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→  gennaio 18, 2012


di Cesare Cavalleri

Vilfredo Pareto (1848-1923), oltre che economista e sociologo, è anche un ottimo scrittore, il che non guasta. Appartiene alla schiera degli economisti “marginalisti” il cui capostipite è Léon Walras, al quale Pareto succedette nella cattedra di economia dell’Università di Losanna, nel 1894. Sia Pareto, sia Walras provenivano da studi d’ingegneria.

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→  dicembre 19, 2011


Torna il libreria il trattatello liberale e libertario di Pareto. Un libro che nel mettere a nudo le ipocrisie dell’epoca, denuncia i rischi che si nascondono dietro ogni moralismo proibizionista che, oggi come un secolo fa , pretende di vietare irrinunciabili diritti personali dell’individuo

È una iattura il trionfo del conformismo moralista. Anzi, quando i moralisti assurgono a maître à penser di un’epoca la dittatura è dietro l’angolo, per quanto soft e mistificata da buonismo possa essere. E mentre si diffonde questa potente arma di distrazione di massa le classi dirigenti dimenticano i veri problemi del Paese. Ci hanno provato in tanti, soprattutto nella stagione del berlusconismo declinate, a dare una lettura assolutoria delle macerie contemporanee al libretto che Vilfredo Pareto scrisse nell’eremo di Célignymentre si accingeva a dare l’ultima versione alla sua opera più ponderosa e sistematica, il Trattato di sociologia generale. Ora di questo trattatello, pubblicato in Francia nel 1911 (Le mythe vertuïste et la littérature immorale) e tradotto con notevoli integrazioni in Italia nel 1914, è uscita una riedizione per iniziativa di Franco Debenedetti e dell’editore Liberilibri.

Con il termine «virtuismo» Pareto intende sviluppare una critica verso i censori moderni, che si ergono a paladini della morale pubblica a detrimento delle più elementari espressioni della libertà individuale. Per alcuni può essere definito «libertario», un intellettuale consapevole della trasformazione dei valori morali, e della loro opinabilità alla stregua della religione e della politica. Un antiproibizionista ante litteram, in particolare contro le limitazioni legislative alla letteratura cosiddetta immorale di cui fu portavoce il presidente del Consiglio dell’epoca Luigi Luzzatti.

Sulla scia di questo principio Pareto dà alle stampe il volume, che fu dettato dalla curiosità per i fatti contemporanei e dall’interesse che egli mostrava per la cronaca nera e giudiziaria. Anzi si può affermare che il libro nacque dall’attenzione che Pareto rivolse al romanzo Quelle signore (1904) e al processo che il suo autore Umberto Notari (1878-1950) subì per oltraggio al pudore nel 1906 e nel 1911. Le due sentenze si ritrovano nell’edizione del 1914 e sono riportate in quella del 1966, insieme alla Circolare Luzzatti sulle pubblicazioni pornografiche: «Qui riproduciamo la sentenza di uno di questi processi in cui si vedrà incriminata la riproduzione di ”due brani tolti una dalla Bibbia e uno dal Dialogo delle prostitute di Luciano”».

→  dicembre 6, 2011


di Alessandro De Nicola

Le privatizzazioni e le liberalizzazioni sono il nerbo delle riforme strutturali necessarie a rilanciare la nostra economia. Servirebbero a ridurre debito e sprechi e anche a frenare la corruzione. Ma il mito della proprietà pubblica è duro a morire

Consoliamoci, la manovra economica del governo non è la fiera di tasse esotiche che avrebbe potuto diventare. Tuttavia uno dei suoi capitoli più oscuri rimane quello delle privatizzazioni che, insieme alle liberalizzazioni, sono il nerbo di quelle riforme strutturali che potrebbero rilanciare l’economia del nostro paese.

Il mito della proprietà pubblica è duro a morire perché non nasce con il marxismo ma è profondamente radicato nella storia e nella cultura del Bel Paese. Dall’ager publicus romano alla Cassa Depositi e Prestiti, sono cambiate le motivazioni per le quali lo Stato possiede e si cimenta nella gestione di attività economiche, ma la sua ingombrante presenza è sempre lì.

Vediamo di riassumere brevemente perché privatizzare è invece una scelta politica virtuosa per l’Italia.

Prima di tutto bisogna ridurre lo stock del debito pubblico. Sappiamo che ha raggiunto il 120 per cento del Pil e che la spesa pubblica è il 50,8 per cento del Pil: in queste condizioni la vendita di aziende e immobili ai fini sia della riduzione del debito che degli interessi passivi pagati dallo Stato italiano ai sottoscrittori dei suoi titoli è indilazionabile. A seconda delle stime, un programma massiccio di dismissioni sia di imprese che di immobili pubblici (statali e degli enti locali) potrebbe portare a ricavi tra i 250 e i 300 miliardi di euro, sufficienti per riportare in breve tempo il debito pubblico sotto il 100 per cento del Pil senza bisogno di patrimoniali. Inoltre, si risparmierebbero almeno altri 10 miliardi di interessi, l’equivalente di una manovra (basti pensare che l’aggiustamento dei conti compiuto con il decreto di ferragosto, portava ad aggiustamenti per il 2012 di appena 5 miliardi). E’ vero che si verrebbero a perdere i dividendi delle imprese che fanno profitto, ma nel corso degli anni clamorose son state pure le perdite (Tirrenia ed Alitalia insegnano).

L’obiezione che in questo momento le società quotate non sono valorizzate adeguatamente non regge. Prima di tutto anche i titoli di Stato pagano interessi elevati (oltre 300 punti di spread con il bund tedesco) e poi solo il mago Merlino sarebbe in grado di indovinare il momento giusto.

Altra obiezione, più sensata, è che le privatizzazioni dovrebbero andare di pari passo con le liberalizzazioni. Anche in questo caso è facile obbiettare che finché lo Stato è proprietario le liberalizzazioni sono più difficili e Poste e Ferrovie ne sono un esempio attuale. Peraltro, gran parte di ciò che si può vendere compete già sul mercato con i privati.

Il secondo punto parte proprio da questa constatazione: lo Stato fa concorrenza sleale ai privati. Le imprese pubbliche hanno un accesso facilitato al credito (almeno fino ad oggi la garanzia del governo vale qualcosa) ed in più sono vicine sia al legislatore che al regolatore. Controllati e controllori rispondono in ultima istanza allo stesso potere politico che li ha nominati.

Tale contiguità ci porta alla terza ragione per la quale il Leviatano dovrebbe spogliarsi dei suoi beni. Le scelte manageriali delle sue aziende, infatti, vengono più di qualche volta influenzate da motivi di convenienza elettorale, non di efficienza. Si tratti di assunzioni di raccomandati, di privilegi ai sindacati interni, di investimenti in collegi elettorali sensibili, di conclusione di affari con società amiche, sempre di sprechi stiamo parlando e le cronache dei giornali traboccano di esempi di “prossimità” tra faccendieri e imprese pubbliche.

Il che ci conduce al quarto punto: dove ci sono sprechi, intrusioni politiche, opacità, lì prospera la corruzione, piaga che non casualmente affligge così tanto il nostro Paese dove quasi tutto è intermediato dalla politica. Non è vero, come si illudono alcuni, che la proprietà di un’azienda o di un bene sia indifferente, purché funzioni. La politica non maneggia soldi suoi e ne ha meno cura, difficilmente viene sanzionata elettoralmente per cattiva gestione e, controllando il potere economico, può minacciare le fondamenta della democrazia. D’altronde, come ammoniva Ludwig von Mises, a cosa servirebbe la libertà di stampa se lo Stato possedesse tutte le tipografie?

→  novembre 29, 2011


di Giampiero Berti

È vero che la storia riserva sempre sorprese, ma è anche vero che si ripete in continuazione. Ne abbiamo un’ennesima conferma con il libro fresco di stampa di Vilfredo Pareto, Il mito virtuista e la letteratura immorale (Liberilibri, 2011, pag. 210, introduzione di Franco Debenedetti) la cui prima edizione apparve in Francia nel 1911 e in Italia nel 1914. In quest’opera Pareto denunciava la stupidità e l’ipocrisia del suo tempo espressi dai virtuisti (virtuista è un neologismo coniato dallo stesso Pareto), cioè da coloro che, invece di occuparsi dei problemi veri che affliggevano il Paese – miseria, corruzione, analfabetismo, dominio della mafia e della camorra in intere regioni – si interessavano a reprimere la letteratura immorale, rappresentata soprattutto da libri che davano spazio a vicende amorose e sessuali.

Ispirata da un ethos profondamente liberale, l’opera è un’incursione a tutto campo nella letteratura greca, latina, moderna, con particolare riguardo agli scrittori illuministi, a partire da Voltaire. Pareto dimostra non soltanto l’impossibilità logica di definire la letteratura immorale, l’impotenza pratica di ogni censura, ma anche l’assoluta incapacità del ogni moralismo di trasformare la società. Pone in primo piano la questione decisiva del potere politico, che trova nell’enfasi statalistica la sua attuazione. Il moralismo di Stato propugnato dai virtuisti tende di fatto a distruggere una delle più grandi conquiste della civiltà liberale: la divisione tra la sfera privata e quella pubblica.

Pervaso da un irriducibile individualismo, dall’insofferenza per l’invadenza soffocante di ogni potere, il grande sociologo italiano, beffeggia e seppellisce i moralisti sotto una valanga di sarcasmi, dimostrandone tutte le contraddizioni. In piena sintonia con il realismo e il disincanto di Machiavelli, rivendica la vera etica, che deve consistere nell’essere rigorosi e inflessibili su ciò che riguarda la sfera pubblica, tolleranti su ciò che riguarda quella privata. È stata persa, a giudizio di Pareto, una delle più grandi conquiste del Risorgimento: la separazione cavouriana fra Chiesa e Stato, fra etica dello Stato e morale privata.

È sottesa qui, infatti, la questione centrale già posta già da Benjamin Constant: la distinzione fra «la libertà degli antichi» e «la libertà dei moderni». La libertà degli antichi è la libertà conferita ai cittadini politicamente attivi, i quali sono liberi in quanto esercitano dei diritti politici, il cui espletamento implica il coinvolgimento nella vita della polis. La libertà dei moderni scaturisce invece dalla fonte imprescrittibile dei diritti naturali, che dichiarano che nessun potere, nessun sovrano, nessuna collettività può dare o può togliere tale libertà originaria. Mentre la libertà dei moderni, preesistendo al potere, impone a quest’ultimo il dovere di preservarla, la libertà degli antichi comanda che essa si realizzi attraverso l’attiva partecipazione alla vita pubblica. La prima è la libertà dallo Stato, la seconda è la libertà nello Stato. Non è un caso che la libertà dei moderni, ovvero la libertà liberale, sia stata attaccata ferocemente da tutte le ideologie totalitarie.

Ne Il mito virtuista e la letteratura immorale sono già presenti alcuni schemi teorici che innerveranno qualche anno dopo l’opera più importante di Pareto, il Trattato di sociologia generale, dove, fra l’altro, viene delineata la distinzione fra azioni logiche e azioni non logiche: le azioni logiche sono quelle che utilizzano mezzi appropriati al fine, le azioni non logiche sono quelle che non connettono in modo logico i mezzi con il fine. Gli uomini si lasciano convincere soprattutto dai sentimenti (definiti da Pareto residui), mentre a dare aspetto logico alle azioni non logiche vi sono le forme pseudo logiche delle argomentazioni definite con il termine derivazioni. Il moralismo d’accatto dei virtuisti non è altro che la proiezione dei residui, che si manifestano sotto la forma delle derivazioni, le quali, pertanto, sono espressioni ipocrite e impotenti.

Il mito virtuista dimostra che la storia si ripete, se si pensa alle polemiche relative alla vita privata di Silvio Berlusconi. Scriveva Pareto: «I tempi eroici del socialismo sono passati: i ribelli di ieri sono i soddisfatti di oggi. Non si tratta più di distruggere il socialismo, di rovesciare la società, di pervenire ad una nuova costituzione sociale interamente diversa, eccoli diventati difensori della morale e del pudore». Scrive Franco Debenedetti nell’introduzione: «L’antiberlusconismo militante è il nuovo mito virtuista, i girondini in corteo sono i nuovi “monaci domenicani”». Al tempo di Pareto il virtuismo «chiedeva al potere di dare la caccia all’immorale e impedire che si mostrasse in pubblico, il virtuismo di oggi sbircia e origlia nel corridoio del palazzo».

→  novembre 27, 2011


di Roger Abravanel

La vicenda Finmeccanica ha dato una nuova prospettiva al dibattito sulle privatizzazioni. C’ è chi dice che la privatizzazione di Finmeccanica ridurrebbe le occasioni per ulteriori «fondi neri» e chi (come questo quotidiano) sostiene che privatizzarla non servirebbe a molto perché il privato utilizzerebbe la leva della corruzione della committenza pubblica esattamente come fa una azienda a controllo statale. La realtà è che la privatizzazione incide poco su questo tipo di problemi perché la Finmeccanica opera in un settore (difesa, sicurezza) dove la trasparenza è scarsa, le pratiche commerciali a volte ai limiti della legalità e l’ interferenza della politica significativa per definizione. Il cancro della corruzione in questi settori non si combatte con le privatizzazioni, ma con una committenza pubblica piu trasparente e un’ azione giudiziaria internazionale più incisiva e coordinata. La vera ragione per ridurre ulteriormente il ruolo dello Stato come azionista di Finmeccanica (come committente è impossibile) è un’ altra: creare valore proprio attraverso quello «spezzatino» tanto osteggiato dal fronte anti-privatizzazione. In Finmeccanica esistono business globali molto competitivi e in posizione di leadership: gli elicotteri (Agusta-Westland), l’ avionica (Selex-Galileo) legati alla committenza militare in Italia e nel mondo, e altri come l’ Ansaldo Energia e l’ Ansaldo Sistemi, più connessi al mercato privato mondiale dell’ energia e dell’ industria. Questi business competitivi (veri e propri «gioielli») convivono con altri che sopravvivono grazie alla committenza pubblica italiana – la Alenia e la «sicurezza» (la «famigerata» Selex-sistemi integrati) – e con altri che da sempre restano nell’ orbita pubblica per ragioni di salvaguardia dell’ occupazione (l’ Ansaldo Breda). Ora bisogna decidere cosa cedere e cosa tenere in orbita pubblica (e come farlo), con tre obiettivi: proteggere e rendere ulteriormente competitivi i «gioielli» a fronte della crisi finanziaria globale che porta a forti contrazioni degli investimenti pubblici in tutto il mondo in ogni settore (in particolare in quello della Difesa), generare un po’ di cassa e risolvere una volta per tutte il problema delle attività che sopravvivono solo grazie alla committenza dello Stato italiano o alla sua protezione. Per questo una privatizzazione tout court non è possibile senza una chiara strategia che dev’ essere impostata dal nuovo governo e affidata come mandato al cda e al presidente (attuale o futuro). Il fronte anti-privatizzazioni porta però avanti da mesi un’ altra argomentazione contro tutte le privatizzazioni: la cosiddetta «svendita dei gioielli di famiglia» ovvero alcuni business di Finmeccanica e poi l’ Enel e l’ Eni. Ma oggi lo Stato italiano non è in una situazione molto diversa da quella di una famiglia che deve svendere i propri gioielli per evitare il fallimento. Peraltro non è certo che si tratti di una «svendita». Gli anti-privatizzazioni sostengono che «lo Stato non può rinunciare ai 2 miliardi di dividendi dell’ Enel e dell’ Eni». Ma se questi dividendi in passato hanno reso il 7-8%, un vero affare quando il debito costava il 3%, oggi con un costo marginale del debito del 6-7% a causa dell’ esplosione degli spread la situazione è cambiata. E l’ incasso di almeno 30 miliardi (la vendita dei «gioielli») vale una manovra di uno Stato che tenta disperatamente di non fallire. In altre parole lo Stato italiano deve vendere perché il costo di tenersi i «gioielli» è oggi pari alla loro cessione; e comunque non può più permetterseli. Peraltro, non solo Finmeccanica beneficerebbe di una privatizzazione divenendo più competitiva e creando valore per gli azionisti e i lavoratori. Anche per Enel e Eni una minor presenza dello Stato sarebbe salutare. Dai tempi della loro parziale privatizzazione, queste aziende hanno fatto passi da gigante in termini di competitività, qualità del top management e della governance (Consiglio di amministrazione) che, per molti aspetti, può anche essere considerata oggi migliore di quella di molte aziende italiane quotate dove l’ azionista di riferimento sono le famiglie italiane. Ma la crisi mondiale in corso e le nuove sfide globali richiedono che i vertici perseguano sforzi ancora maggiori nel taglio dei costi e nelle cessioni/alleanze internazionali, difficilmente compatibili con una forte presenza dello Stato. Queste nuove strategie devono essere approvate da cda informati ed attivi che appoggiano vertici pronti a impegni coraggiosi. In Italia, spesso i vertici costruiscono da soli le strategie e semmai le concordano con l’ azionista pubblico che sceglie anche l’ amministratore delegato con minimo coinvolgimento del consiglio e del suo presidente (che alla fine conta abbastanza poco). Ciò è consentito dalle loro pratiche di governance che ormai non sono più in linea con i tempi: i cda di queste aziende scadono tutti assieme e non hanno mandati in scadenza dei singoli consiglieri come nelle migliori pratiche mondiali che invece consentono al cda e al suo presidente di nominare l’ amministratore delegato. In sintesi quindi, l’ invito per il governo Monti è di accelerare le privatizzazioni delle aziende «ex-pubbliche», più facili da realizzare che la vendita del patrimonio immobiliare e delle caserme e con più potenziale di contribuire alla ulteriore crescita di imprese globali che creano posti di lavoro e valore per i loro azionisti.

→  novembre 24, 2011


di Milena Gabanelli

Equità, liberalizzazioni e lotta all’evasione fiscale dovrebbero essere i farmaci da prescrivere al malato Italia per uscire dalla crisi. La proposta di tassare l’uso eccessivo del contante si prefigge di ridurre il più possibile l’evasione fiscale rendendola non conveniente mediante una tassa sul prelievo e sul deposito operata dalle banche per conto dello Stato. Ne sarebbero colpiti solo coloro che, in presenza di metodi di pagamento alternativi tracciabili (quali gli assegni, le carte di credito, il bancomat e i bonifici) si ostinerebbero a fare un uso eccessivo del contante creando un costo alla collettività.

Il costo a cui mi riferisco è determinato dai seguenti fattori:
- dall’incapacità dello Stato di farsi pagare le tasse da tutti, che limita la competizione fra operatori a favore di chi evade;
- dal freno che gli studi di settore hanno sulla crescita economica, penalizzando le attività in fase di start-up, oppure in un momento di difficoltà, favorendo invece quelle che hanno fatturati superiori a quanto previsto dagli studi di settore. Un maggior utilizzo della moneta elettronica potrebbe allentare questo freno o addirittura farlo scomparire;
- dal fatto che l’evasione fiscale, resa possibile solo dai pagamenti in contanti, crea una seria diseguaglianza fra i cittadini che percepiscono un reddito da lavoro dipendente e coloro che invece hanno una partita Iva e possono/scelgono di evadere parte dello loro tasse.

Soprattutto l’evasione fiscale nasconde circa il 20% del nostro Prodotto interno lordo che, in quanto sommerso, non va a far parte del rapporto debito/Pil e che ad oggi ammonta al 120%. Con un rapporto così alto, gli investitori sono disposti ad acquistare i nostri titoli di Stato solo a un tasso di interesse pari a più del triplo di quanto pagano gli inglesi o i tedeschi. Fare emergere questo 20% di Pil sommerso ci aiuterebbe a risanare i conti pubblici e renderebbe quindi possibile l’attuazione della riforma fiscale.

In conclusione: nessuna soglia minima alla tracciabilità, poiché anche portandola a 100 euro, la porta rimarrebbe socchiusa ai più furbi, e tassa sull’uso del contante. Questo renderebbe preferibile l’emissione e la richiesta di fattura. Si deve prevedere ovviamente la possibilità di scaricarne una piccola parte dalla dichiarazione dei redditi, come si deve prevedere l’abbassamento dei costi di transazione bancaria. A parte i tangentisti, gli spacciatori, evasori e i criminali, la gente comune non necessita di più di una cinquantina di euro alla settimana, la cui imposta potrebbe anche essere detratta. Insomma i nostri tecnici al governo potrebbero sicuramente disegnare un sistema che oltre ad essere a mio parere più equo e liberista, reintrodurrebbe anche la cultura della legalità.