di Marco Mele
Tempi stretti per l’asta ma restano da liberare i canali occupati dalle tv locali
Le frequenze, all’improvviso. Lo Stato italiano, dopo aver lasciato per decenni l’etere televisivo – risorsa pubblica e scarsa – all’utilizzo dei privati, ora ne mette una parte in gara tra le compagnie telefoniche. Più che l’amor – per le tv, soprattutto in tempo di elezioni – potè il digiuno (di risorse). Tempi rapidi: secondo l’emendamento del Governo alla legge Finanziaria in discussione alla Camera, entro settembre 2011 gli introiti della gara dovranno entrare in bilancio.
Premessa: in Europa, con lo spegnimento del segnale analogico entro il 2012, diventa possibile un uso più efficiente dell’etere, liberandone una parte dall’uso televisivo, a favore di nuovi servizi come la banda larga mobile. Tali frequenze garantiscono la massima copertura e la penetrazione negli edifici, con un basso numero basso di ripetitori. Migliori servizi a migliori costi e riduzione del digital divide nelle aree rurali, allora, più ricchezza sociale rispetto all’uso televisivo. Lo dimostrano diversi studi (alcuni però effettuati per conto degli stessi operatori mobili).
La Conferenza mondiale di Ginevra del 2006 ha stabilito che entro il 2015 in Europa i canali dal 61 al 69 della banda UHF siano destinati a servizi wireless. Sino ad allora, potranno essere impiegati sia dalla tv sia dalle Tlc, su base co-primaria. Gran parte dei paesi europei ha scelto di riservare da subito tale banda di frequenze ai servizi telefonici in mobilità: a maggio, il Big Bang auction tedesco ha portato ad un incasso di 4,5 miliardi, di cui 3,3 per sette canali della banda 780-860 Mhz.
L’Italia televisiva, però, è un’anomalia in Europa per l’unicità delle modalità d’uso dello spettro. Solo nel 2007 è nato il Catasto delle frequenze.Il Governo dispone che le frequenze dal 61 al 69 vadano messe all’asta con l’obiettivo, molto prudente, di ricavarci un miliardo di euro per 15 anni di diritti d’uso (in Germania si é ottenuto il triplo), più 850 milioni per altre frequenze in banda 1800 Mhz e 2600; aggiungendo una stima di maggiori entrate del 30% per effetto dei meccanismi competitivi. Stima complessiva: 2,4 miliardi. Il 10% sarà destinato a compensare le tv che trasmettono su quella banda (se entrerà di meno, calerà in proporzione anche tale compenso). Tali tv sono tutte locali, a parte alcuni canali assegnati ad Europa 7. Tali canali non sono mai stati assegnati alle tv nazionali. Come si liberano tali frequenze? Diverse disposizioni nell’emendamento del Governo hanno come fine di evitare la sottoutilizzazione della capacità trasmissiva e di recuperare frequenze, da assegnare, magari, a chi trasmette oggi sui canali messi in gara e che, anche in Lombardia, saranno assegnati alle tv locali. Alcune disposizioni non mancano di ambiguità. Come quella che assegna al Ministero dello sviluppo la possibilità di fissare «ulteriori obblighi» per «la promozione delle culture regionali o locali». Può diventare uno strumento per bloccare la vendita, da parte dei costituiti consorzi tra le tv regionali, di banda trasmissiva a soggetti nazionali. Non é chiara anche la possibilità di rilasciare l’assegnazione definitiva d’uso dello spettro a chi ha avuto un rilascio provvisorio. Non è possibile farlo, tra l’altro, nelle regioni per le quali sono aperte trattative con i paesi confinanti. L’Agcom ha chiesto, con il Piano delle frequenze, che i titoli siano provvisori in attesa della conclusione di tale coordinamento internazionale. Si rischia di dichiarare “guerra” a Slovenia e Croazia.
Altro interrogativo: non si possono escludere ricorsi al Tar da parte di soggetti che hanno ricevuto o riceveranno una regolare assegnazione pluriennale per l’uso di una frequenza e si troveranno a doverla “liberare” prima della scadenza del titolo. D’altra parte, non avendo i canali 61-69 è arduo riuscire a digitalizzare non solo le regioni a maggiore scarsità di frequenze, come il Veneto.
Si tratterà, allora, di un’asta a frequenze occupate, che addirittura potranno essere assegnate dopo la conclusione della gara. E’come vendere una casa occupata: il prezzo non può non risentirne, a partire dalla base d’asta e il Governo ne ha tenuto conto.
Vi sono altre implicazioni. Parallelamente all’asta, si dovrebbe svolgere l’assegnazione con procedura pubblica di sei frequenze nazionali (una delle quali per la tv mobile con standard Dvb-h, nei fatti “fallito”), attraverso un beauty contest con introito vicino allo zero per lo Stato. Su due frequenze molto vicine, come la 58 e la 61 UHF, lo Stato ne assegna una senza contropartite o quasi, mentre per la seconda aspetta un introito minimo di 160-170 milioni. Non solo: tre dei cinque multiplex andranno, con tutta probabilità, a Rai e Mediaset (e a Sky), rafforzando i più forti. La Ue, invece, ha accettato il compromesso sulle cinque frequenze solo per favorire l’ingresso di nuovi entranti nel sistema televisivo. Ve ne saranno? Altra domanda: il Governo non modifica la legge che obbliga a riservare un terzo delle frequenze alle tv locali, pur facendole “traslocare” dai canali 61-69. Facile prevedere che, a fronte di ventuno reti nazionali “equivalenti”, le tv locali chiederanno più spazi in nome di tale riserva. L’abnorme concentrazione di risorse e diritti nelle mani di pochi soggetti nazionali, però, impedisce alle imprese locali (non tutte le tv possono dirsi tali) di sfruttare tale riserva e la capacità trasmissiva concessa. Secondo un’elaborazione del Sole 24 Ore Roma, sul teleschermo della capitale appaiono ben 155 programmi di televendita. In stragrande maggioranza sono tutti ripetizioni di pochi segnali differenti. E’ “la tv dei poveri” che occupa una risorsa preziosa. Le tv locali, in forte crisi dopo il passaggio al digitale, rischiano di essere le vittime dell’auspicata razionalizzazione dell’etere.
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