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→  settembre 29, 2014


Dall’Ufficio Stampa di CDP al Sole24Ore

Nell’articolo “Perche’ la rete Telecom sta bene con Telecom” (Il Sole 24 ore di ieri) Franco Debenedetti svela finalmente il piano di Cassa depositi e prestiti: “Diventare un imprescindibile centro di potere e di condizionamento per la politica”. E’ per questo solo fine che CDP alzerebbe la voce per acquistare il controllo della rete di Telecom. Niente di piu’ falso. Il solo interesse di CDP, peraltro in tal senso da tempo sollecitata dal Governo e dal Parlamento e dagli stessi vertici delle maggiori TelCo, TI compresa, e’ di verificare se e’ utile un suo apporto di finanza o di equity all’ammodernamento della rete TLC del Paese. Vogliamo ricordare ai lettori che questo interesse nasce dalla mission di Cdp – sostenere la crescita del Paese – che deriva da una legge italiana, votata dal Parlamento. Non c’e’ crescita senza sviluppo delle infrastrutture, tangibili e intangibili. Non c’e’ crescita se su queste infrastrutture non si investe abbastanza e non c’e’ parita’ di accesso per tutti gli operatori. C’e’ un impegno che l’Italia ha preso in sede europea, di dare accesso alla banda ultralarga a >100 Mbs ad almeno metà della popolazione italiana entro il 2020.
Il Rapporto Caio ha accertato che gli attuali piani di investimento delle TelCo non consentono di centrare questo obiettivo. Se serve, CDP può dare una mano a accelerare gli investimenti necessari. Se Telecom o altri ce la fanno da soli, abbiamo detto e ripetuto che ne saremo ben lieti. In ogni caso.

Oggi la Commissione europea, quanto a penetrazione della banda larga, mette l’Italia al 28.mo posto su 28 Paesi dell’Unione. Forse non lo e’ per Debenedetti, ma per l’Italia e’ un problema.

È l’Europa che bisogna seguire, non la fantapolitica.
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Fa piacere sapere che la Cassa Depositi e Prestiti pensa, scrive e risponde come un sol uomo. Fa piacere apprendere che opera, come certifica l’Ufficio Stampa, sulla base di una precisa teoria economica: le infrastrutture (quali? dove? a che costi? con quali ricavi?) sono necessarie “per lo sviluppo”. E tanto basti.
F.D.

→  settembre 26, 2014


risposta di Carlo De Benedetti all’editoriale del Foglio del 25 settembre 2014

Al direttore
Ho letto con sorpresa l’editoriale di ieri sul Foglio (Il problema è un altro – De Benedetti, l’articolo 18 e il vizio benaltrista di fronte alle riforme). Le unisco le agenzie che hanno ripreso le mie dichiarazioni a cui il giornale si è riferito. Dalle stesse appare evidente che, considerando io la situazione economica dell’Italia estremamente preoccupante, ritenga: a) che l’art. 18 è un non-problema anche se è stato “storicamente” importante. B) Che incoraggio Renzi ad andare avanti (nella sua eliminazione) senza rimanere impantanato a discutere di art. 18 che in questo contesto appare superato e la cui eliminazione un problema minore. La prego di darne conto sul suo giornale.
Cordiali saluti.

La risposta del direttore
Si dà conto:
Lavoro: De Benedetti, articolo 18 Problema minore del paese Milano, 23 settembre. (Adnkronos): “Fermarsi a discutere dell’articolo 18 è un problema minore rispetto ai problemi di questo paese”. “Se guardo l’economia dell’Italia la considero disastrosa da diverso tempo”. “L’articolo 18 è stato storicamente importante nell’epoca e nelle condizioni del mondo del lavoro in cui è stato previsto, ma non in un periodo come quello attuale nel quale le condizioni dell’Italia sono preoccupanti”.

→  settembre 25, 2014


Editoriale del Foglio

Quello dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori “è un problema minore rispetto ai problemi drammatici di questo paese”. Lo ha detto due giorni fa il presidente dell’Espresso, Carlo De Benedetti, con discreta eco sulla carta stampata. D’altronde un imprenditore che dica che c’è “benaltro da fare”, proprio quando si vede all’orizzonte un governo finalmente pronto a cambiare una norma vecchia di 44 anni, in Italia lo troviamo sempre. Ieri, per esempio la Cgil rilanciava prontamente su Twitter l’intervista rilasciata a Ballarò da un “imprenditore” che sosteneva: “A noi dell’articolo 18 non interessa niente”. Lo stesso “imprenditore”, in realtà ai vertici di una cooperativa, che trenta secondi prima spiegava cosa s’attende dallo stato: “Meno tasse e più incentivi, più risorse”. Perché no? A Napoli hanno appena scoperto la più grande stamperia d’Europa di banconote false. Qualcuno ne metterà su un’altra e allora potremo realizzare l’originale proposta: meno entrate per lo stato e, allo stesso tempo, più uscite.
Ma De Benedetti non è un imprenditore qualunque. Eppure insiste: “L’articolo 18 è un problema minore”.

Nell’articolo 18, per 44 anni, si è cristalizzata una legge dell’economia che vige soltanto in Italia: sui licenziamenti individuali, per ragioni economiche o disciplinari che sia, è più titolato a decidere un magistrato che un datore di lavoro. Problema minore, quello dei licenziamenti, per chi per esempio, come De Benedetti, si è dovuto sudare contratti e accordi con un carrozzone statale e politicizzato come l’Iri. Problema minore quando gli organici si tagliano in grandi quantità, come fu per Olivetti, e addirittura si è nella posizione di intavolare trattative (raccontate anche su Rep. degli anni 90) per paracadutare i licenziati nel settore pubblico. Problema minore, quello dell’articolo 18, se la Sorgenia può avvalersi di sussidi pubblici (per carità, in buona compagnia). Problema minore, quello dell’articolo 18, se tanto per i propri dipendenti c’è sempre la cassa integrazione e per l’indotto c’è perfino quella in deroga. Poco importa se il welfare attuale, tutt’altro che universale, è figlio diretto della divisione dei lavoratori italiani tra insider garantiti e outsider senza protezioni. Poco importa se 90 assunti su 100, nel 2013, l’articolo 18 nemmeno l’hanno visto, spesso vittime di quella che il giuslavorista chiama “fuga dal diritto del lavoro”. La tessera numero uno del (vecchio) Pd vuole parlar d’altro. E purtroppo in Italia non è il solo.

→  settembre 24, 2014


di Vittorio Da Rold

«Quello dell’articolo 18 è un problema minore rispetto ai problemi drammatici di questo paese». Così il presidente dell’Espresso, Carlo De Benedetti, a margine di un incontro in Bocconi per l’inaugurazione di una cattedra per l’imprenditorialità in memoria del padre Rodolfo.

L’articolo 18, ha premesso De Benedetti, è stato «storicamente importante ma nelle condizioni in cui è l’Italia oggi, che sono preoccupanti, fermarsi a parlare di articolo 18 è un problema minore, capisco lo spirito dei molti che ci sono affezionati».
Quanto alle resistenze all’interno del Pd alla linea di Matteo Renzi, non solo in materia di lavoro, «sono comprensibili ma devono essere superate», ha auspicato l’ingegnere che ha poi aggiunto: «L’Italia sta degradando, non declinando, è questo quello che succede, siamo miracolosamente ancora in Europa».
E per sconfiggere il declinismo De Benedetti è passato a spiegare perché ha deciso di dedicare un Cattedra alla Bocconi a suo padre, «un vero piemontese, nato ad Asti nel 1892, un gentiluomo dedito al lavoro più che alle pubbliche relazioni, un ingegnere laureatosi al Politecnico di Torino subito dopo la fine della Prima guerra mondiale e che divenne imprenditore, dopo essere emigrato in Germania, grazie a un venture capital ante litteram, un prestito dello zio di mio padre». Così Carlo De Benedetti ha ricordato gli inizi dell’avventura imprenditoriale della sua famiglia e i motivi che lo hanno spinto a istituire la Cattedra Rodolfo Debenedetti in Entrepreneurship alla Bocconi di Milano, grazie a una donazione a titolo personale, dell’ammontare di 3 milioni di euro.

«Con questa iniziativa in memoria di mio padre – ha affermato De Benedetti – vorrei insieme alla Bocconi aiutare i giovani che nonostante tutte le negatività hanno voglia di provarci». Per facilitare questo obiettivo bisogna aiutare l’imprenditorialità italiana a fare un balzo in avanti. In altri termini – ha detto Fabiano Schivardi, il professore titolare della Cattedra – le modalità di apprendimento tradizionali, la palestra dei distretti, non sono più sufficienti, in un mondo in cui il successo d’impresa dipende più dalla capacità di innovazione che da quella di contenere i costi. Una formazione più strutturata e l’acquisizione di capacità manageriali dall’esterno possono essere le soluzioni alla crisi di crescita.

→  settembre 23, 2014


di Michele Ainisi

L’Italia è unita, gli italiani no. Si dividono per tifoserie politiche, per sigle sindacali, per corporazioni. Li separa la geografia economica, dato che il Pil del Mezzogiorno vale la metà rispetto al Settentrione. Sui temi etici restano in campo guelfi e ghibellini. Ma adesso s’alza un altro muro, il più invalicabile: l’anagrafe. Quella delle idee, con la crociata indetta dal premier contro ogni concezione ereditata dal passato. Dimenticando la massima di Giordano Bruno: «Non è cosa nova che non possa esser vecchia, e non è cosa vecchia che non sii stata nova». E quella, ahimè, delle persone. Distinte per i capelli bianchi, anche nel loro patrimonio di diritti.

Da qui la trovata che illumina il Jobs act : via la tutela dell’art. 18, ma solo per i nuovi assunti. Per i vecchi (6 milioni e mezzo di lavoratori) non si può: diritti quesiti, come ha precisato il leader della Uil. Curiosa, questa riforma che taglia in due il popolo della stessa azienda, mezzo di qua, mezzo di là. Riforma parziale, un po’ come una donna parzialmente incinta. Doppiamente curioso, l’appello ai diritti quesiti. A prenderlo sul serio, quando entrò in vigore la Carta repubblicana avremmo dovuto mantenere lo Statuto albertino per tutti i maggiorenni.
E a proposito della Costituzione. Nel 1970 lo Statuto dei lavoratori – di cui l’art. 18 rappresenta un caposaldo – fu salutato come il figlio legittimo dei principi costituzionali. Così, d’altronde, viene ancora definito nella letteratura giuridica corrente. Poi, certo, non ha senso discutere di garanzie quando manca il garantito: il diritto al lavoro esiste soltanto se c’è il lavoro. E a sua volta ogni Costituzione può essere applicata in varia guisa. Anche riconoscendo ai lavoratori licenziati un indennizzo, anziché il reintegro nel posto di lavoro. Ciò che tuttavia non si può fare è d’applicare contemporaneamente la stessa norma costituzionale in due direzioni opposte. Lo vieta la logica, prima ancora del diritto. Tanto più se il criterio distintivo deriva dall’età, di cui nessuno ha colpe, però neppure meriti.

Ma il Jobs act non è che l’ultimo episodio della serie. Le discriminazioni anagrafiche condiscono sempre più frequentemente la pietanza delle nostre leggi, ora a danno dei più giovani, ora degli anziani. Così, nel giugno 2013 il governo Letta decise incentivi per l’assunzione degli under 30. E i cinquantenni che perdono il lavoro? Perdono anche il voto, o quantomeno lo dimezzano, secondo la proposta di legge depositata da Tremonti nel 2012: voto doppio per chi è sotto i quarant’anni. Invece nella primavera scorsa la ministra Madia ha tirato fuori la staffetta generazionale nella Pubblica amministrazione: tre dirigenti in pensione anticipata, un giovanotto assunto. Dagli esodati agli staffettati. Tanto peggio per i vegliardi, cui si rivolgono però in altre circostanze i favori della legge, dalle promozioni automatiche all’assegnazione degli alloggi popolari, dalle pensioni sociali al ruolo di coordinatore nell’ufficio del giudice di pace (spetta al «più anziano di età»: legge n. 374 del 1991).

No, non è con queste medicine che possiamo curare i nostri mali. Occorrerebbe semmai una medicina contro ogni discriminazione basata sul certificato di nascita. Gli americani ne sono provvisti dal 1967 (con l’Employment act ), gli inglesi dal 2006. Mentre dal 2000 una direttiva europea vieta le discriminazioni anagrafiche nel mercato del lavoro. In attesa d’adeguarci, non resta che il soccorso d’una (vecchia) massima: i diritti sono di tutti o di nessuno, perché in caso contrario diventano altrettanti privilegi.

→  settembre 22, 2014


di Giorgio La Malfa

Caro direttore,

Sul piano strettamente economico la decisione del governo di procedere in questo momento a un’ulteriore riforma del mercato del lavoro per aumentarne la flessibilità a me sembra un errore. Anzi un errore grave che può compromettere ulteriormente una situazione economica che è già molto seria.

Non è questa solo l’opinione mia e di molti economisti. Oggi è una posizione che trova importanti convalide nelle analisi delle organizzazioni internazionali. Ha cominciato il Fondo Monetario riconoscendo che gli effetti della correzione accelerata dei conti pubblici ha avuto effetti depressivi molto forti. Ma quello che più conta è l’analisi, largamente ignorata in Italia, che ha fatto il Presidente della BCE, Mario Draghi, in un cruciale discorso tenuto il 22 agosto scorso negli Stati Uniti.

In quel discorso Draghi ha spiegato che nella disoccupazione europea vi sono due componenti, una strutturale collegata alle condizioni di rigidità del mercato del lavoro ed una ciclica collegata alle condizioni della domanda. Subito dopo ha detto che oggi la priorità è risollevare la domanda aggregata: “Le politiche di intervento sulla domanda non sono giustificate soltanto dalla significativa componente ciclica della disoccupazione. Esse sono rilevanti perché, data l’incertezza che prevale in questo momento, esse contribuiscono ad evitare il rischio che la debolezza dell’economia produca un effetto di isteresi [un circolo vizioso in cui la depressione della domanda causa una parziale distruzione della capacità produttiva ndA].” Ed ha concluso: “Oggi […] i rischi di ‘fare troppo poco’ – e cioè il rischio che la disoccupazione divenga strutturale – sono maggiori dei rischi ‘di fare troppo’ – cioè di determinare un’eccessiva pressione in aumento per i prezzi ed i salari.”

Se questa è la diagnosi di un autorevole economista che per di piu siede al vertice di una istituzione che è, per cosi dire, istituzionalmente conservatrice, come si può pensare che il problema di cui oggi ha bisogno l’Italia sia un’ulteriore flessibilità del mercato del lavoro? Il primo effetto della maggiore flessibilita sarebbe un ulteriore aumento della disocccupazione e un ulteriore avvitamento dell’Italia nella crisi. Il governo dovrebbe concentrare la sua attenzione sullo stimolo della domanda e lasciar stare il mercato del lavoro che la crisi di questi anni ha già reso anche troppo flessibile.

Non discuto le ragioni politiche che possono indurre il presidente del Consiglio a ingaggiare una polemica con I sindacati. I sindacati non sono molto popolari oggi, nemmeno fra I loro aderenti, e quindi scontrarsi con loro può creare delle simpatie nell’opinione pubblica. E il governo può averne bisogno essendo palpabile la disillusione di una parte dell’elettorato che aveva votato Renzi alle elezioni europee. Tutto questo si capisce, ma non vorrei che la ricerca della popolarità ci facesse fare nuovi e costosi errori.