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→  novembre 25, 2009

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di John Kay

All our experience of the development of information technology starts from what the customer might want rather than what the technology might do.

Over the next decade, pressures on public funds will severely restrict spending on Britain’s crumbling infrastructure. We need to look carefully at plans to spend billions on a national network of very high speed internet connections, the main proposal in the recent government report on Digital Britain.

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→  novembre 22, 2009

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Bene essenziale, ma non conviene farne una guerra di religione

di Massimo Mucchetti

La privatizzazione dell’acqua, avviata dal decreto Ronchi, divide l’Italia. La questione scotta: si può vivere senza petrolio, non senza acqua. E non ci si può nascondere dietro un dito dicendo che la proprietà di quanto immesso nel tubo resta pubblica se il servizio non lo sarà più. Ma ha senso spaccarsi sul piano del principio? La risposta è: no.
Che il gerente dei servizi idrici sia pubblico o privato significa fino a un certo punto. La Germania ha i consumi più virtuosi, le minori dispersioni, Berlino ha l’acqua più cara e la gestione è diffusa in mano ai comuni. La Francia, invece, ha tre colossi quotati in Borsa ma influenzati dal governo. Il Regno Unito ha privatizzato. Negli Usa prevalgono le public authority, enti pubblici senza capitale, e ci sono i consumi più alti del mondo.

Meglio, allora, entrare nel merito. In Italia i servizi idrici appartengono agli enti locali con rare eccezioni: i francesi ad Arezzo, gli spagnoli in Sicilia. Nei 36 comuni di Federutility, avverte la fondazione Civicum, l’acqua costa un euro al metro cubo contro i 2 della media mondiale. Diversamente dal trasporto pubblico locale, in genere la gestione ordinaria degli acquedotti non è sussidiata. Perché allora si vuol privatizzare? Perché molto spesso regnano inefficienza e clientele, gli investimenti scarseggiano, gli acquedotti perdono più dell’accettabile.
Ci vuole una scossa. Ma perché imporre la privatizzazione laddove il servizio idrico funziona? Se non si rischiasse la demagogia, verrebbe voglia di referendum locali. I comuni azionisti di ex municipalizzate quotate in Borsa (A2A, Acea, Hera, Iride) dovrebbero mettere a gara le concessioni idriche e le «loro» società potrebbero partecipare. Bene. Ma si prevede una strana alternativa per i comuni renitenti a gare che potrebbero ridurre i margini sull’acqua: scendere al 30% della società quotata e conservare l’attuale, comoda concessione fino alla scadenza. Che senso ha? Il 30% in mano a un soggetto che non può salire è una quota inutile di fronte a un’ Opa.

L’acqua può attirare grandi operatori esteri come Generale des Eaux o Veolia ma anche speculatori che comprano a debito e poi trovano il modo di non investire. Il ministro Ronchi pensa di cavarsela con protezioni statutarie? A parte la debolezza della soluzione, se così fosse, i comuni continuerebbero a comandare e allora che senso avrebbe costringerli a (s)vendere di questi tempi? Poi ci sono le lacune. Saranno ammessi alle gare anche i pretendenti in conflitto d’interessi? Sarà consentito al gerente di affidare i lavori a proprie imprese quando poi i costi vengono addebitati in tariffa? Silenzio anche sui criteri delle tariffe: su quanto verrà remunerato il capitale investito; su come sarà il price cap, che limita la rivalutazione per l’inflazione delle tariffe, e l’azzeramento periodico delle rendite di monopolio attraverso il meccanismo di claw back. Visti gli «errori» dei governi (di ogni colore) sulle autostrade, è lecito dubitare che i comuni abbiano le competenze per fare meglio sull’acqua. Chi li aiuterà: un’Autorità, la Goldman Sachs o l’amico del sindaco?

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→  novembre 22, 2009

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di Alberto Mingardi

In nome dell’acqua bene comune, viene sprecato ogni anno un terzo delle risorse idriche captate. Se si parte da questo dato di fatto, è difficile leggere nella vasta mobilitazione contro “l’acqua ai privati” altro che un tic ideologico.

Con il sì del Senato al decreto Ronchi “salva infrazioni comunitarie”, a partire dal 2011 i servizi pubblici locali dovranno in via ordinaria essere affidati tramite gara. Non è prevista alcuna “privatizzazione dell’acqua”: il tentativo del legislatore è semplicemente quello di razionalizzare la fornitura del servizio. E’ noto quali siano, perlomeno sulla carta, le virtù della gara rispetto all’affidamento “in house”: in primis, una maggiore accountability e meno conflitti di interessi per le Amministrazioni. Quello idrico è un ciclo chiuso:quanti si aggiudicheranno il servizio, si impegneranno a raccogliere l’acqua, renderla potabile, portarla ai rubinetti e smaltirla dopo averla depurata. La gara serve per rendere contendibile un monopolio tecnico, rispetto al quale l’ipotesi di replicare l’infrastruttura è poco praticabile. La parte in commedia assegnata ai privati è fare profitto sulla riduzione dello spreco, ponendo in essere investimenti che il pubblico non potrebbe permettersi o non saprebbe selezionare, per rendere più solide le reti e assicurando una gestione più lineare e imprenditoriale.

Che la riforma dei servizi locali sia andata a segno, è un merito non da poco del governo. Rispetto ai tentativi precedenti, però, bisogna anche segnalare che l’articolato di legge è meno netto sul tema dell’in house. Il ddl Lanzillotta (nella sua prima versione) avrebbe costretto gli enti locali a rimuovere gli impedimenti allo svolgimento delle gare. Con il decreto Ronchi, quest’obbligo non è contemplato e l’affidamento diretto è ancora ammesso sia pure in via “straordinaria” (in presenza di esigenze ambientali o sociali variamente declinabili), e previo parere dell’Antitrust.

L’altro nodo da sciogliere attiene il fronte della regolazione, sul quale non si segnala nulla di nuovo. Sorveglianza e valutazioni tecniche restano in capo ad una Commissione presso il Ministero dell’Ambiente, e alle Autorità di ambito territoriale ottimale. L’idea di un regolatore indipendente (o dell’attribuzione di funzioni specifiche all’Agcm, oppure delle competenze su acqua e rifiuti all’Autorità per l’Energia) per ora non è neppure sulla carta, ma è evidente che se la liberalizzazione deve implicare la “de-politicizzazione” un passo in quella direzione è auspicabile. Il rischio è altrimenti quello di creare delle nuove zone d’ombra fra privato e pubblico, che assieme legittimerebbero i peggiori sospetti e vedrebbero le imprese giocare un ruolo residuale, in buona sostanza finendo per assomigliare a una “burocrazia meno onerosa”. Si perderebbe così parte dei benefici dinamici della concorrenza, quelli legati all’applicazione della creatività imprenditoriale ad un certo settore – e quindi alle innovazioni nella fornitura di un servizio.

Per loro natura, le gare sono strumenti molto imperfetti per sostenere lo sviluppo di questo genere di competizione. Tuttavia, sono l’unica arma attualmente a nostra disposizione, ed è comunque incoraggiante che finalmente il Parlamento abbia cominciato un percorso. Ora si aprono altre partite, persino più vischiose, a cominciare da quelle per il controllo delle aziende municipalizzate quotate di cui dal 2015 il pubblico dovrà possedere meno di un terzo. Sempre che non si continui con la prassi dei rinvii, come verranno scelti e chi saranno i nuovi soci è una questione cruciale, e sarà la cartina di tornasole sia della capacità dei territori di adattarsi alle logiche di mercato, sia della volontà della politica di mollare la presa. Purtroppo le polemiche di questi giorni ci dicono che restiamo liberalizzatori riluttanti, e ci sfugge la lezione più importante. Cioè che è proprio perché si tratta di servizi essenziali, come il pane, che è meglio fare assegnamento sul mercato, che sulla benevolenza del fornaio o del politico.

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→  novembre 18, 2009

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Dunque oggi alla Camera si va alla fiducia sull’acqua. Che bisogno aveva il governo di questo mezzo estremo per trasformare in legge un decreto, avendo i numeri di una larga maggioranza? Che fretta c’è su un tema di simile portata? È abbastanza intuibile. Se si affronta un iter normale, le cose vanno per le lunghe visto che il Pd è intenzionato a dar battaglia con l’Italia dei valori.

Entrambi i partiti hanno annunciato un fuoco di sbarramento a suon di emendamenti. Ma se accade, la storia comincia a far rumore; e se fa rumore c’è il rischio che gli italiani mangino la foglia. Cadrebbe la cortina di silenzio che negli ultimi anni ha avvolto il business legato alla distribuzione del più universale e strategico dei beni nazionali.

Il nodo è semplice. Lo Stato è in bolletta, da vent’anni non investe più come si deve sulla rete e oggi meno che mai ha soldi per un’azione di ammodernamento che costerebbe come otto ponti sullo stretto di Messina. Meglio dunque lasciare la patata calda ai privati, che con meno remore politiche potrebbero scaricare sulle tariffe il costo di un’operazione indilazionabile, e che per la mano pubblica è una delle ultime ghiotte occasioni di far cassa. Da qui un decreto che, caso unico in Europa, obbliga a mettere in gara tutti i servizi legati all’acqua e accelerarne la trasformazione in Spa, dimenticando che, quasi ovunque le grandi società sono entrate nel gioco, le tariffe sono aumentate in assenza di investimenti sulla rete.

Ovvio che meno se ne parla, meglio è. Se in Parlamento scatta la bagarre, c’è il rischio che i Comuni virtuosi (inclusi quelli con i colori della maggioranza), che hanno tenuto duro nel non cedere i loro servizi alle società di Milano, Genova, Bologna e Roma, creino un’alleanza per proteggere “l’acqua del sindaco”, cioè il loro ultimo territorio di autogoverno e autonomia dopo la perdita dell’Ici.

Se se ne parla, può succedere che gli utenti apprendano che, laddove le grandi società sono entrate in campo, le perdite della rete sono rimaste le stesse, i controlli di qualità sono spesso diminuiti e magari le tariffe sono aumentate . Magari si capisce che vi sono servizi che non possono essere privatizzati oltre un certo limite, perché allora l’acqua passa al mercato finanziario, diventa quotazione in borsa, e il cittadino non ha più un sindaco con cui protestare dei disservizi, ma solo un sordo “call center” piazzato magari a Sydney, Pechino o New York. No, non si deve sapere che siamo di fronte a un passaggio epocale, di quelli che cambiano tutto, come la recinzione dei pascoli liberi nell’Inghilterra del Settecento.

Non è un caso che si sia tentato di buttare una riforma simile nel pentolone di un decreto omnibus riguardante tutti i pubblici servizi, e non è un caso che – durante la discussione – si sia scorporato dal decreto medesimo il discorso il gas, i trasporti e il nodo delle farmacie. Gas, trasporti e farmacie erano la foglia di fico. Se oggi nel decreto su cui si pone la fiducia rimane solo l’acqua con i rifiuti, significa che l’acqua e i rifiuti sono il grande affare indilazionabile, l’accoppiata perfetta su cui si reggono i profitti delle multi-utility, e parallelamente le ingordigie della criminalità organizzata. Non è un caso che si parli tanto di “oro blu”.

La storia dell’umanità lo dice chiaro. Chi governa l’acqua, comanda. Le prime forme di compartecipazione democratica dal basso sono nate in Italia attorno all’uso delle sorgenti, quando i paesi e le frazioni hanno pensato ad affrancarsi grazie all’acqua. Lo scontro non è tra pubblico e privato, ma tra controllo delle risorse dal basso e delega totale dei servizi, con conseguente, lucroso monopolio di alcuni. Oggi potremmo dover rinunciare a un pezzo della nostra sovranità.

Paolo Rumiz

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→  novembre 15, 2009

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Resta escluso dal calcolo l’enorme contributo delle donne nell’economia domestica. Una risorsa ma anche un modello che genera le inefficienze del «familismo amorale»

Sarà in libreria nei prossimi giorni per Mondadori il volume «L’Italia fatta in casa. Indagine sulla vera ricchezza degli italiani» di Alberto Alesina e Andrea Ichino. Ne anticipiamo uno stralcio.

di Alberto Alesina e Andrea Ichino

Quando cuciniamo gli spaghetti per la cena facciamo un lavoro il cui valore non viene incluso nel conteggio statistico del Prodotto interno lordo. Se, invece di cucinare, andassimo a mangiare gli spaghetti al ristorante, il lavoro di chi li prepara e di chi ce li serve sarebbe incluso nel pil. Lo stesso accade per la pulizia della casa, per la cura dei bambini e degli anziani e per tutti gli altri beni e servizi che la famiglia produce e che potrebbero essere acquistati nel mercato aumentando il pil. Non è diversa la situazione degli spagnoli quando cucinano la paella o dei norvegesi quando pescano il merluzzo per la cena. Ma in Italia l’entità della produzione familiare non rilevata dalle statistiche ufficiali è maggiore che altrove. Possiamo, allora, sostenere che il nostro Paese, grazie a quanto le sue famiglie producono in casa, sia più ricco di quel che normalmente si pensi? E se fosse vero che produciamo in casa più di quanto prodotto dai cittadini di altri paesi, non dovremmo forse chiederci se questo abbia dei costi, ovvero se dare un ruolo così rilevante alla famiglia possa avere controindicazioni, in particolare per la condizione della donna, per il sistema educativo, per il mercato del lavoro e per la struttura del welfare state?

Nel 1956 un politologo dell’Università di Chicago, Edward Banfield, poi passato ad Harvard, decide di studiare le cause del ritardo di sviluppo nel Sud d’Italia. (…) Da questa esperienza deriva uno straordinario libretto di un centinaio di pagine intitolato Le basi morali di una società arretrata. Queste cento pagine, talvolta anche divertenti, ci aiutano a capire il Sud d’Italia molto più delle migliaia di pagine scritte da economisti, storici, politologi e sociologi sulla «questione meridionale». La spiegazione dell’arretratezza del Sud d’Italia secondo Banfield deriva dalla struttura della famiglia e dal suo rapporto con la società. Ma a nostro avviso questo libro ha molto da insegnare anche su tanti altri problemi del nostro Paese, ben al di là di Montegrano e della Questione meridionale.

Vivendo a Montegrano, Banfield si convince che l’arretratezza economica, politica e sociale del Sud risiede in quello che lui definisce il «familismo amorale». Con questo termine vuole cogliere il comportamento basato sulla convinzione che ci si possa fidare esclusivamente dei propri familiari; non solo, ma che ci si debba aspettare che tutti gli altri a loro volta facciano altrettanto, ossia si fidino solo dei propri consanguinei. Quindi, atteggiamenti collaborativi fondati su un reciproco rispetto e fiducia possono esistere solo all’interno della famiglia. A Montegrano ci si deve aspettare di essere truffati dagli estranei, cioè da chi non appartiene alla propria famiglia. E di riflesso, la risposta al timore di una possibile truffa è un atteggiamento altrettanto truffaldino. Una società basata sul familismo amorale si trova quindi in un equilibrio pessimo: nessuno collabora e si fida degli altri perché nessuno si aspetta che gli altri lo facciano e offrire collaborazione e fiducia significa la certezza di essere truffati.

Si tratta proprio di un equilibrio nel senso più tecnico di questo termine: ovvero questa è una configurazione sociale stabile nel senso che a nessuno individualmente conviene cambiare atteggiamento, a meno che non lo facciano anche gli altri, tutti insieme, e con la certezza che nessuno continui negli atteggiamenti truffaldini.
Non a caso, le cosche mafiose si autodefiniscono «famiglie». La norma in queste organizzazioni è che ci si può fidare, appunto, solo dei membri della «famiglia», mentre da qualunque altra persona non appartenente alla «famiglia» ci si devono aspettare solo trabocchetti e tradimenti e quindi bisogna agire di conseguenza. In particolare, per prudenza, conviene prevenire il tradimento altrui con quello proprio.
Banfield dimostra come le conseguenze del familismo amorale siano devastanti per l’economia e la società di Montegrano, soprattutto perché impediscono la creazione e la gestione di beni pubblici fruibili da tutti, che favorirebbero la crescita economica e sociale del paese. (…)

Una famiglia molto unita che produce beni e servizi necessita di una figura che mantenga l’unità familiare e svolga il ruolo di fulcro della casa. Questa figura è tipicamente la donna, moglie, sorella e madre. Ne consegue che dove i legami familiari sono più forti la partecipazione al lavoro femminile nel mercato è più bassa perché la donna è più impegnata in casa. Non per nulla nel Sud d’Italia le donne lavorano meno nel mercato e i legami familiari sono più forti, qualche volta addirittura «perversi», come nel caso del familismo amorale di Montegrano. In un Paese che scelga di dare un ruolo importante alla famiglia, una persona che svolga la funzione di fulcro di questa istituzione è forse necessaria: ma perché deve essere necessariamente la donna a svolgerla?
Potrebbe essere che alle donne italiane piaccia così. Oppure che non piaccia affatto, ma che per caratteristiche genetiche e culturali non rapidamente modificabili siano più adatte ed efficienti degli uomini nella produzione familiare. Oppure ancora potrebbe far comodo ai mariti, ai figli e ai fratelli che le donne non lavorino o che lavorino relativamente poco nel mercato e moltissimo a casa.

In questo caso quindi le donne sarebbero costrette a questo ruolo da un maggiore potere contrattuale degli uomini. Senza stravolgere e indebolire l’intensità dei legami familiari a cui gli italiani tengono in modo particolare, non sarebbe preferibile che gli uomini partecipassero di più a sostenere la famiglia nelle sue funzioni? In Italia molti uomini se ne guardano bene, delegando tutti i lavori di casa alle loro mogli, madri e sorelle.

Forse proprio all’interno della famiglia, più che a causa della discriminazione nel mercato del lavoro, si determina lo squilibrio di ruoli che osserviamo in tutti i Paesi e soprattutto in Italia.

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→  novembre 13, 2009


di Luca Ricolfi

Non so se il mondo sia di destra, nè se stia diventando più di destra di prima: a occhio e croce direi che il mondo ha altri problemi, e se ne infischia delle dicotomie che piacciono tanto a filosofi e politologi. Quanto a “noi” io non sono affatto nato di sinistra, ma lo sono diventato a un certo punto, alcuni anni dopo essere diventato juventino (l’unica identità che considero, purtroppo, irreversibile).

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