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→  settembre 14, 2009

La storia

di Alberto Arbasino

«Sventare gli sventramenti!» fu per decenni il motto di tanti architetti post-fascisti, per cui andava demolita addirittura la Piazza Augusto Imperatore, benché non bisognosa di interventi urgenti.
«Solo cocci e coccetti» minimizzavano invece i modernizzatori, per cui in ogni metropoli storica e contemporanea si demolisce e scava per venire incontro alle esigenze del Progresso, senza lasciarsi paralizzare da pseudo-ostacoli di non grande valore culturale.
Per decenni, poi, con andamento variabile, i giornali più progressisti denunciavano le potenti lobbies di costruttori che «infettavano» la Capitale e il Campidoglio con elargizioni elettorali e individuali e scambi di favori enormi fra il Catasto e la Casta.
L´affare del Pincio è apparso presto spiacevole e inutile, perché sfasciare un sito così illustre e perfetto solo per guadagnare qualche centinaio di posti-auto diventa ridicolo in una città ove circola un milione di macchine.
Forse converrebbe scavare sotto il letto del Tevere, l´unico sottosuolo romano ove forse non si troverebbero «domus» o anfore. È stato fatto sotto la Manica: ci sarebbero tanti costi e problemi in più?

La «pedonalità del Tridente» sembra un vano pretesto, quando proprio le rampe del Pincio sono diventate un sito di rimorchio minorenne con rock a volumi competitivi, anche per mignotte venute da lontano. Ma lì basterebbero un paio di transenne e di vigili, senza altre iniziative. E magari spendere i fondi per tenere l´intera Villa Borghese in condizioni meno schifose, semmai.
Ma del resto, a detta di taluni residenti, l´intera Piazza del Popolo era più carina quando era piena d´automobili ferme, multicolori e luccicanti sotto l´obelisco. Certamente meglio che adesso, volgarmente sfruttata come contenitore di enormi e ripugnanti impalcature e ponteggi incessantemente montati e smantellati e martellati per gazebi pubblicitari da stadio o da circo, per «eventi» fragorosissimi e assordantissimi per bambini e venditori di schifezze senza alcun nesso o rispetto per Valadier e i suoi «spazi» urbani e civici.

Tanti anni fa, pure, quando dalle periferie si proclamava «Riprendiamoci la città» dopo le lunghe paure stradali negli anni di piombo, e centinaia di giovani partivano di lontano per sedersi sulla scalinata in Piazza di Spagna e lì fare i cori di montagna, invano si richiedeva ai responsabili comunali di abbellire le principali piazze periferiche di scalinate analoghe in facsimile, visto il successo del prototipo. Ovviamente, ad opera delle maestranze bravissime e disoccupate di Cinecittà. Macché multipli, sentenziavano gli assessori. (E anche Fellini, credo). Mentre – come luoghi di socializzazione e coinvolgimento – sarebbero costati pochissimo, oltre a introdurre un post-moderno laico e non clericale nelle borgate pasoliniane non più di teenagers «zozzetti».
I sottosuoli urbani, in Italia e in tutta l´Europa, sono pieni di muretti romani in serie che vengono presto chiamati «Domus». Così come ogni sartoria è ormai una «Maison», e dunque incute riguardi. Per esempio, a Vienna, scavando davanti al Palazzo Imperiale, si sono rinvenuti dei mattoni con calcina che hanno subito causato la pedonalità intorno a un catino archeologico che solo un certo garbo civico e turistico evita di usare come un «posacicche». Qualcosa di analogo dev´essere capitato sotto l´Auditorium romano, dove al rinvenimento dei muretti antichi si imputa l´innalzamento del progetto originario, sacrificando le scale mobili (ormai costanti in ogni multisala per ragazzini), e il foyer-bar come luogo d´aggregazione per anziani che devono restar seduti se non sono disposti ai cento scalini giù e su dalla biglietteria.

I critici architettonici del Ventennio fascista, pure approvando i molti edifici razionalisti in mattoni e travertino dei loro invidiati maestri, giustamente non perdonano gli scatafasci causati dalla Via dell´Impero.
Così come sono inescusabili e inespiabili le demolizioni sabaude intorno all´atroce Vittoriano, benché imbellettato e vezzeggiato adesso come orribile attrazione turistica.
Ma ancora più orribile risulta adesso la biasimata «teca» sull´Ara Pacis. Perché rivisita, con un brutto «senno del poi» i travertini già intollerabili ai tempi del Duce e del film «peplum» della Romanità-a-Cinecittà. (Come già a Los Angeles, dove arrivando al Getty Museum si esclama «Fabiola! Spartacus! Scalera Film! Torna, Alessandro Blasetti, tutto è perdonato!»).
Perché poi bastava mettere a norma la teca precedente, discreta e vetrata e restaurata dai Rotary, così come si conservano gasometri e pastifici e rimesse tranviarie non griffate di quella stessa epoca. Invece di costruire muraglie presuntuose e fontanelle massicce che cancellano ogni vista sulle due celebri chiese di qua e sul Tevere di là. Per cui, avendo qui le dichiarazioni di architetti illustri contro la Piazza Augusto Imperatore nel suo complesso e assetto precedente, bisognerebbe sentire chissà quali «esperti». Abbattere le arroganti «ali laterali», che servono soprattutto a mostre e convegni clientelari di livello bassissimo? Affidare ai più lodati graffitisti della scena romana la decorazione di quegli insopportabili muri bianchi del Duce? Dai treni tiburtini e tuscolani si vedono interessanti «specimens». E se comunque si rammentano le ormai attempate stizze degli specialisti contro il resto della medesima piazza, c´è davvero da ridere. Ah, ah, vecchi cucù.

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Il Pincio e i talebani dell’urbanistica
di Franco Debenedetti – Vanity Fair, 17 settembre 2008

→  febbraio 26, 2009

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di Nouriel Roubini

Un anno fa avevo previsto che le perdite delle istituzioni finanziarie statunitensi avrebbero raggiunto un totale di almeno un trilione di dollari, senza escludere la possibilità di arrivare anche a due trilioni di dollari. In quel periodo economisti e politici erano concordi nel ritenere sbagliate per eccesso queste stime.

Servirebbero altri 1,5 trilioni di dollari per riportare il capitale delle banche al livello pre-crisi: solo così si potrà superare la stretta del credito, e rilanciare i prestiti al settore privato. In altri termini, il sistema bancario Usa è di fatto insolvente nel suo complesso, al pari di gran parte del sistema bancario britannico e di molte banche dell’Europa continentale.

Per il risanamento di un sistema bancario che deve far fronte all’attuale crisi sistemica le ipotesi sono fondamentalmente quattro: la ricapitalizzazione delle banche, con il contemporaneo acquisto dei loro titoli tossici da parte di una “bad bank” governativa; la ricapitalizzazione, accompagnata da garanzie governative – dopo un ‘iniziale perdita delle banche – degli asset tossici; l’acquisto da parte di privati degli asset tossici con garanzia governativa (l’attuale piano del governo Usa); e infine la pura e semplice nazionalizzazione – chiamandola magari con un altro nome (come ad esempio «government receivership») in caso di rifiuto di questo termine scabroso delle banche insolventi, da rivendere poi al settore privato una volta risanate.
Di queste quattro opzioni, le prime tre presentano gravi inconvenienti. Nel caso della “bad bank”, il governo rischierebbe di pagare prezzi troppo alti per i titoli tossici, sul cui vero valore non vi sono certezze. Anche l’ipotesi della garanzia potrebbe implicare un esborso statale eccessivo (nel senso di una garanzia troppo elevata, per la quale il governo non percepirebbe un corrispettivo adeguato).

La soluzione della “bad bank” comporterebbe un ulteriore problema: il governo si troverebbe a dover gestire tutti i titoli tossici acquistati senza disporre delle necessarie competenze tecniche. Quanto all’idea – invero molto macchinosa, avanzata dal Tesoro – che propone di stralciare i titoli tossici dai bilanci delle banche, fornendo al tempo stesso garanzie da parte del governo – è apparsa subito complicata e poco trasparente, tanto che è bastato il suo annuncio a provocare una reazione nettamente negativa dei mercati.

Paradossalmente, la nazionalizzazione potrebbe rivelarsi come la soluzione più favorevole dal punto di vista del mercato: verrebbero infatti esclusi dalle istituzioni palesemente insolventi sia gli azionisti comuni che i detentori di azioni privilegiate, e in caso di insolvenza molto estesa anche i creditori non garantiti, assicurando al tempo stesso ai contribuenti un compenso adeguato. In questo modo si risolverebbe anche il problema della gestione dei bad asset delle banche, rivendendo la maggior parte dei titoli e dei depositi – con una garanzia da parte del governo – a nuovi azionisti privati, una volta risanati i titoli tossici (come nella soluzione adottata per il fallimento della Indy-MacBank).

La nazionalizzazione risolverebbe oltre tutto anche il problema delle banche che rivestono un’importanza sistemica, “too big to fail” – cioè troppo grosse per poter fallire – e che quindi il governo deve necessariamente soccorrere, a un costo molto elevato per i contribuenti. Oggi di fatto il problema si è ulteriormente aggravato, poiché le soluzioni finora adottate hanno indotto le banche più deboli a rilevarne altre ancora più malridotte.

Le fusioni tra “banche zombie” ricordano un po’ il comportamento degli ubriachi cercano di aiutarsi l’un l’altro a rimanere in piedi: lo dimostrano le operazioni con cui JPMorgan, Wells Fargo e Bank of America hanno rilevato rispettivamente Bear Stearns e Wa Mu, Wachovia, Countrywide e Merril Lynch. Con la nazionalizzazione il governo toglierebbe di mezzo queste mostruosità finanziarie, per creare banche più piccole ma solide da rivendere a investitori privati.

È questa la soluzione che all’inizio degli anni ’90 ha permesso alla Svezia di risolvere la sua crisi bancaria. Al contrario, l’attuale politica degli Usa e della Gran Bretagna rischia di generare, come è avvenuto in Giappone, una serie di “banche zombie”, che in mancanza di un vero risanamento perpetuerebbero il congelamento del credito. Il Giappone ha pagato la sua incapacità di risanare il proprio sistema bancario con un decennio di crisi molto vicina alla depressione. In mancanza di interventi adeguati, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e molti altri Paesi corrono un rischio analogo: quello di una recessione o di una vera e propria deflazione che potrebbe protrarsi per vari anni.

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→  febbraio 24, 2009

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Si cerca l`antidoto per i titoli tossici

di Rossella Bocciarelli

È un tema che sta togliendo il sonno al presidente degli Stati Uniti, Barack Obama. Ma se ne discute molto anche in Europa; e una soluzione finanziaria, utile a risolvere eventuali problemi futuri, è stata indicata per l`Italia anche dal Governatore Mario Draghi. È il tema del cosa fare per attenuare gli effetti negativi di quella corsa allo smobilizzo degli asset che imperversa per il mondo, per effetto della sfiducia e della perdurante incertezza sul grado effettivo di tossicità degli attivi delle istituzioni finanziarie.

È una discussione. che si svolge in tante sedi: da quelle politiche e tecniche (Ecofin, G7-G2o, Fini, Financial stability forum) a quelle della comunità finanziaria e accademica internazionale: dopo la presentazione del piano Geithner sono infatti scesi in campo George Soros e Ricardo Caballero, mentre nel dibattito italiano sono da registrare i suggerimenti di Francesco Giavazzi, Giuliano Amato, Luigi Spaventa. Per contenere la distruzione di ricchezza finanziaria e ridare fiducia e credito all`economia, finora si sono immaginate, grosso modo, due strade: la bad bank e gli schemi di assicurazione degli asset a garanzia pubblica.

Bad bank, una o plurima La prima strada passa per la scelta di “segregare” le attività illiquide separandole da quelle buone. È una scelta che può essere messa in atto a livello della singola istituzione finanziaria: per ogni banca i titoli tossici verrebbero confinati in un altro soggetto giuridico e le perdite verrebbero suddivise tra là banca “buona” e lo Stato. Oppure, si può ritenere più opportuno che lo Stato costituisca un solo istituto, che acquisti i titoli illiquidi dalle banche e le rimetta così in condizione di operare in tranquillità. Nel dibattito internazionale c`è anche chi immagina che prima lo Stato metta in opera un`azione di nazionalizzazione e poi separi il grano dal loglio.

Meglio il sidecar Molti però non sono convinti da questa soluzione. Per esempio, George Soros di recente ha sostenuto che la soluzione migliore potrebbe essere quella di allocare le attività tossiche in una “tasca laterale” (side pocket) oppure in un “sidecar”, termini che indicano la costituzione di una sorta di fondo chiuso, così come hanno già fatto gli hedge funds per i loro titoli illiquidi. In questo modo si farebbe pulizia nei bilanci delle banche, ha osservato Soros, ma resterebbe aperto il problema della loro sottocapitalizzazione:ciò potrebbe essere risolto coi apporti diretti del settore pubblico, ma anche di quello privato, una volta tornata la fiducia nei bilanci puliti.

Assicurazioni a garanzia pubblica In base a questo tipo di soluzioni, gli asset problematici restano nei bilanci delle banche, ma vengono assicurati in modo parziale o totale rispetto al rischio della perdita da una garanzia dello Stato. Ad esempio, di recente il governo olandese ha fornito una garanzia pubblica al portafoglio dei mutui ipotecari cartolarizzati di categoria Alt-A del gruppo Ing. Il valore dei mutui è stato ridimensionato, per tener conto dell`incerto realizzo e lo Stato ha assicurato l`80% del portafoglio (in cambio, Ing ha aumentato il volume dei prestiti concessi all`economia). La parte più complessa in questi schemi sta nell`assegnare un prezzo a questi asset.

Soluzione Caballero Male soluzioni si possono trovare: in relazione al piano Geithner, l`economista del Mit Ricardo Caballero ha proposto di definire una stima convenzionale, rifacendosi ai prezzi pre-crisi per classi di attivi, ma usando rating più bassi. Sempre per gli Usa, l`economista Francesco Giavazzi ha proposto che il Governo americano fornisca una garanzia pubblica per tutte le attività finanziarie collegate al mercato immobiliare, impegnandosi a riacquistarle tutte a un prezzo prefissato, superiore alloro valore attuale: in questo modo si riuscirebbe a far risollevare il prezzo dei titoli ma anche il valore della ricchezza delle famiglie Usa.

Ipotesi Draghi Quanto all`Italia, il Governatore Draghi al Forex di Milano ha ipotizzato per il futuro, allo scopo di contrastare gli effetti che la recessione potrà avere sui bilanci delle banche, la possibilità di prevedere garanzie pubbliche non sullo stock di attività oggi detenute dalle aziende di credito, ma su “fette” di nuovi prestiti alle imprese, da cartolarizzare con sopra il bollino blu dello Stato.

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di Alberto Bisin

In questi giorni si parla sempre più con insistenza di nazionalizzare le banche. Negli Stati Uniti hanno preso posizione a favore di una qualche forma di nazionalizzazione una gran parte degli economisti, sia keynesiani che liberisti, da Paul Krugman ad Alan Greenspan. Ma anche in Italia grande eco è stata data alle parole del presidente del Consiglio, che sembravano voler preparare il Paese a una discussione sulla questione. Purtroppo la parola «nazionalizzazione » genera reazioni emotive violente: evoca il sol dell’avvenire in alcuni e la collettivizzazione forzata e i kulaki in altri.

Per comprendere di cosa si stia discutendo è necessario tornare alla razionalità economica. Negli Stati Uniti quando si parla oggi di nazionalizzazione delle banche si intende la seguente operazione finanziaria.

Il Tesoro acquista una quota di maggioranza del capitale di alcune grosse banche in difficoltà, scorpora le attività tossiche dai loro bilanci, e infine favorisce l’immissione nelle banche stesse di capitale fresco privato, a nuovi prezzi di mercato. La nazionalizzazione è in effetti un controllo temporaneo delle banche, per favorirne la ricapitalizzazione privata: una pura operazione di mercato che si può concludere brevissimamente, nel giro settimane o mesi, non anni. Se il prezzo a cui il Tesoro acquista le partecipazioni nelle banche è inferiore al prezzo a cui le vende alla fine dell’operazione, i contribuenti ne ricevono un profitto. Coloro che si oppongono a questa operazione, come ad esempio Francesco Giavazzi sul Corriere della sera di ieri l’altro, argomentano che i prezzi di mercato cui il Tesoro acquisterebbe oggi sono troppo bassi, inferiori al «valore reale» delle banche stesse. E che quindi il governo dovrebbe sì acquistare, ma a un prezzo sopra mercato. Ma è sempre pericoloso in economia distinguere il «valore» dal prezzo di mercato: le banche sono quotate in Borsa; se gli azionisti pensano che esse siano sottovalutate non hanno che da comprare nuove azioni, invece di vendere quelle che già possiedono come stanno facendo. Nessuno gli vieta di farlo. Perché invece costringere i contribuenti a pagare un prezzo superiore al mercato e così sussidiare gli azionisti delle banche?

Su queste colonne ho preso posizione contro le politiche di stimolo fiscale keynesiane, contro la sindacalizzazione della scuola e dell’università, contro la «nazionalizzazione » di Alitalia (questa sì una nazionalizzazione, anche se presentata come una privatizzazione). Non sono certo uno di quelli che pensano che questa crisi segni la fine del capitalismo e che sia finalmente giunto il momento eroico del socialismo. Ma l’operazione finanziaria che i detrattori chiamano «nazionalizzazione » è l’intervento che mi pare più desiderabile oggi dal punto di vista della razionalità economica.

Ciononostante, la «nazionalizzazione» delle banche comporta un problema fondamentale: manca la garanzia che il controllo del Tesoro sia davvero temporaneo. Questo è un problema perché lo Stato è pessimo banchiere, perché la politica fatica a rilasciare il potere, e perché poche attività economiche concedono più potere che non il controllo dei mercati finanziari. Nel caso degli Stati Uniti, Paese con un sistema politico aperto, un’economia di mercato ben sviluppata, e una larga parte dell’opinione pubblica dalle provate preferenze anti-stataliste, non c’è molto da preoccuparsi. Non è così per l’Italia, purtroppo. A differenza di quella americana, infatti, l’economia italiana è caratterizzata da poco mercato e molte rendite. E l’opinione pubblica e la classe politica del nostro Paese si distinguono in una sinistra statalista e una destra corporativista.

L’Italia ha anche una lunga tradizione di controllo politico dei mercati finanziari e un diretto precedente storico: la nazionalizzazione «temporanea» delle banche negli Anni 30, che ci ha portato l’Iri e l’Imi fino agli Anni 90. Proprio a questo precedente storico si può ricondurre tanta parte dell’arretratezza economica italiana prima e dopo la guerra. Ma l’esperienza fallimentare del ruolo dello Stato nello sviluppo industriale in Italia, attraverso anche il controllo delle banche, non pare aver generato sufficienti anticorpi nell’opinione pubblica e nella classe politica, nemmeno in quella «liberale». Venerdì scorso ad esempio sono apparsi su Libero due articoli fortemente elogiativi dell’esperienza delle nazionalizzazioni delle banche degli Anni 30, con annesso accostamento di Berlusconi a Mussolini.

Non oso nemmeno pensare che sia l’esperienza di Beneduce e dell’Iri che il presidente del Consiglio ha in mente quando parla di nazionalizzare le banche.Ascanso di equivoci, poiché «a pensar male si fa peccato, ma…», sarebbe bene che ogni operazione finanziaria di questo tipo, in Italia, fosse accompagnata da chiare garanzie contrattuali sulla temporaneità del controllo di Stato. Dormiremmo meglio la notte.

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di Giuliano Amato

I lettori sanno che io non sono fra quelli che ritengono si possa uscire dalla crisi e costruire un futuro migliore, rimuovendo le sole patologie delle attività finanziarie. C’è anche un problema di economia reale e in particolare di fondamentali squilibri fra economie in surplus ed economie in deficit. Raggiungere perciò migliori equilibri macroeconomici, coordinare di più le stesse politiche valutarie e costruire un mondo trainato non più da una sola locomotiva ma da più locomotive sono terapie che io stesso ritengo essenziali e che ho già suggerito.

Detto questo, però, non si può ignorare il fatto che i guasti finanziari hanno enormemente amplificato i crolli tanto nella finanza che nella stessa economia reale; e che nuovi crolli potrebbero intervenire a breve, se non si saprà uscire con rapidità, e anche con la necessaria, impietosa decisione, dallo stallo in cui si è finiti, ponendo rimedi a quei guasti che si stanno rivelando pericolosamente inadeguati.

Mi limiterò qui a un aspetto, che è tuttavia fra quelli cruciali della vicenda, l’aspetto che riguarda i cosiddetti troubled assets. I lettori ricorderanno che l’iniziale piano con cui si pensò di gestirli, il piano del vecchio ministro del Tesoro americano Henry Paulson, risultò ben presto inefficace. Paulson si proponeva di acquistare i troubled assets dalle banche e dagli altri istituti finanziari che li possedevano, in modo da ripulirne i bilanci e rimuovere così la sfiducia che aveva paralizzato il sistema. Paulson però si accorse presto che di troubled assets ne stavano circolando in quantità e con presunti valori incontenibili nel suo stanziamento di 700 miliardi e che, in ogni caso, sull’accertamento esatto di quei valori ai fini dell’acquisto l’intesa era più che difficile. Il Tesoro pensava infatti di acquistare al prezzo più basso possibile per non inquietare il contribuente che pagava, le banche pensavano che in futuro quegli stessi assets avrebbero potuto recuperare e non erano quindi disposte a svenderli.

Venne accolto allora il consiglio dei tanti che sin dall’inizio avevano suggerito la strada diversa dell’ingresso dello Stato nell’azionariato delle banche o comunque del rafforzamento del loro capitale, che avrebbe rappresentato di per sé una garanzia sia per i risparmiatori che per le future attività creditizie e avrebbe consentito, in altre forme, la ripulitura di cui c’era bisogno. La mossa è stata inizialmente efficace e lo è stata negli Stati Uniti come negli Stati europei che l’hanno adottata: il caso di Lehman Brothers è rimasto isolato. Ma evidentemente non è bastata a restituire al sistema la fiducia di cui aveva bisogno. Intanto non ha riguardato tutti i titolari di troubled assets, ma solo alcuni. E poi non li ha rimossi dalla pancia di nessuno, nessuno è in grado di attestarne il valore e si va avanti così con bilanci di banche e di imprese largamente fondati sulle sabbie mobili, con conseguente volatilità dei corsi azionari e paralisi delle attività.

Non a caso il secondo atto della vicenda, quello interpretato negli Stati Uniti dal nuovo ministro del tesoro, Tim Geithner, prospetta il ritorno alla separazione dei troubled assets, questa volta attraverso un’apposita bad bank. Geithner l’ha proposta, ma in termini tanto vaghi da provocare una profonda delusione e un tonfo ulteriore dei corsi azionari a Wall Street. E come mai la sua proposta è così vaga? Per la stessa ragione per cui aveva fallito Paulson, vale a dire i troubled assets non hanno un valore di mercato e non c’è intesa sul possibile prezzo di acquisto da parte della bad bank.

Ebbene, non si può andare avanti così. Se il nuovo ministro americano, e nqn solo lui, pensa che sia necessario separare i troubled assets, una ragione c’è ed è il timore che organismi tuttora inquinati da questi titoli avvelenati finiranno per morire di setticemia finanziaria e lo faranno magari più presto di quanto comunemente si creda, con terremoti ancora più gravi di quelli sin qui già subiti. Ma se è così, possiamo rimanere prigionieri di questo autentico dilemma del prigioniero attorno al prezzo ignoto del veleno?

Voglio ricordare che, già ai tempi di Paulson, George Soros, che pure gli suggeriva di abbandonare il suo piano iniziale e di entrare invece nell’azionariato delle banche a rischio, suggeriva altresì di trattare i troubled assets sulla base di un valore convenzionale che, in assenza di un valore di mercato, avrebbe fornito l’unica possibile via d’uscita. E anche in questi giorni, in un libro che sta pubblicando (“The Crash of 2008 and What it Means”), Soros ripropone la stessa idea, nel contesto non della creazione di bad banks pubbliche, ma di sidecars creati dalle stesse banche per infilarci i loro titoli illiquidì e ripulire così i loro bilanci.

Io non entro nella scelta fra bad bank e sidecar, anche se preferisco di gran lunga il secondo. Ciò di cui sono convinto sin dall’inizio di questa storia (e l’ho scritto nella mia prima “Lettera” su di essa, sul Sole 24 Ore del 5 ottobre scorso) è che non ne usciremo, perché la fiducia non tornerà, sino a quando i troubled assets non saranno espulsi. E l’unico modo di espellerli è di attribuire loro un valore convenzionale, visto che il mercato non è mai stato in condizione di prezzarli. Ci vuole coraggio per farlo e temo che la ragione per cui Geithner è rimasto nel vago sulla sua bad bank sia proprio che,quel coraggio gli è al momento mancato.

Ma se lo deve far venire e con lui se lo devono far venire i suoi colleghi del G-7 e oltre. Non si facciano troppi scrupoli. Chi ha messo in circolazione quei titoli, chi li ha impacchettati o reimpacchettati e li ha fatti ulteriormente circolare non merita particolare benevolenza. Si stabilisca un valore sufficientemente prossimo allo zero da non sprecare i soldi del contribuente nel caso li si volesse usare per comprarli. E lo si stabilisca tuttavia a un livello che non azzeri la capitalizzazio-ne delle banche. In ogni caso, se soldi pubblici dovessero servire, meglio usarli per ricapitalizzare banche pulite, che spenderne molti per comprare le loro porcherie. Se poi, in futuro, quegli stessi titoli avessero un valore, lo si potrebbe sempre ritornare ai portafogli da cui vengono.

So che ci sono delle domande a cui bisogna rispondere e la prima riguarda i titoli da includere: quelli inizialmente acquisiti “over thè counter” e cioè con prezzo non di mercato, quelli sostenuti da mutui-casa fragili, gli swaps che hanno ad oggetto i medesimi titoli, i pacchetti che includono o gli uni o gli altri?

Qui non ho la risposta, so solo che quando si è costretti a usare l’accetta, la si usa nel modo più oculato possibile, ma l’importante è tagliare i rami che possono cadere sulla testa di tutti. Altrimenti di lì nessuno tornerà a passarci. E noi, impotenti davanti agli irresponsabili che l’hanno scatenata, resteremo paralizzati nella crisi più grave degli ultimi decenni.

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→  febbraio 21, 2009

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di Francesco Giavazzi

Ci siamo infilati in una situazione assurda. I prezzi delle attività finanziarie, e quindi la ricchezza delle famiglie, sono precipitati, quasi che le economie del mondo fossero state tutte rase al suolo da un bombardamento globale, come la Germania nel 1945. In pochi mesi nel mondo è stata bruciata ricchezza per un valore di circa 40 mila miliardi di dollari. In una settimana Wall Street ha perso il 13 per cento; in poco più di un anno il valore delle azioni americane si è dimezzato. Ma non c’è stato alcun bombardamento: le aziende sono ancora tutte lì, anche le case, anche le nostre risorse naturali e i lavoratori hanno la medesima esperienza oggi che avevano ieri. È la sfiducia che ha trascinato il mondo in questa situazione assurda ed è da lì che occorre partire. La prossima sarà una settimana cruciale.

Se la caduta di Wall Street non si arresta, il vortice rischia di accelerare: un’ulteriore caduta della ricchezza delle famiglie americane rallenterebbe ancor più i consumi e cancellerebbe gli effetti dello straordinario piano fiscale approvato la scorsa settimana dal Congresso. Che fare? Innanzitutto non dimenticare che (grazie alla globalizzazione) mai il mondo era cresciuto tanto rapidamente quanto nel decennio precedente la crisi. E non solo i Paesi ricchi: per la prima volta anche l’Africa sub-sahariana aveva cominciato a crescere. Certo, c’erano molte debolezze: il prezzo delle abitazioni in qualche Paese era salito troppo; negli Stati Uniti ad alcuni immigrati recenti erano stati concessi mutui che non potevano permettersi; le banche si erano illuse di aver diversificato il rischio e invece spesso non lo avevano fatto; la regolamentazione faceva acqua; il Congresso aveva consentito che Fannie Mae e Freddie Mac, istituzioni che avrebbero dovuto essere dei semplici fondi di garanzia, si trasformassero in speculatori aggressivi, trasferendo il rischio su contribuenti ignari.

Ma tutto questo non giustifica l’abisso in cui siamo caduti. I mutui negli Stati Uniti oggi non valgono praticamente più nulla e tuttavia il prezzo delle case è sceso del 20-30%, non si è azzerato. Nelle città americane le abitazioni non sono scomparse, sono ancora tutte lì: varranno meno di due anni fa, ma dubito che non valgano più nulla. Come riportare il mondo alla ragionevolezza, come arrestare questa spirale perversa? È possibile e potrebbe non costare nulla. Il vortice in cui sono entrate le Borse dipende dalle banche: in una settimana Citigroup ha perso metà del suo valore e un’azione oggi vale meno di due dollari (ne valeva 50 un anno e mezzo fa). Ma la banca non è fallita: lo sarebbe se davvero pensassimo che le case e le aziende americane non valgono più nulla, ma così non è. Per far uscire i mercati dal vortice della sfiducia il governo americano dovrebbe garantire tutte le attività finanziarie collegate al mercato immobiliare, cioè impegnarsi ad acquistarle a un prezzo prefissato, superiore all’attuale prezzo di mercato.

Una simile garanzia rialzerebbe immediatamente i prezzi e con essi la ricchezza delle famiglie. Risolverebbe anche i problemi delle banche. Come per Citigroup, se le banche americane siano, o meno, fallite, dipende dai prezzi delle attività che hanno in bilancio: se il prezzo di questi titoli è zero sono tutte fallite; se il prezzo è ragionevole non lo è nessuna (ieri il governatore Draghi ha proposto garanzie pubbliche non sullo stock di attività oggi detenute dalle banche, ma sui nuovi prestiti, un intervento che va nella medesima direzione e aiuterebbe a far ripartire il credito alle nostre aziende). A quale prezzo dovrebbero essere offerte queste garanzie? Certo non ai prezzi precedenti la crisi, ma nemmeno ai prezzi di oggi, che per molti titoli sono prossimi a zero. Una possibilità è usare i prezzi precedenti il fallimento di Lehman, cioè quando i mercati già scontavano la crisi, ma prima del crollo.

E quanto costerebbero le garanzie ai governi? È probabile che su alcuni titoli il governo perda, cioè che i prezzi di realizzo siano inferiori al valore della garanzia. Ma per la maggior parte — quando il mondo tornerà alla ragionevolezza — il prezzo salirà ben oltre il valore della garanzia: in questi casi si potrebbe tassare la plusvalenza. Non solo le garanzie potrebbero non costare nulla: per i contribuenti potrebbero rivelarsi un grande affare. In questo fine settimana a Washington si è fatta strada anche un’altra idea: essa pure potrebbe spegnere il vortice senza costare nulla. Sul Washington Post Ricardo Caballero, economista del Mit, ha proposto che il governo si impegni ad acquistare fra due anni il doppio delle azioni delle quattro maggiori banche al doppio del prezzo di oggi. Il primo effetto sarebbe quello di raddoppiare il capitale delle banche tramite fondi privati.

Nello stesso tempo il prezzo delle azioni salirebbe immediatamente vicino al livello della garanzia pubblica, sollevando tutto il mercato. Anche questo provvedimento non costerebbe nulla ai contribuenti, a meno che davvero pensiamo che l’economia americana sia come la Germania del ’45. Il vantaggio rispetto alle garanzie sull’attivo delle banche è che in questo caso basta un annuncio: potrebbe accadere già domani. Delle garanzie sull’attivo delle banche ci sarà comunque bisogno, ma per quelle c’è un po’ più di tempo (qualche giorno, non qualche mese). Ciò che invece accelera il vortice è parlare di nazionalizzazioni. Nazionalizzare una banca significa azzerare (o almeno diluire) il capitale degli azionisti: non c’è da sorprendersi se questo rischio fa crollare le Borse. Fortunatamente ieri l’amministrazione Obama ha preso le distanze da chi chiede nazionalizzazioni.

Nella scena più famosa di Mary Poppins, Mr Dawes, l’anziano impiegato di banca, spaventa il piccolo Michael tentando di sottrargli un penny. La gente non capisce, si impaurisce e travolge la banca. È per evitare questi panici che sono nate le garanzie pubbliche sui depositi bancari. La prossima settimana il mondo potrebbe avvitarsi in una depressione, ma se accadrà sarà solo responsabilità nostra, cioè dei nostri governanti. Il mondo non è radicalmente diverso oggi da quanto fosse un anno fa, tranne che si è persa la fiducia. È da questa osservazione che deve partire l’opera di ricostruzione.

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