Replica. A noi.
Caro Direttore,
il Riformista (con l’editoriate intitolato Aiutare, non uccidere) avrà “difficoltà a comprendere” il diritto al suicidio tra i “diritti incoercibili dell’uomo”, ma dovrebbe prima di tutto riconoscere il dato di realtà: in generale è impossibile impedire di suicidarsi (vale purtroppo anche per i kamikaze); e neppure è proibito farlo, dato che la legge non punisce il suicida sopravvissuto.
Più che “incoercibile”, quello al suicidio è un diritto fondante dell’uomo, forse il primo in assoluto dei suoi diritti (usando la parola in senso morale e non strettamente giuridico): solo quello di terminarla sancisce il potere dell’uomo sulla sua vita, quindi il possesso di sé, quindi la propria identità. Chi nega il diritto al suicidio lo fa infatti in nome della convinzione che la vita non appartenga al vivente, ma ad un soggetto ad esso estraneo (il creatore). Negare il diritto a porre termine alla propria esistenza, comporta considerare il vivere come il dovere di trasportare la propria vita dall’incoscienza del concepimento all’incoscienza della morte.
Negare il diritto al suicidio è la suprema e più assoluta crudeltà: quella perpetrata infliggendo la sofferenza non direttamente e personalmente, ma inoculandola a distanza nella mente, sancendo l’impossibilità di sfuggire al dolore, per quanto disumano, la condanna a sopportare le vette dell’angoscia, per quanto trascendentali, senza che sia possibile mettere un termine.
Significa negare l’estrema consolazione di sapere che comunque il dolore può essere finito, che la sofferenza può avere un limite, e che io ho il potere di fissare quel limite e di definire quella finitezza. Il suicida non ha paura della vita, ma del passaggio, dell’attimo infinito che precede la morte. Per questo io, pur favorevole a dare la possibilità di fare un testamento biologico, non firmerei mai il mio, né attivo né tanto mento passivo: l’ipotesi di essere cosciente ma impossibilitato a comunicare che non voglio più o non voglio ancora che siano eseguite le disposizioni che ho date in un altro momento della mia vita, penso possa dilatare all’infinito quegli istanti di terrore.
Come tutti i diritti, anche quello al suicidio ha i suoi limiti: sono quelli che derivano dal nostro essere sociali, inseriti in un contesto di affetto, di legami famigliari. La presenza di questi legami non annulla il diritto, innalza solo il limite della sofferenza, la dilata a comprendere la sofferenza che io, per sottrarmi alla mia, riverso sugli altri: la sofferenza di chi mi sopravviverà. E’ la coscienza di quei legami che fa provare oggi una sofferenza futura che non proverò mai.
Lasciare agli uomini il loro diritto di morire è un’opera di misericordia. Sottrarglielo è crudeltà: in un certo senso, è il delitto perfetto.
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di Franco Debenedetti – Il Riformista, 06 ottobre 2005
ottobre 8, 2005