→ Iscriviti
→  settembre 27, 2010


di Alessandro Penati

CARO presidente Geronzi,
le scrivo per esprimerle pubblicamente la mia gratitudine e ammirazione per l’intervista concessa a questo giornale, che oserei definire memorabile. Ma, d’altra parte, a questi exploit, dovremmo essere abituati: altrettanto memorabile fu quella rilasciata al Sole-24 Ore nell’agosto 2008. Sono memorabili perché attribuiscono un significato pratico e preciso a concetti astratti: sono veri contributi epistemologici che ci rivelano il vero volto di una realtà che ci circonda, ma della quale siamo inconsapevoli testimoni.

leggi il resto ›

→  settembre 22, 2010


di Francesco Giavazzi

Non è il disaccordo sulla presenza dei libici che ha indotto le fondazioni italiane e gli azionisti tedeschi a sfiduciare Alessandro Profumo, peraltro senza scegliere subito un sostituto, come dovrebbe avvenire in una grande banca internazionale. Sarebbe infatti sciocco opporsi a un socio di minoranza che non esita a mettere mano al portafogli quando la banca ha bisogno di capitale fresco. La Libia è solo un pretesto. Il vero scontro che oppone Profumo ai grandi azionisti della banca è la sua decisione di trasformare Unicredit da una somma di feudi locali (Monaco di Baviera, Verona, Torino, Modena, Treviso…) in una struttura unica, come lo sono le grandi banche internazionali, ad esempio Hsbc (Hong Kong and Shanghai Banking Corporation), la più estesa e la migliore banca al mondo.

leggi il resto ›

→  settembre 18, 2010

di Giovanni Valentini

Gli uomini del centrosinistra hanno commesso gravi errori che hanno agevolato l’ ascesa di Berlusconi. (da “Berlusconi e gli anticorpi” di Paolo Sylos Labini Laterza, 2003 – pag. 28) Diversi lettori hanno scritto piuttosto allarmati al Sabato del Villaggio, dopo aver letto la rubrica della settimana scorsa intitolata “Se il Cavaliere compra il Corriere della Sera”, in cui si annunciava che il 31 dicembre prossimo scadrà il divieto stabilito a suo tempo dalla legge Mammì di acquisire il controllo di quotidiani per chi possiede già tre reti televisive. E si ricordava contemporaneamente che giace in Parlamento una proposta di legge, di cui il primo firmatario è l’ ex ministro Paolo Gentiloni, per prorogare ulteriormente questa eventualità al 2015. L’ articolo non è piaciuto, invece, all’ ex senatore Franco Debenedetti che in una lettera esprime il suo “netto disaccordo”.

E l’intervento merita un chiarimento e una replica: non solo perché proviene da un personaggio che è stato parlamentare per tre legislature (1994, ‘ 96 e 2001), prima nelle liste del Pds e poi in quelle dei Ds. Ma soprattutto perché, al di là delle migliori e più rispettabili intenzioni, rivela una sconcertante disinformazione e una sostanziale indifferenza sul tema nevralgico del conflitto di interessi, entrambe diffuse purtroppo anche in una parte dell’opinione pubblica di sinistra. “Dalla Mammì – scrive Debenedetti – sono passati 20 anni, nel mondo dei media è successo di tutto. Che la Repubblica Italiana anno 2010 stabilisca per legge che il matrimonio tra televisione e giornali non s’ ha da fare, mai, in nessun caso, mi pare un’idea assai poco illuminata, proprio da non andarne fieri”. In realtà, la legge Mammì non stabiliva affatto un divieto assoluto di incrocio fra tv e giornali. Quella legge, approvata dal Caf (Craxi-Andreotti-Forlani) dopo l’occupazione selvaggia dell’ etere da parte Di Sua Emittenza, era una legge-fotografia che si limitava a ratificare l’esistente, cioè il fatto compiuto. Tuttavia, per un minimo di pudore o di decenza, all’articolo 15 introduceva un “Divieto di posizioni dominanti”, fissando appunto una griglia nell’incrocio fra tv e carta stampata: chi deteneva già il 16 per cento della tiratura complessiva dei quotidiani italiani, non poteva avere neppure una concessione televisiva nazionale; chi deteneva l’8 per cento della tiratura dei quotidiani, poteva avere una sola concessione tv; e infine chi deteneva una quota di tiratura inferiore, poteva averne al massimo due. A quell’epoca, come si ricorderà, la Fininvest possedeva già Canale 5, Italia Uno e Retequattro. Per cui, non solo non avrebbe potuto ottenere una terza concessione nazionale, come la Corte costituzionale ha più volte sancito in nome del pluralismo e della libera concorrenza: tant’è che siamo arrivati fino al cosiddetto “decreto salva-reti” nel 2004 e alla legge-vergogna che porta la firma dell’ ex ministro Gasparri. Ma, proprio in forza di quella timida normativa anti-trust, il Cavaliere non poteva mantenere la proprietà del Giornale, ceduto infatti al fratello Paolo con gli esiti che sono ormai sotto gli occhi di tutti. Sorprende e sconcerta, perciò, che un ex parlamentare del centrosinistra non conosca o non ricordi bene il testo della legge Mammì. Certo che il “matrimonio fra televisione e giornali”, come lo chiama Debenedetti, s’ha da fare: tanto più nell’ era della convergenza e della multimedialità. Il punto non è questo, bensì il livello di concentrazione che si realizza nel campo dell’informazione e della raccolta pubblicitaria, a danno di tutti gli altri media. Ma ancor più sorprende e sconcerta che un ex parlamentare del centrosinistra difenda perfino la legge Gasparri che, dietro il paravento del digitale terrestre, di fatto ha consolidato e rafforzato il duopolio di Rai e Mediaset nel settore della televisione generalista, in chiaro, quella che più fa opinione e influisce più ampiamente sulla formazione del consenso. Eppure, una recente indagine del Censis documenta che i telegiornali restano il mezzo principale per orientare il voto, soprattutto fra le casalinghe (74,1%), i meno istruiti (76%) e ancor più trai pensionati (78,7%). Per l’ex senatore Debenedetti, una concentrazione come quella che si realizzerebbe nell’ipotesi che Berlusconi comprasse il Corriere della Sera, o qualsiasi altro quotidiano, “non è neppure fantapolitica, è surreale”. E comunque sarebbe impedita dal decreto legislativo del 31 luglio 2005 (n. 177 – art. 43). Ma abbiamo già visto fin troppo in passato come si aggirano o si eludono le leggi anti-trust in questo campo. La proposta presentata dall’ex ministro Gentiloni resta perciò quantomai valida e attuale.

→  settembre 11, 2010


di Giovanni Valentini

La formazione dell’ opinione pubblica (…) è sempre più largamente un prodotto pianificatoe confezionato con le tecniche della pubblicità commerciale e controllato dai tycoons dell’ informazione di massa. (da “Democrazia senza democrazia” di Massimo L. Salvadori – Laterza, 2009 – pag. 60) Al di là delle strumentalizzazioni e delle convenienze di parte, di fronte alla spettacolare implosione del centrodestra innescata dall’ espulsione di Gianfranco Fini e dei suoi fedelissimi dal PdL, in un Paese normale sarebbe fisiologico andare alle elezioni anticipate per ricostituire una maggioranza parlamentare e di governo. Ma, in una situazione evidentemente anomala come quella italiana, sarebbe ancora più opportuno modificare prima la legge elettorale e stabilire magari nuove norme per assicurare la regolarità della competizione.

leggi il resto ›

→  settembre 8, 2010


di Riccardo Sorrentino

Sembrava una questione superata. La crisi, che spinge a recuperare molti sentieri interrotti delle discipline economiche, ha però riproposto anche la polemica tra storia e teoria, che aveva animato il dibattito già a fine 800.

Suo animatore è stato Niall Ferguson, che fin dal libro “Soldi e potere nel mondo moderno. 1700-2000″ aveva in sostanza contestato lo schema storiografico – legato al nome di Karl Marx, ma in realtà figlio dell’illuminismo francese e scozzese – che, rischiando un po’ la caricatura, si può chiamare “determinismo economico”: l’idea che sia l’economia a condizionare società, diritto, politica e magari anche la cultura.
Ferguson è andato anche oltre.

leggi il resto ›

→  settembre 2, 2010



di Innocenzo Cipolletta

Tra le vittime della vicenda Fiat di Pomigliano c’è sicuramente il ricorso ad accordi sindacali separati, che nel corso degli ultimi dieci anni ha caratterizzato le relazioni industriali italiane. Senza un sistema di regole sulla rappresentanza, gli accordi sindacali separati finiscono per essere non gestibili o non applicabili.
Se l’accordo non coinvolge tutte le parti, è necessario disporre di un sistema di regole che verifichi le rappresentanze, determini chi abbia diritto a negoziare e definisca le modalità di approvazione e di applicazione dei contenuti del negoziato verso tutti i lavoratori.

Invece, fino ad oggi, l’applicazione degli accordi sindacali è rimasta alla prassi che si era consolidata quando non c’erano accordi separati.

Ne può essere considerato un precursore l’unico accordo separato che venne effettivamente applicato nel passato, quello sulla predeterminazione della scala mobile nel 1984. Infatti quello fu un accordo tra governo da una parte e Confindustria, Cisl e Uil dall’altra, con l’esclusione della Cgil. La particolarità di quell’accordo era che il governo aveva la capacità di emanare una legge per ratificarlo e renderlo applicabile a tutti. Per questo venne tentato un referendum abrogativo nel 1985, dove vinsero i no e sancirono definitivamente la validità dell’accordo.

Ma le parti sociali non hanno capacità legislativa. Fiat, Confindustria, Cisl o Uil non possono fare una legge per dare validità erga omnes ai loro accordi. Possono tentare di applicare gli accordi separati, ma devono accettare il rischio di contestazioni. Se non ci sono regole chiare per l’applicazione dei contratti, gli accordi vanno ricercati con tutte le sigle sindacali che hanno un peso rilevante nelle aziende. È questa la sola garanzia che poi essi possano essere applicati.

Come ha ricordato Franco Debenedetti su questo giornale (il 24 agosto) occorre definire regole per le deroghe ai contratti nazionali e per l’applicazione delle clausole di tregua al fine di rendere applicabile l’accordo di Pomigliano. In assenza di queste norme è bene ricercare un accordo con tutte le sigle sindacali, come è sperabile che avvenga presto, a interesse del paese e dei lavoratori coinvolti.

La positiva risposta dell’amministratore delegato della Fiat e del segretario della Cgil alla sollecitazione del presidente Napolitano a riprendere il dialogo rappresenta forse l’ultima speranza che questa vicenda si chiuda positivamente, senza nessuno che si senta sconfitto.
Nel passato, ossia negli ultimi decenni del secolo ormai trascorso, la pratica della ricerca di un accordo con tutte le principali sigle sindacali era la norma. Essa poteva essere lunga e defatigante, ma alla fine portava a risultati positivi. È con essa che è stata eliminata la scala mobile nel 1993, ciò che ha definitivamente portato nel futuro le relazioni industriali italiane.
Occorre sottolineare che la ricerca di un accordo con tutte le parti non dava a nessuna di esse il diritto di veto, come banalmente qualcuno ha affermato. Al contrario, poiché si trattava di decidere su questioni rilevanti per i soggetti coinvolti (lavoratori e imprese), le parti erano caricate della responsabilità di non trascinare i negoziati oltre certi limiti.

Anche le parti più estremiste alla fine cedevano, magari scaricando sugli alleati più malleabili la responsabilità di aver dovuto “mollare” su specifici temi. Ma questa è, da sempre, la logica dei negoziati, dove c’è chi è più pronto a chiudere e chi non vorrebbe terminare mai.

Aver dato luogo alla pratica degli accordi separati ha tolto ai più litigiosi la responsabilità di bloccare una trattativa che riguarda più persone. Questo ha finito per esaltare la loro capacità di resistenza, certi che comunque non impediranno un accordo che comunque verrà fatto senza di loro. Così gli accordi si firmano più rapidamente “solo con chi ci sta”, ma il risultato è quello di aver creato incertezza e distrutto le basi per futuri accordi.

In queste condizioni, le strade sono due. O si torna a negoziare con tutti, oppure si stabiliscono norme precise per valutare il peso specifico delle rappresentanze sindacali e procedure certe per l’applicazione degli accordi negoziati con una parte dei lavoratori rappresentati.

In parlamento già ci sono progetti di legge pronti per essere discussi e approvati. Ultimi quelli del senatore Pietro Ichino che ha proposto un testo organico per una semplificazione del diritto al lavoro (Dl n. 1.872 del novembre 2009) e norme specifiche per consentire una deroga ai contratti nazionali e l’applicazione della clausola di tregua anche ai lavoratori come singoli, in assenza di un accordo tra le parti che regoli il tutto (aprile 2010).

Queste norme potrebbero essere approvate in tempi brevi, se le parti interessate facessero sentire la loro voce. Ciò che è strano in questa vicenda è che le parti che più hanno fatto ricorso ad accordi separati in questi anni non siano affatto quelle più attive per far approvare queste norme sulla rappresentanza. E questo getta una strana luce sulla possibilità di perseguire anche in futuro accordi separati.

ARTICOLI CORRELATI
Senza tregua non c’é crescita
di Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore, 24 agosto 2010