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→  novembre 23, 2013


di Alessandro De Angelis

“Io voglio tornare all’opposizione sui temi dell’economia e delle tasse, quelli che stanno a cuore agli italiani. Non sulla decadenza, come vorrebbe il Pd”. È la legge di stabilità il terreno scelto da Berlusconi per il ritorno all’opposizione. È contro “il governo delle tasse” che vuole alzare il volume di fuoco più che contro il “governo delle manette”. E non è un caso che sul tema abbia informato i vertici delle sue aziende. Negli ultimi giorni ha sentito Fedele Confalonieri e Ennio Doris, i veri capi del partito filogovernativo. Stavolta i due hanno avuto l’impressione che il Cavaliere sia davvero determinato e che la scelta sia definitiva. Soprattutto perché, a questo punto, appare quasi obbligata.

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→  novembre 14, 2013


di Antonio Pilati

Il saggio di Giuseppe Guarino usa due piani di analisi diversi che, combinandosi, si rafforzano a vicenda. C’è anzitutto un esame sistemico formale che ricostruisce nei passaggi essenziali la deviazione impressa al processo di integrazione comunitario, quale sancito nei Trattati, da un regolamento, in apparenza minore e tecnico, approvato nel luglio 1997 mentre si svolgeva la fase di scrutinio dei requisiti di ciascuno degli stati candidati all’adozione dell’euro (l’esame si conclude nel marzo 1998 e l’euro debutta in 11 stati il 1° gennaio 1999). C’è poi un’analisi strategica che mette a tema, come radice e modulo costante dei disastri che da tempo inseguono l’Europa, l’idea di basare il processo di integrazione sul rigetto della politica, mettendo ai margini il rapporto fra le decisioni di lungo periodo prese dai vertici comunitari e la volontà dei cittadini.

Il regolamento 1466/97 è il grande protagonista del racconto di Guarino: rappresenta il punto di svolta, lo strumento con cui agli stati è imposto di raggiungere un risultato numerico (la parità di bilancio a medio termine) monitorato ogni anno da organismi comunitari: di fatto ciò vincola la politica economica degli stati, in particolare la facoltà di usare – entro certi limiti – la leva del debito, e quindi toglie loro il potere, sancito nel Trattato di Maastricht, di perseguire con modalità decise in autonomia lo sviluppo dell’economia. Un piccolo gioco di prestigio procedurale: gli stati sono concentrati sui criteri dello scrutinio per l’ammissione all’euro, la congiuntura sta rallentando e mette in pericolo il calendario per l’adozione della moneta unica, il regolamento è presentato come deterrente per azioni che minacciano la stabilità, tutto quanto facilita l’approvazione disattenta di una norma che invece per Guarino è un autentico “golpe” degli uffici di Bruxelles.

Il giudizio è molto forte, fa sensazione: non lo si comprende se non lo si mette in relazione con il secondo livello dell’analisi – quello politico. Guarino insiste molto sul fatto che, fin dall’inizio del processo che porta alla moneta unica, ai vertici politici sono attribuiti poteri di raggio molto ridotto. “Alla gestione della moneta è sempre preposta una autorità politica facente parte dell’organismo di vertice. Nei regimi di mercato l’autorità politica è coadiuvata dal responsabile della Banca centrale. L’euro costituisce il primo esempio di una moneta in cui, secondo la disciplina del Trattato, vertici politici, pur partecipando alla gestione della moneta, non ne avrebbero avuto la responsabilità esclusiva”. E’ il prezzo pagato alla volontà della Germania appena unificata di mantenere la stabilità come un bene essenziale, sottratto al gioco mutevole delle influenze politiche. I vincoli – riferiti al pil – del deficit annuo al 3 per cento e del debito totale al 60 per cento sono garanzie offerte al primato della stabilità: la volontà tedesca si sente tutelata da automatismi per quanto si può infrangibili che lasciano ai margini – quasi come un fattore di disturbo – la decisione politica. In ciò si intravvede una convergenza rilevante con la dinamica di espansione dello spazio economico comune affidata in gran parte a decisioni delle Corti o di organismi di gestione come la Commissione e quindi lasciata fuori dal circuito di cognizione e di scelta delle opinioni pubbliche.

In sintesi, il regolamento 1466/97 intensifica e drammatizza una tendenza di lungo periodo: elimina infatti “l’unico spazio di attività politica soggetto alla influenza dei cittadini dei singoli stati membri, lo spazio delle politiche economiche, a mezzo delle quali ciascun paese membro avrebbe potuto e dovuto concorrere al perseguimento dello sviluppo, nell’interesse proprio e dell’Unione. La competenza politica degli stati membri, oggetto di un diritto potestativo, non è stata sostituita da altre di eguale carattere politico”. La sovranità si disperde: la riduzione della politica sfocia in una perdita dei poteri disponibili agli stati europei. Gli algoritmi di bilancio, che vogliono togliere campo discrezionale ai decisori, diventano guide cogenti dell’Unione: “Il sistema risulta autoprotetto”, “l’organismo si è robotizzato”. L’idea di contenere la politica per salvaguardare la dinamica comunitaria dalla contingenza non prevedibile dell’opinione pubblica porta dritto a una restrizione della democrazia: “Soppresso ogni spazio di decisione politica, è scomparso anche il corrispondente spazio di espansione del principio democratico”. E’ la base da cui Guarino deriva la definizione di “golpe”.

In realtà la riduzione ai margini della politica sembra, più che un golpe, un caso di hybris megalomane: le élite del continente hanno creduto che la razionalità di un disegno illuminato potesse sterilizzare la varietà storica, le differenze di mentalità e di strutture materiali, la pluralità di interessi condensati dal tempo nelle comunità nazionali. Ma il campo eterogeneo delle economie assemblate con l’euro reagisce in modo vario agli algoritmi degli ingegneri monetari, non si lascia spianare dal sistema robotizzato. La crisi del 2007-’8 è come un accesso di realtà: la diversità delle economie trascina, nei mercati finanziari, valutazioni divergenti circa le chance dei singoli stati di ripagare i propri debiti; le strategie di riforma dei governi quasi mai riescono ad attingere il modello di efficienza mercantilista imposto dall’ideologia della stabilità (in Italia, come in molti altri paesi, fanno attrito gli interessi dei gruppi che traggono profitti dalla spesa pubblica e dalle protezioni sociali); gli accessi alle risorse finanziarie e al credito si divaricano nei vari stati portando vantaggi ai forti e danni ai deboli. Gli algoritmi creati per far convergere le economie generano invece crescente divergenza, mentre resta disabilitata ogni visione strategica, colpita dagli interdetti che alla politica commina l’ideologia ufficiale.

La Germania, titolare del modello cui gli altri stati sono chiamati a conformarsi e abile nell’organizzare la disciplina salariale e gestionale che esso richiede (grazie anche allo sforzo di coesione fatto per integrare la metà ex comunista), rafforza la supremazia continentale sfruttando al meglio il suo vantaggio di posizione e bloccando i deboli tentativi di aggiornare l’impianto di base dell’euro. Il risultato sono crescenti difformità strategiche fra gli stati che, sotto traccia, aumentano l’opportunismo strategico e l’inclinazione conflittuale.

Guarino alla fine della sua analisi propone di smontare l’euro e propende per un’aggregazione fra stati mediterranei, Francia inclusa, capace di valorizzare la lunga tradizione europea delle autonomie locali. Le élite illuminate hanno fatto un enorme investimento sulla moneta unica e, sfidando l’impopolarità che colpisce i governi nazionali, blindano con correttivi marginali la propria scelta. Ma forse ciò non basta. Ai contrasti fra stati e alle sofferenze dei popoli si aggiungono ora l’ostilità degli Stati Uniti, che perseguono una cura della crisi antitetica a quella euro-stabile, e la diffidenza della Russia. Le tensioni che si accumulano sull’attuale assetto dell’Unione appaiono sempre più forti.
Alla fine del saggio Guarino auspica un grande sforzo di creatività istituzionale e richiama “la ‘fantasia al potere’”. Il momento è veramente difficile.

→  novembre 11, 2013


di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

Alla fine degli Anni 80, la parte di attività economica gestita dallo Stato era in Italia superiore a quella di qualsiasi altro Paese europeo, eccezion fatta per la disastrosa parentesi dei governi Attlee e Bevan in Gran Bretagna.
Quel modello entrò in crisi all’inizio degli Anni 80, crisi politica e morale oltre che economica. Fu Giuliano Amato, prima da ministro del Tesoro, poi da presidente del Consiglio, ad avviare il processo per sottrarre le banche al controllo pubblico, creando i presupposti per la privatizzazione di Efim, Eni e IRI. Fu un cambiamento tanto radicale da paragonarlo (il paragone è dello stesso Amato) al passaggio tra regime fascista e Repubblica.
Perché, nonostante la ovvia differenza fra la dittatura mussoliniana e la Repubblica democratica, entrambe non conoscevano il senso del limite dell’intervento pubblico.
E sbagliato dire che non ci fosse una strategia e, ce lo consenta Raffaele Bonanni, non è da par suo sostenerlo sulla base dell’usurato folklore della finanza (giudaico-massonica?) a bordo del panfilo della regina d’Albione.
Prima ancora dell’esigenza di ridurre il debito (che comunque per effetto di quelle privatizzazioni scese in un quinquennio di 12 punti in rapporto al Pil, un risultato mai più ripetuto), c’era l’obbiettivo di restituire al mercato la parte di economia che per mezzo secolo era stata sottratta all’iniziativa privata.
Non solo questo aveva prodotto risultati che sarebbe impietoso ricordare (si pensi al fallimento dell’Efim che lasciò un buco stimato dal liquidatore, il professor Predici, in circa 7 miliardi di euro), ma soprattutto aveva impedito il formarsi di un vero capitalismo privato.
Per avviare le privatizzazioni venne approntato un nuovo quadro legislativo: il Testo Unico sulla Finanza, compresa la legislazione sull’Opa per rendere contendibili le aziende; la legge 474 per dare un quadro legislativo alle modalità di privatizzazione e alla destinazione del ricavato; le autorità di regolamentazione come condizione per privatizzare i servizi pubblici essenziali (se alcune non hanno funzionato è anche per il modo in cui la politica spesso ne ha gestito le nomine, non certo per colpa dei privati regolati).
Ma dopo averli tenuti nella bambagia per sessant’anni (con alcune importanti eccezioni), non si poteva pensare che spuntassero all’improvviso imprenditori italiani robusti.
A quello che era stato definito «capitalismo senza capitali» (e, potremmo aggiungere, con pochi imprenditori) si chiese di trovare i capitali, finanziari e umani, per acquisire oltre all’Iri, all’epoca la più grande azienda d’Europa, l’Enfi e altre più problematiche attività. Il tutto vincendo le resistenze interne dei manager delle aziende di Stato. Tutto si può fare meglio, ma essere riusciti a farlo comunque e in poco tempo, è stato un grande successo di cui andare orgogliosi. E, ci consenta di osservare, sin dall’inizio le critiche nascondevano la difesa di interessi particolari che le privatizzazioni avrebbero smantellato (ricorda la Stet?).
La riduzione delle spese è all’ordine del giorno. Ma, come abbiamo ricordato nell’articolo del 5 novembre, per tagliare le spese ci sono due modi: uno è ridurre quanto si spende per fare le cose, l’altro è ridurre le cose che si fanno. Il primo modo è sempre a rischio, richiede uno sforzo continuo nel tempo; il secondo è definitivo. Finché un’attività è dello Stato, lo Stato deve gestirla, e ciò costa soldi e comporta responsabilità. Dopo che ha venduto, lo Stato non gestisce più: la dimensione e i costi dell’amministrazione si riducono in modo permanente. Ciò che succede dopo, giusto o sbagliato che sia, lo è per gli azionisti, allo Stato non costa.
Vendere un’impresa pubblica non significa ridurre la ricchezza del Paese. Le aziende statali non sono, se non in senso strettamente contabile, «ricchezza del Paese». Al contrario, spesso la inibiscono impedendo od ostacolando la nascita di aziende che provino a far e le stesse cose senza la copertura del «papà Stato». La ricchezza di un Paese sta nella sua produttività e nella sua capacità di innovare, che non nascono certo fra imprenditori protetti dallo Stato. Il prestigio di un Paese non sono le aziende statali: è il fatto che la gente voglia venirci per lavorare e provare ad avere successo. Magari investendo in Italia, acquistando un’azienda. Ma perché dovrebbe farlo se sa che verrà pregiudizialmente accusato di essere complice di una «svendita»?

→  novembre 11, 2013


di Raffaele Bonanni

Caro direttore,
il dibattito innescato dall’editoriale di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi sulle privatizzazioni ci ha riportato indietro nel tempo e precisamente ai primi di giugno del 1992 quando a bordo del panfilo della famiglia reale inglese «Britannia», in una riunione di esponenti della finanza internazionale e del mondo imprenditoriale italiano, si decise di vendere gran parte delle aziende pubbliche (Iri, ma e Imi) per fare cassa, senza alcuna strategia industriale e senza alcun disegno di democrazia economica e di partecipazione dei lavoratori.
Fu, davvero, una occasione perduta perché quelle aziende si sono disperse e hanno una avuto una forte regressione sia sul mercato, sia sul piano occupazionale.
Hanno ragione Alesina e Giavazzi quando sostengono che bisogna abbattere il debito pubblico, riducendo drasticamente la pressione fiscale, giunta ormai a livelli insostenibili per i lavoratori, i pensionati e le imprese.
Ma non è vendendo le poche aziende d’eccellenza a capitale pubblico che si risanano i conti dello stato. Parliamo di grandi gruppi industriali che operano sul piano internazionale, che fanno utili e distribuiscono dividendi persino superiori al loro valore di mercato.
Vogliamo distruggere questo patrimonio umano e professionale come è accaduto per le telecomunicazioni o per gran parte del settore agroalimentare italiano? Non è questa la strada giusta. Lo diciamo fui da ora con fermezza al ministro dell’Economia, Saccomanni: la Cisl si opporrà alla prospettiva di ulteriori privatizzazioni al buio, senza una discussione seria con il sindacato sulle ricadute occupazionali, sulle garanzie degli investimenti e sulla partecipazione dei lavoratori nei luoghi alti della decisione imprenditoriale.
La ricchezza economica di un Paese va salvaguardata non dilapidata. Questo è il compito di chi governa la cosa pubblica. Per abbassare le tasse, l’unica strada possibile è quella di tagliare la spesa pubblica improduttiva. Si cominci con il dismettere subito il patrimonio immobiliare e demaniale che ammonta a circa 400 miliardi di euro. Chiudiamo tutti quegli enti inutili, le troppe società in house piene di debiti delle Regioni e quelle aziende municipalizzate dove si annidano sprechi, ruberie ed inefficienze. Mettiamo sul mercato le micro aziende statali, regionali o comunali mal gestite, lottizzate dai partiti e che non fanno utili. Il governo faccia subito un decreto, imponendo i costi standard a tutte le amministrazioni pubbliche, a tutte le Regioni, agli enti locali, alla sanità. Riduciamo le consulenze e il numero esorbitante dei dirigenti pubblici spesso strapagati, legati alla politica e senza alcun controllo di merito. Anche noi siamo contrari a ulteriori patrimoniali che rischiano di ricadere solo sulle spalle della povera gente, come è accaduto con le eccessive tasse sulle case. Ma un Paese civile non può consentirsi di tassare la speculazione finanziaria al 20 per cento, meno del denaro «sudato», come avviene in tutta Europa. O di proteggere il gioco d’azzardo online e i videogiochi (che hanno un volume d’affari di 5o miliardi di euro) con una tassazione scandalosa dallo 0,6 al 3% del fatturato. Cerchiamo di favorire gli investimenti esteri in Italia, invece di pensare di vendere grandi aziende come Eni, Enel, Finmeccanica o Poste che producono reddito, ricerca e innovazione. E se il governo ha davvero gli «attributi», come sostiene il presidente Letta, cominci da queste cose e non dalla vecchia ed equivoca ricetta di svendere i «gioielli di famiglia», ciò che fa prestigio, ricchezza e benessere per il nostro Paese.

→  ottobre 28, 2013


Intervista di Federica Meta a Tommaso Valletti

Secondo l’economista “agitarsi” attorno al tema della sicurezza e dell’occupazione “è tipico di un mondo che vuol conservare lo status quo e vuole trovare pretesti da dare in pasto al grande pubblico”. Le operazioni fatte in difesa dell’italianità “servono solo a trasferire risorse”

L’italianità della rete? Un grimaldello. Lo scorporo? Avrebbe un vantaggio per il Paese, a patto che avvenga in un quadro di regole certe. Tommaso Valletti, ordinario di Economia all’Imperial College London e all’università Tor Vergata di Roma, analizza gli scenari economici e industriali legati all’operazione Telefonica.

Come giudica l’operazione Telefonica su Telco?
Per analizzarla vanno considerate tre questioni diverse tra loro: i debiti di Telco, il prezzo pagato da Telefonica e le conseguenze per Telecom Italia.

Andiamo nel dettaglio.
I debiti ci sono da oltre dieci anni, in parte per via dei giochi di potere tipici del nostro capitalismo, le famose “operazioni di sistema”. Generali, Mediobanca e Intesa Sanpaolo che nel passato si erano prestate volentieri a questo gioco, ora non sono più disposte ad investire. Per cui c’erano poche alternative alla salita degli spagnoli. Sul prezzo pagato, Telefonica ha fatto un buon affare dato che ha acquisito il controllo di Telco con pochi spiccioli. Ma questo lo consente la legge italiana sull’Opa che non tutela affatto gli azionisti di minoranza.

Le conseguenze per Telecom quali saranno a suo avviso?
La compagnia dovrà probabilmente dismettere, per motivi antitrust, le attività in Sud America. Ovviamente queste operazioni non avranno ricadute dirette sull’Italia, trattandosi di mercato separati. Ma comunque spiegano l’interesse di Telefonica per Telecom. Analizzando il mercato italiano, invece, non mi aspetto grandi cambiamenti: Telefonica, dal punto di vista industriale, è una società simile a Telecom Italia, più grande forse, ma con un volume di indebitamento simile. Le sinergie tra mercati sono poche, visto che le due società operano su mercati con connotazione geografica molto spinta. Semmai, se il mercato riconoscerà a Telefonica un minor rischio rispetto a Telecom Italia, il costo del capitale potrebbe diminuire e gli investimenti crescere un pochino.

L’operazione ha riacceso il dibattito sull’italianità della rete. Secondo lei ha un senso difenderla?
Assolutamente no. Gli spauracchi che si agitano sulla sicurezza e sull’occupazione sono tipici di un mondo che vuol conservare lo status quo e trova pretesti da dare in pasto al grande pubblico. È talmente ovvio che tutte le operazioni per difendere l’italianità che abbiamo fatto sino ad oggi – Alitalia in testa – non hanno comportato altro che il trasferimento di risorse dalla tasche dei cittadini a quelle di qualche gruppo privato.

Ma perché ci ricaschiamo ogni volta, allora?
Ci deve essere un errore di comunicazione o di informazione. Nel caso specifico non cambia nulla sulla sicurezza delle rete, checché ne dica il Copasir. Voglio dire che se la rete era già poco sicura, lo rimane. E poi mi pare che la memoria sia corta: problemi di sicurezza ce ne sono stati durante la gestione dell’italianissimo Marco Tronchetti Provera.

Altro tema sotto i riflettori è lo scorporo della rete. Ha ancora un senso strategico e/o economico?
Lo scorporo non ha un senso strategico per TI perché è l’asset non replicabile più importante che possiede, anche se ovviamente tutto dipende dal “prezzo”: se venisse “strapagata” la rete, ovvio che gli azionisti ci guadagnerebbero. Potrebbe avere un senso economico per il Paese: senza separazione vi è il rischio che l’operatore integrato verticalmente metta in atto comportamenti anti-competitivi nei confronti dei rivali a valle; cosa puntualmente sanzionata dall’Antitrust. Con la separazione invece questi comportamenti verrebbero meno. Detto questo, i problemi che vedo legati allo scorporo superano i vantaggi.

In che senso?
Bisogna chiedersi chi stabilisce il prezzo? A chi spetta il controllo della rete separata? Sotto quali regole di accesso? Domande regolarmente eluse nel dibattito attuale, perché tacciate di mera “tecnicalità”, ma talmente importanti da non poter avviare alcuna discussione altrimenti. Uno scorporo così vago non lo considero altro che un modo di ripianare debiti privati con risorse pubbliche – nel caso il pubblico si presti a partecipare in qualche modo, lasciando eventualmente il controllo effettivo della rete nelle mani di TI – senza risolvere alcun collo di bottiglia. Le operazioni di scorporo sono delicatissime e hanno bisogno di tempo, esperienza e risorse di altissima qualità. Non mi sembra ci siano i presupposti nel nostro paese.

I sindacati chiedono di non fare lo spin off, ma di puntare ad un aumento di capitale, anche riservato a Cdp. La proposta può avere un senso?
Non credo che la Cdp abbia le competenze per gestire una rete nazionale. E mi si perdoni il leit motiv: Cdp è esattamente il canale che serve alla classe politica affamata di spazi da occupare e nomine da controllare.

È partito l’allarme occupazione. C’è il rischio di perdere posti di lavoro?
Dipende dagli investimenti: se questi salgono, anche l’occupazione ne potrà risentire positivamente. Non mi aspetto molto da Telefonica, ma sono leggermente ottimista. Non posso dimenticare che gli investimenti di Telecom negli ultimi anni son stati sotto la media europea, quindi spero che si possa invertire questo andamento. Basta prendere statistiche “neutrali”, e non di parte: secondo la Digital Agenda Scoreboard 2013 della Commissione Europea, l’Italia è ultima come rapporto Capex/ricavi tra i 18 paesi analizzati (12,2%, la metà del Regno Unito ndr). Siamo anche ultimi come copertura della Nga e sempre nella parte molto bassa della classifica per la penetrazione della banda larga. Solo nel mobile ce la caviamo bene.

Governo e Parlamento stanno lavorando – rispettivamente – alla golden power e alla revisione della legge sull’Opa. La strategia scelta per stoppare Telefonica la convince?
La legge sull’Opa andrebbe cambiata, a prescindere dall’operazione Telefonica. Sulla golden power il mio giudizio è negativo. L’interferenza politica è una delle cause dei nostri mali. Ma mette tutti d’accordo: capitalisti indebitati che non rischiano di proprio, sindacati che proteggono le proprie posizioni, il grande pubblico male informato che cerca rassicurazioni. Arriva la politica che fa da deus ex machina e salva l’italianità Un copione già visto. La golden power, dunque, non fa altro che guadagnare del tempo per cercare di trovare anche questa volta la “soluzione di sistema”.

→  ottobre 23, 2013


di Salvatore Bragantini
Telecom Italia (TI), con margini ancora alti ma grandi debiti, non è cosa per azionisti deboli quali Banca Intesa, Generali e Mediobanca. Il controllo di TI tramite la finanziaria Telco gli scottava in mano e lo cedono alla spagnola Telefonica. Questa però non pensa a svilupparla investendo anche in Italia, ma a spolparla pro domo sua in America Latina.

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