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→  gennaio 29, 2010

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Mercoledì sera, la politica ha battuto un colpo. Ha detto: io sono il centro del mondo. Di nuovo

di Alberto Mingardi

La domanda è una sola: ma come fa a venire in mente un’idea così? Dico, agganciare lo stipendio dei manager delle società quotate all’indennità parlamentare. Quasi i manager fossero magistrati, o professori universitari: insomma impiegati dello Stato il cui salario, per questioni di senso e di correttezza istituzionale, potrebbe muoversi all’unisono con quello dei rappresentanti del popolo.
Come se il rapporto d’agenzia, azionista-manager, dovesse essere regolato da altre logiche che quelle autonomamente scelte da chi si assume il rischio d’impresa.

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→  dicembre 22, 2009

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di Alberto Alesina e Andrea Ichino

Numerosi studi di sociologi ed economisti mostrano che una delle principali cause dell’arretratezza del Mezzogiorno ha radici antiche dalle quali dipende una carenza di “capitale sociale” e di “senso civico”. Al sud manca una sufficiente fiducia reciproca e una capacità di collaborare che vada oltre le mura familiari e che, quindi, faciliti contratti e interazioni economiche tra estranei. La produzione e lo scambio di beni diventano difficili, se non ci si può fidare delle persone con cui si interagisce.

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→  dicembre 17, 2009

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Intervista a Francesco Caio

«L’annuncio della Francia, due giorni fa, di un forte stanziamento pubblico per la banda ultralarga s’accompagna all’iniziativa del governo Brown che metterà 50 pence su ogni bolletta per finanziare la rete di nuova generazione. Gli altri paesi accelerano».
L’Italia non è al palo, ma su un passaggio tecnologico cruciale, rischia di scivolare verso l’eterna affabulazione avvolta com’è in un dibattito senza fine. Francesco Caio già responsabile di Olivetti, Omnitel, Merloni, Cable & Wireless, oggi nei ranghi più alti di Nomura e consulente sia del governo inglese sia di quello italiano sullo sviluppo del digitale, spinge ad agire.

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→  dicembre 12, 2009

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di Alessandro Penati

Da oltre dieci anni si discute dei problemi di Telecom Italia: un tormentone che si ripete fin dai tempi della privatizzazione.
Ma non si parla dell’azienda: servizi offerti, strategie, capacità di innovare, opportunità di crescita. Si discetta, invece, di proprietà e controllo o, meglio, dei problemi degli azionisti di maggioranza, di chi comanda (dei suoi amici e nemici), di piani e interessi del gruppo di controllo. Ma la problematica del controllo è fine a se stessa; non serve a gestire bene Telecom.
In questo contesto, si è aggiunta poi l’interferenza dei governi (di destra e di sinistra), nonostante l’azienda sia, da un decennio, privata al 100%. Così cambiano i nomi, dal piano Rovati del governo Prodi al piano Caio di quello Berlusconi, ma non la sostanza.
La vicenda è nota. Prima c’è stato il problema della montagna di debiti accumulata da Colaninno per conquistare Telecom (senza capitali), e per finanziare una massiccia campagna acquisti. Poi subentrano i problemi di Tronchetti che per ridurre i debiti vende quello che Colaninno aveva comprato; ma poi torna ad accumularne per fondere Olivetti, Telecom e Tim, senza diluire il suo controllo.
Alla fine, bisogna trovare una soluzione per far uscire Tronchetti prima che il debito diventi ingestibile per Pirelli. Ma c’è l’italianità da preservare. All’appello risponde il solito Trio: Mediobanca, con la fida Generali al guinzaglio, e IntesaSanpaolo, “banca di sistema”. Anche se il compito dell’azionista di controllo, cioè definire le strategie di una società, e verificare che il management le metta in atto, non è certo mestiere da banche e assicurazioni. Che anzi avrebbero fatto meglio a preoccuparsi di gestire casa loro.

Così, arriva Telefonica come partner industriale nel nuovo gruppo di controllo; che toglie le castagne dal fuoco a Tronchetti. Ma Telefonica crea più problemi di quanti ne risolva. Prevedibile, visto che le due aziende sono concorrenti. Il connubio apre conflitti di interesse di tutti i tipi: problemi di Antitrust e concorrenza in Sud America; operazioni con parti correlate, come nella cessione a Telefonica di Hansent (e nell’eventuale vendita di Brasile); problemi con le attività televisive, dove Telecom subisce la concorrenza di Mediaset, mentre questa tratta con la controllante Telefonica l’espansione tv nel mercato spagnolo. Senza contare i “piani” di marca governativa, sempre attenti agli interessi di Mediaset, per una rete in fibra che toccherebbe, guarda caso, gli interessi delle tv. In questo suk, non si capisce quale sia veramente la strategia che il Trio ha in mente per Telecom. Ma è chiaro che una simile sequenza di azionisti di controllo è stata deleteria per un’azienda che, a differenza delle altre privatizzate (come Eni, Enel, Autostrade), deve fronteggiare un tasso di innovazione senza eguali (da Facebook all’iPod, sono nati dopo il 2001), operare in un mercato domestico altamente concorrenziale, e in un panorama globale di progressive concentrazioni.
Bisognerebbe ricordarselo quando si parla di privatizzazione fallita. Il vero fallimento è l’ossessione di avere un azionista di controllo; e italiano. Disfarsene permetterebbe di concentrarsi sul futuro l’azienda: negoziando l’uscita di Telefonica, magari in cambio del Brasile; liberandosi di tutte le attività tv al miglior offerente; convertendo le azioni di risparmio per diluire il Trio, e aprire la strada a un aumento di capitale per espandersi e/o ridurre il debito; e lasciando allo Stato il progetto della mega rete in fibra: se vuole, se la faccia, visto che Telecom non potrebbe mai recuperare il costo del capitale.
E lasciando la retorica sul digital divide (come pensare di sviluppare l’economia della Barbagia costruendo un’autostrada a sei corsie fra Nuoro e Arbatax) e sulla internet-tv (in un paese già saturo di televisione), a chi con la retorica ci campa.
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di John Kay – Financial Time, 25 novembre 2009

→  novembre 29, 2009

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di Francesco Giavazzi

La cultura: protagonisti, libri, arte, dibattiti, racconti. Prospettive: chi deve pagare il prezzo del benessere. Il modello organizzativo in vigore ha forti riflessi anche sul mercato del lavoro, con una serie di difficoltà di accesso. Un saggio di Alberto Alesina e Andrea Ichino pone l’ interrogativo sul rapporto tra il prezzo e i benefici e sulla coscienza che ne abbiamo.

La centralità della famiglia nella società italiana è un valore che ci avvantaggia rispetto a Paesi in cui i legami familiari sono più attenuati o pressoché inesistenti, come ad esempio negli Stati Uniti, oppure è una palla al piede? Il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, non ha dubbi: nel «Libro Bianco» sul futuro del modello sociale italiano, scrive: «Esiste un legame inscindibile tra il benessere della famiglia e quello della società. Famiglia vuol dire tessitura di legami verticali, solidarietà intergenerazionale, relazioni che danno il senso della continuità temporale; vuol dire rapporti di prossimità e parentela, che consentono la coesione comunitaria. La famiglia trasmette ai figli il patrimonio, ma anche la cultura, la fede religiosa, le tradizioni, la lingua, e crea quel senso profondo di appartenenza, di consapevolezza delle origini così necessario all’identità di ciascuno. La famiglia è anche il nucleo primario di qualunque Welfare, in grado di tutelare i deboli e di scambiare protezione e cura, perché è un sistema di relazioni, in cui i soggetti non sono solo portatori di bisogni, ma anche di soluzioni, stimoli e innovazioni». Così poste sono affermazioni che ciascuno di noi può valutare solo alla luce dei propri valori religiosi, delle proprie convinzioni politiche. Un cattolico dirà: «È certamente così». Un laico osserverà che in altri Paesi, ad esempio quelli scandinavi, la famiglia non è il perno centrale del Welfare, e ciononostante la società pare funzionare bene, talvolta persino meglio della nostra. Privi di evidenza empirica, di fatti e di analisi con cui formarsi un’opinione, i cittadini si divideranno – come accade ormai su ogni argomento in Italia – in due fazioni opposte, pronte ad aggredirsi, incapaci di ragionare perché prive degli strumenti per farlo. Il libro di Alberto Alesina e Andrea Ichino L’Italia fatta in casa (Mondadori) è uno strumento per capire. Non se la famiglia sia un valore, non è di questo che si discute. Bensì quali siano i vantaggi, e anche i costi, della scelta (che è quella che fa Maurizio Sacconi) di affidare alle famiglie, anziché al Welfare pubblico, un ruolo tanto importante nella tutela di chi perde il lavoro, di chi è anziano, dei bisognosi.

Per capirlo il libro di Alesina e Ichino parte da un fatto. In Italia il 45% delle coppie sposate di età inferiore ai 65 anni vive entro un raggio di un chilometro dai propri genitori. La vicinanza rende possibili aiuti reciproci: assistenza dei figli ai genitori anziani e dei genitori ai figli per la cura dei nipoti. Ma anche scambi monetari: una famiglia ogni dieci dichiara di aver ricevuto un aiuto dai genitori (solo una su venti in Spagna e una su cento in Gran Bretagna) e la frequenza di questi aiuti cresce quando qualcuno nella famiglia perde il lavoro. Quindi in Italia non solo i trasferimenti finanziari fra parenti sono più frequenti che altrove, ma il soccorso dei parenti viene invocato e offerto proprio quando qualcuno perde il lavoro. Osservate che l’aver spostato l’assistenza (dei bimbi, degli anziani, dei disoccupati) a carico delle famiglie, non ci ha consentito la costruzione di un Welfare «leggero»: il nostro Stato sociale è tutt’altro che leggero, costa oltre un quarto del reddito nazionale, più o meno come nel resto d’Europa. Ma mentre negli altri Paesi l’assistenza alle famiglie rappresenta il 20% della spesa per il Welfare, in Italia è solo il 6%. Il nostro Welfare si limita sostanzialmente a pagare pensioni. Perché abbiamo fatto queste scelte? Le istituzioni di un Paese non sono casuali, bensì riflettono le preferenze dei cittadini. Agli italiani piace una società costruita intorno alla famiglia e nel tempo hanno creato istituzioni che consentono il perpetuarsi del ruolo centrale della famiglia. Nel secolo scorso l’emigrazione era una necessità: rompeva le famiglie, sia che si emigrasse in America o a Torino, ma non vi erano alternative. Diventati più ricchi, non abbiamo utilizzato la maggior ricchezza per costruire reti di protezione sociale che si sostituissero alla famiglia, ad esempio asili nido o sussidi di disoccupazione per tutti. Al contrario le istituzioni si sono evolute proprio per consentire alla famiglia di divenire il maggior erogatore di servizi sociali. Pensioni e Statuto dei lavoratori sono un esempio. Molte famiglie italiane possono contare sul reddito di almeno un «maschio adulto» protetto. Alesina e Ichino osservano che ciò trasforma la famiglia in un magnete che la tiene unita. La loro ricerca stima che se in una famiglia italiana il padre perde non il lavoro, ma semplicemente la certezza di essere occupato nell’anno successivo, la probabilità che i figli escano di casa aumenta del 40%. Lo stesso potrebbe dirsi a proposito della «cronica assenza» di asili nido. Se ce ne sono pochi non è perché «politici cattivi» non vogliano costruirne, ma perché razionalmente valutano che destinare miliardi di euro alla costruzione di un ponte sullo Stretto di Messina paghi di più, in termini di voti, che destinarli agli asili. La medesima osservazione aiuta a comprendere come mai il ministro del Welfare si opponga con tanta violenza alla costruzione di un Welfare moderno, mentre difende a spada tratta il diritto ad andare in pensione prima dei sessant’anni di età. Pensioni sicure e assenza di asili nido rendono la centralità della famiglia al tempo stesso possibile e necessaria.

È questo che gli italiani vogliono, ed è questo che Sacconi offre loro. Se si riflette su questo punto, forse si capisce perché il centrodestra vince le elezioni. Ma acquisito che ci ritroviamo le istituzioni che ci soddisfano, la domanda successiva è: quali sono i costi di questo modello e dove ci sta portando? Vi sono almeno quattro conseguenze: la scarsa mobilità geografica che dà luogo al fenomeno che Edward Banfield – un politologo dell’università di Chicago che studiò attentamente l’Italia – cinquant’anni fa definì «familismo amorale»; il precariato, cioè un mercato del lavoro diviso fra un gruppo di super-tutelati e un esercito senza alcuna protezione; la difficoltà delle nostre imprese di crescere e un peso straordinario a carico delle donne. «Non a caso le cosche mafiose si definiscono famiglie». In una società centrata sulla famiglia, le persone tendono a fidarsi dei propri parenti e a diffidare degli estranei. In una serie di lavori di ricerca molto interessanti, tre economisti italiani, Paola Sapienza, Luigi Guiso e Luigi Zingales, costruiscono una misura del «capitale sociale» in diverse regioni italiane (il capitale sociale è proprio ciò che il familismo non consente di accumulare) utilizzando come indicatore il numero dei donatori di sangue. Ne emerge che nel Mezzogiorno, dove la famiglia è più centrale e la mobilità inferiore, vi sono meno donatori di sangue che, ad esempio, in Friuli. La scarsa mobilità influenza anche l’accesso al mercato del lavoro. «In una società fondata sulla famiglia, il primo passo è trovare un lavoro, anche precario, ma vicino a casa per poter essere aiutati dai genitori. Poi si aspetta un posto stabile, che generalmente si trova attraverso i contatti familiari e quindi sempre vicino a casa. A questo punto nascono i figli e i genitori, per fortuna, sono vicini, aiutano ad accudirli. Poi i figli, diventati adulti, accudiranno i genitori anziani. La famiglia italiana è il complemento perfetto del mercato del lavoro duale, fondato sull’immobilità geografica». Quando la ricerca del lavoro si limita ad un intorno della propria famiglia, conoscenze e raccomandazioni contano più di meccanismi che consentono un’allocazione efficiente tra lavoratori e imprese, a esempio utilizzando i servizi forniti dal sito www.monster.com. Altri tre economisti, Samuel Bentolilla, Luigi Pistaferri e Claudio Michelacci mostrano che la ricerca del lavoro tramite le amicizie dei parenti consente di trovare un posto relativamente presto, ma con una retribuzione inferiore rispetto ai lavori trovati al di fuori della cerchia delle amicizie familiari. Ma poiché il lavoro trovato dai parenti consente di vivere vicino alla famiglia, lo stipendio inferiore è compensato dai molti servizi offerti gratis dai genitori. Ma che occasioni ha perso quella ragazza che ha rinunciato alle opportunità che avrebbe potuto offrire il mercato del lavoro di un’altra regione? Lo stesso si può dire per le aziende: «Mio figlio è purtroppo un pessimo ragioniere, ma se riesco a farlo assumere dall’azienda del mio amico (magari promettendogli un piccolo aiuto nella sua pratica in Comune), troverà prima un lavoro». Ma quanto costa questo scambio all’azienda dell’amico, che su monster.com avrebbe potuto trovare un ottimo ragioniere, certo, pagandolo abbastanza per convincerlo a muoversi da una città lontana? Francesco Caselli e Nicola Gennaioli mostrano che in Italia la frequenza con cui la proprietà delle imprese viene trasferita dai genitori ai figli è particolarmente elevata perché la giustizia civile rende più difficile far rispettare i contratti. Familismo amorale e giustizia civile inefficiente fanno sì che la proprietà delle aziende rimanga all’interno della famiglia. Alla luce di quanto sopra osservato sulle istituzioni, viene da chiedersi se l’inefficienza della giustizia civile non rifletta semplicemente le preferenze degli italiani. Ma poi non dobbiamo lamentarci se le aziende non crescono, rimanendo piccole non sono in grado di investire in ricerca e sviluppo e prima o poi non ce la fanno più. Ma il costo maggiore di una società centrata sulla famiglia è il peso straordinario che incombe sulle donne. Non può esservi centralità della famiglia se la casa è vuota. E chi la riempie in Italia è la donna. In Italia le donne che lavorano lo fanno in media per 7,1 ore al giorno, contro le 8,8 dei maschi. Rientrati a casa, gli uomini aggiungono 2 ore di lavoro, le donne 4,3. Sommata sull’arco di un anno questa differenza significa che le donne in un anno lavorano 27 giorni (di 8 ore) più degli uomini. In Spagna, un Paese per molti aspetti simile, la differenza è la metà.

Siamo sicuri che questo squilibrio sia un bene? È un bene che tante donne intelligenti scelgano il part-time e addirittura abbandonino il lavoro per poter accudire figli, suocere, genitori e nipotini, o magari semplicemente per tenere la casa pulita anziché assumere un collaboratore domestico? L’Italia fatta in casa si chiude con due vignette suggestive che confrontano la sera in una casa americana e in una italiana dove la donna, nonostante i suoi quattro lavori, mantiene sempre il sorriso – ma prima di addormentarsi si chiede se anni prima abbia fatto bene a rinunciare alla promozione che le era stata offerta dall’azienda per poter trascorrere più ore a casa. Quanto siano scelte libere e quanto imposizioni di una società centrata sulla famiglia e sui maschi adulti è difficile dire. Certo, come ho osservato, la risposta che tutto dipende dalla scarsità dei servizi pubblici non tiene. Le donne sono una maggioranza. Se considerassero questi servizi essenziali, nel tempo avrebbero votato per chi si impegnava a fornirli. È più probabile che il ruolo delle donne dipenda da tratti culturali che hanno radici profonde ed è difficile cambiare. Studiando il comportamento negli Stati Uniti d’America di immigrati provenienti da diversi Paesi, tre giovani economiste, Raquel Fernandez, Alessandra Fogli e Claudia Olivetti (anche gli economisti talvolta aiutano a comprendere la società!) hanno scoperto che, nonostante l’esperienza di una società tanto diversa, le caratteristiche culturali del Paese d’origine (in particolare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro) sono molto persistenti, non scompaiono neppure dopo due o tre generazioni. È possibile che la mia sia un’interpretazione tutta sbagliata. Se le lettrici lo pensano, le invito, dopo aver letto L’Italia fatta in casa, a spiegarmi perché le donne italiane accettano di sopportare un peso tanto sproporzionato. Se non si capisce questo punto, discutere delle «quote rosa» non porta molto lontano.

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→  novembre 29, 2009

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di Massimo Mucchetti

Il Tribunale di Milano si prepara a emettere una sentenza che potrebbe costituire una pietra miliare nel diritto di Internet e costringere il re della rete, Google, a correggere il suo modello di business aperto e, oggi, irresponsabile. Mercoledì 25 novembre i pm Francesco Cajani e Alfredo Robledo hanno pronunciato la requisitoria. Il processo ha origine dalla querela depositata il 9 novembre 2006 dall’Associazione Vivi Down in merito a un video che riprendeva le umilianti angherie di alcuni ragazzi contro un compagno di scuola handicappato.

Il filmino è apparso sul sito htpp://video.google.it nella sezione «video divertenti». Le immagini sono rimaste online abbastanza a lungo da essere visualizzate 5.500 volte ed entrare così nella classifica dei 100 video più scaricati, al 29esimo posto, prima di essere rimosse. La censura è stata fatta da Google, ma solo su ordine della polizia avvisata dall’ Associazione a sua volta mobilitata da un cittadino, Alessandro D’ Amato, che prima aveva invano segnalato la cosa allo stesso Google e poi ne aveva scritto sul suo blog. Questa clamorosa violazione della privacy fa emergere l’ ambiguità di una multinazionale che reagisce raccontandosi in modi diversi a seconda dell’ interlocutore. Al popolo degli internauti Google si mostra come il campione del mondo free, dove tutto è libero e gratuito. Alla stampa e alla Borsa come un motore di ricerca attrezzato per contrastare gli abusi, nel rispetto delle leggi di ogni Paese.

Agli inserzionisti come un editore innovativo che, con il programma AdWords, consente di raggiungere il cliente potenziale con costi legati alla performance. Ma di fronte alla magistratura Google nega l’ interesse economico di Google Video per non doversi riconoscere editore con le conseguenti responsabilità, salvo dover ammettere il fine del lucro davanti alle evidenze. E cerca di disconoscere la giurisdizione italiana a carico dei legali rappresentanti di Google Italy. Fanno tutto a Mountain View, ripete: ci si informi per rogatoria e magari ci si giudichi in base alla legge californiana. Quattro verità sono troppe per essere tutte buone.

A naso la più credibile è quella legata al quattrino. Le altre sembrano di comodo. E allora non si capisce perché in un giornale, in una tv o anche in un sito registrato debbano rispondere sul piano penale e civile delle violazioni della legge sia l’ autore del servizio che il direttore responsabile coperti dall’ editore, mentre su Google Video, piattaforma editoriale di autori vari e un padrone solo adattata ai diversi Paesi, non debba rispondere nessuno. Certo, controllare costa. Non basta la persona a ciò preposta a Dublino. Google spende molto in uomini e mezzi per scannerizzare i libri e fare la Biblioteca universale dai cui si attende adeguati ricavi.
Potrebbe farlo anche per evitare che gli imbecilli o i malvagi usino i suoi servizi per colpire i più deboli. Guadagnerà meno? Pazienza. Il Tribunale di Milano può porre un vincolo che aiuterà Google a diventare migliore. Come tanti anni fa la legge sulla giornata di lavoro di 8 ore costrinse le industrie a reinventarsi per recuperare quanto avevano dovuto sacrificare alla civiltà.
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