Berlusconi ci riservano per il futuro, ma possiamo capire se ci trattano come bambini ingenui o come persone mature. Se si prendono gioco di noi oppure ci rispettano. Come ha scritto recentemente sul Sole – 24 Ore Franco Debenedetti, il punto di partenza di una stagione politica finalmente costruttiva è la condivisione dei «giudizi che si danno sul passato». Probabilmente non riusciremo a metterci d’accordo sul futuro, ma almeno mettiamoci d’accordo sul passato.

Prendiamo Berlusconi. Nei giorni scorsi gli abbiamo sentito dire in tv che il suo governo aveva realizzato l’85% del programma del 2001 – il famoso contratto con gli italiani – e che il «pezzettino» non realizzato (appena il 15%) era rimasto sulla carta per colpa degli alleati. Bene, allora è forse il caso di ricordargli che le due promesse principali del suo programma sono state clamorosamente disattese: l’aliquota Irpef massima non è stata ridotta al 33%, i delitti anziché diminuire sono aumentati. Per non parlare delle grandi opere, anch’esse realizzate in misura ben inferiore alle promesse. Perché raccontarci di aver onorato il «contratto» all’85% se non è vero? Gli italiani non sono ciechi, e se nel 2006 hanno tolto la fiducia a Berlusconi è anche perché si sono accorti che il contratto non era stato rispettato.

Per Veltroni il passato da indorare è quello di Prodi. Ma un conto è sorvolare signorilmente su qualche scivolone o su qualche punto marginale, un conto è capovolgere la trama della storia economico-sociale recente. Veltroni dice: ridurre le tasse e aumentare i salari si può, e si può proprio perché il governo Prodi ha condotto una lotta vittoriosa contro l’evasione fiscale (almeno 20 miliardi di gettito recuperati, secondo il governo uscente). Peccato che questa ricostruzione del nostro passato recente non sia compatibile con quel che si sa dell’andamento dell’economia negli ultimi due anni. Vediamo perché.

Lotta all’evasione. La cifra di (almeno) 20 miliardi recuperati è altamente controversa, ed è stata messa in dubbio da vari analisti e centri di studio indipendenti. Per il 2006, unico anno per il quale si dispone già di dati completi, non è nemmeno certo che esista un effetto-Visco (la mia miglior stima fornisce un recupero di evasione di appena 1,7 miliardi). Quel che in compenso è certo è che il governo Prodi ha sempre tenuto basse le previsioni sulle entrate fiscali, e proprio grazie a questo artificio contabile ha fatto emergere i vari «tesoretti».

Uso dell’extragettito. Quale che sia l’origine del cosiddetto extragettito (gettito non previsto dal governo), è incontrovertibile che i contribuenti non hanno visto sgravi fiscali per 20 miliardi di euro (la lotta all’evasione fiscale non doveva servire a ridurre le tasse ai contribuenti onesti?). Essi hanno invece assistito, nel corso del 2007, a una sistematica opera di dissipazione del gettito non previsto. Visco metteva i soldini nel salvadanaio, i «ministri di spesa» lo rompevano tutte le volte che si accorgevano che era pieno (Dl 81, Dl 159, Finanziaria 2008).

Situazione attuale. Nessuno, nemmeno il ministro dell’Economia, sa dire ancora con certezza se esiste un ulteriore gettito non previsto del 2007 (gli ultimi dati ufficiali dell’Agenzia delle entrate sono fermi al 30 novembre scorso). Quel che si può dire con certezza, invece, è che ci sono 7-8 miliardi di spese prevedibili ma non messe a bilancio, che l’andamento del gettito delle imposte dirette (il più sensibile all’andamento dell’economia) è in costante calo dal gennaio del 2007, e che a partire dallo scorso ottobre il gettito cresce meno del reddito nominale. In concreto questo vuol dire che, se l’economia dovesse continuare ad andare male, il gettito 2008 potrebbe risultare minore del previsto, anziché maggiore come è stato negli ultimi due anni.

Morale. Il governo Prodi consegna all’Italia una situazione nella quale non c’è più alcun extragettito da spendere e, se anche qualche risorsa dovesse mai spuntar fuori, verrebbe immediatamente bruciata per coprire i 7-8 miliardi di spese non messi a bilancio dalla Finanziaria 2008. Capisco che Veltroni sia così gentile da non voler vedere questa triste eredità, ma se si vuol essere nuovi bisogna esserlo anche sulle cose che contano: non basta mettere i giovani in lista, occorre anche cominciare a dire la verità.

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