“Saremo felici ripensando che noi vi lasciamo il paese tranquillo all’interno, in buone relazioni e rispettato all’estero; vi lasciamo finanze assestate e pregheremo Iddio che possiate questi benefici conservare alla patria.”
Abbattuta l’inflazione, ridotto il deficit, creduto e voluto che fosse possibile portare dignitosamente l’Italia alla soglia dell’Europa della moneta unica, Ciampi potrebbe un giorno a buon diritto far sue le parole pronunciate in Parlamento da Marco Minghetti il.16 Marzo 1876.
Ha fatto quindi un singolare, e anche un po’ triste, effetto doverlo veder scendere in difesa del direttore generale del Tesoro Mario Draghi, oggetto da parte di Eugenio Scalfari (Repubblica del 29 Agosto) di un attacco di inusitata violenza.
E’ dai tempi di Matrio Sarcinelli che non si ricorda un simile attacco politico a un, seppur alto, funzionario dello Stato. Per carita’, nessun accostamento a quel clima di veleni: resta tuttavia che, essendo per la nostra costituzione i Ministri personalmente responsabili degli atti dei loro dicasteri, l’accanimento contro un direttore generale o cela qualcosa di misterioso, oppure mira oblliquamente a chiamare in causa Ciampi.
Ministro e’ una parola un po’ forte, ma alcuni aspetti della vicenda restano poco chiari. Puo’ anche darsi che sia stata solo la “profanazione” del nome di Ascarelli ad aver fatto scattare in Scalfari il riflesso condizionato dei tempi del Mondo e di “Razza padrona”: per certi versi quelli passati sono sempre happy times.
A ben vedere alcuni dei temi sollevati da Scalfari sembrano inadeguati a sostenere tanta polemica. La lamentata concentrazione di troppo potere nella mani del direttore generale discende da scelte politiche, dal Governo Amato in poi, miranti a disboscare quella selva di competenze incrociate che si opponeva sia a una gestione efficiente delle imprese pubbliche sia alla loro dismissione: tutte approvate dal Parlamento.
E veniamo al fuoco della polemica: dopo la replica di Ciampi il tentativo e’ quello di ridurlo a una questione assolutamente formale, le modalità cioè di attuare la delega per la riforma del diritto societario.
A fare questione di grammatica va ricordato che la delega e’ stata conferita dal Parlamento, non usurpata dal Tesoro. A fare questione di logica, l’alternativa e’ tra sottoporre a pubblica discussione i criteri guida , come chiede Scalfari, o un articolato – come opportuno in materie giuriciche complesse. Il Tesoro ha assicurato che sulla bozza ci sara’ ampio dibattito: e vien da credergli anche perche’ sara’ difficile che ignori le autorevoli posizioni assunte in un dibattito fattosi negli ultimi tempi assai intenso: da quelle di Bankitalia – tra le tesi di Fabrizio Barca e della Fondazione Disiano Preite e quelle recenti di Pierluigi Ciocca – a quelle di Assogestioni, fino a quelle del Comitato Scientifico di Confindustria, illustrate un mese fa in una riunione cui partecipo’ -senza intervenire- lo stesso Prof. Draghi.
Nessun imbarazzato rispetto manifestato alla replica di Ciampi puo’ in realta’ nascondere la questione sostanziale sollevata da Eugenio Scalfari, la scelta cioe’, finalmente dopo decenni di dibattiti, di un nuovo modello0 di governo societario. Su tale questione, chi scrive ha molte volte preso posizione a favore di modifiche che aprano il sistema italiano ad un ruolo piu’ incisivo del mercato e degli investitori istituzionali.
Tuttavia, pur sostenendo un’impostazione che puo’ apparire molto simile a quella che ha ispirato le critiche al Tesoro, io mi guarderei bene dal dire che la scelta da compiere si riduce alla dicotomia tra modello tedesco e modello anglosassone. Non e’ qui il caso di aprire polemiche dottrinarie su quale sia la migliore attuazione delle proposte “classiche” di Bearle e Means.
Il punto e’ che nessuno dei due modelli e’ in quanto tale applicabile nel nostro Paese: per il modello tedesco banco-centrico ci mancano banche adeguate per competenze e dimensioni; per quello anglo sassone mercato-centrico manca una Borsa adeguata per regole e per dimensioni ( capitalizza meno di un terzo del PIL, contro oltre una volta e mezzo nel Regno Unito). Ogni soluzione dovra’ tener conto del nostro specifico – dimensione d’impresa e specializzazione tecnologica, debito pubblico e sistema fiscale, ecc. – per raggiungere l’obbiettivo: da un lato evitare che gli imprenditori abusino delle risorse messe a loro disposizione dagli investitori; dall’altro garantire gli imprenditori che la tutela degli invesitori non eroda la certezza del controllo su cui fondano i loro investimenti in capitale umano.
Le cose sono dunque un po’ meno semplici di quanto quella dicotomia vorrebbe suggerire. Ai tempi di Ascarelli ero in altre faccende affaccendato, ma di Bruno Visentini conservo venerata memoria: e ricordo la sua ostilita’ verso le public company (le imprese son femmine, diceva, e han bisogno di un maschio che le governi), la sua difesa dei patti di sindacato. Visentini condivise di fatto il sistema di controllo che si suole designare come “sistema Mediobanca”, nonche’ quello delle – oggi giustamente vituperate- scatole cinesi. Queste hanno anche permesso ad alcuni imprenditori di non incontrare nei propri mezzi finanziari un limite alla propria espansione, con risultati non sempre negativi, come lo stesso Scalfari non avra’ difficolta’ a riconoscere. Io non mi stanco di ripetere, esponendomi anche a qualche polemica, che la scalabilita’ delle imprese ha effetti di sistema positivi: ma la strada e’ in salita, quando e’ il Governo stesso a imporre, con la golden share, la clausola antiscalata par excellence.
Il vero oggetto di queste polemiche non sono le norme sulle societa’ per azioni, ma l’ambiente economico e sociale in cui esse operano. Non e’ possibile adottare criteri “anglosassoni” in tema di governo societario e continuare ad inseguire invece modelli di fatto opposti, quanto ad assetti di mercato e di concorrenza, norme giuridiche e pratica giurisprudenziale, rapporti sindacali e istituzioni sociali. C’e’ da chiedere a Scalfari stesso se e’ convinto che la classe politica al Governo abbia totalmente abbandonato ogni nostaglia pianificatoria, ogni politica di sostengo della domanda. C’e’ da chiedersi se il modello anglosassone si concili con la pratica della concertazione, di cui Ciampi e’ un convinto sostenitore; se in Italia al massimo sia consentito un liberalismo sociale, che pensa di risolvere il problema delle diseguaglianze prodotte dall’economia di mercato tramite l’intervento dello stato in funzione distributiva, oppure se ci sara’ dato di sperimentare soluzioni fondate sull’individualismo liberale.
Questo, come si sa, e’ il problema di fondo della politica italiana. Sarebbe auspicabile che, note che fossero le proposte sulla riforma del diritto societario, le critiche ad esse rivolte fossero coerenti con la premessa: chi chiede piu’ mercato nell’impresa, non puo’ invece contrastarlo in altri ambiti della vita nazionale.
settembre 2, 1997