In un passaggio centrale all’interno di un lungo articolo pubblicato alla vigilia di Ferragosto sul Corriere della Sera, il direttore generale del Tesoro Mario Draghi, rispondendo a rilievi mossi sulle gare per Autostrade e Aeroporti, esponeva la filosofia del Tesoro nel privatizzare: il controllo dapprima viene ceduto a investitori che garantiscano la stabilità della transizione; il successivo subentrare di assetti proprietari selezionati dal mercato è possibile anche grazie alla legge Draghi, che rende più contendibile il controllo.
Teorizzazione ineccepibile. Per quanto riguarda il passato, respinge le critiche mosse al “nocciolino duro” di Telecom: doveva garantire la stabilità; e giustifica la neutralità del Tesoro nell’OPA: bisognava garantire il principio della scalabilità. Per quanto riguarda il futuro, la teoria dovrebbe funzionare per Aeroporti e Autostrade, da tanto tempo in dirittura d’arrivo. Ma il punto è proprio questo: i casi a cui la teoria si applica sono pochi. Non ad Alitalia perché fa storia a sé, non alle banche perché sono banche, non alla RAI perché… lo sappiamo.
E neppure alle “grandi”. Per ENI, Enel, Finmeccanica, alle due tappe di Draghi se ne è aggiunta una terza, quella di farne dei national champions: al valore della contendibilità si sovrappone quello della dimensione. Per far restare grande ( e profittevole) ENI, le si lascia il monopolio del gas, a costo di rendere così problematici accordi societari, come si è visto in occasione dell’OPA Totalfina su Elf.
Finmeccanica è stata ampliata ad includere ST Microelectronics, blindata in nome della protezione di interessi strategici; e le dismissioni di Ansaldo e Elsag si sono arenate. Rinunciato di fatto a far cambiare la proprietà all’azienda, si fa cambiare significato alle parole, si gabella per privatizzazione quello che è in realtà pubblicizzazione di risparmio privato, in cambio di titoli di un’azienda il cui controllo resta saldamente in mano pubblica.
L’Enel è il caso più emblematico. Mentre in Germania la concorrenza per guadagnarsi i clienti eleggibili c’è ed è vivace, da noi la già timida liberalizzazione imposta da Bruxelles viene attuata in modi e tempi che preservino la posizione dominante dell’Enel. Per la quale adesso il Governo si inventa la strategia multiutility. Proprio quando il mantra oggi è la creazione di valore e la focalizzazione, mentre i mercati finanziari mostrano il loro scetticismo sui pregi effettivi delle sinergie dando alle holding un valore inferiore alla somma delle loro parti, il Governo assegna all’Enel la missione di crescere diversificandosi nei business del telefono, della televisione, dell’acqua. Eppure la francese Vivendi sta uscendo dall’energia elettrica in Belgio e in America; le maggiori società elettriche tedesche si sono ritirate con perdite dalle incursioni nel campo della telefonia; la fusione di VIAG e VEBA dovrebbe preludere alla vendita delle loro attività chimiche. Certo ci sono anche esempi differenti, Suez Lyonnaise des Eaux ha progetti di espansione anche nell’energia. In ogni caso si tratta di decisioni manageriali di imprese private, su cui si pronuncia il mercato.
Per il Governo mettersi a fare lo stratega aziendale è doppiamente sbagliato. E’ pericoloso per sé, quella del consulente in strategie aziendali essendo un’arte aleatoria: molte intuizioni, nessuna certezza, qualche buona idea, più sovente razionalizzazione di successi passati. Ed è dannoso per il sistema economico, perché il consulente vende un parere a un cliente, il Governo comunica una politica al mercato.
Il Governo prima ha ceduto alla volontà di espansione dell’Enel, poi ha razionalizzato le proprie scelte con la teoria delle multiutility. Naturale che anche l’ENI si scopra vocazioni da multiutility; naturale che le municipalizzate maggiori, a Roma Milano Torino, vedano nel diventare multiutility il modo per garantirsi contro una – peraltro già improbabile – privatizzazione; meno naturale che il Governo induca anche i privati, ad esempio l’Olivetti, ad impegnarsi in simili strategie. Il settore dei servizi detti di pubblica utilità è già di per sé poco esposto alla concorrenza, la maggior parte delle imprese sono pubbliche, il modello multiutility confondendo le carte protegge le inefficienze: inefficienze che per questa via il Governo finisce per radicare nel Paese.
Già il Governo Prodi aveva posto il vincolo di non smontare le grandi imprese create dalle PPSS. Il Governo D’Alema ha aggiunto l’ambizione di avere nel Paese alcuni grandi gruppi. Vincoli e ambizioni hanno arrestato il processo di privatizzazione; ora con l’invenzione delle multiutility si è addirittura invertito il senso di marcia. Non solo: l’enfasi sulla dimensione induce anche i privati a privilegiare ancora di più modelli di crescita per aggregazioni anziché per sviluppo interno; e a continuare nel ricorso a costruzioni barocche per mantenerne il controllo. Così da un lato si criticano le scatole cinesi e le grandi leve finanziarie, dall’altro si creano i presupposti perché vengano adottate.
Considerazioni non nuove, ma che la ristrutturazione del gruppo Tecnost Telecom ripropone in tutta la loro attualità. Nel nuovo assetto, TIM e Telecom sono due società sorelle, i loro bilanci non sono più imbricati, anche le loro strategie potrebbero domani divergere. Si realizza, sia pure sotto il controllo di Tecnost, quella separazione che a suo tempo (il 27 novembre 1996 e poi il 29 Gennaio del 1997, sul Sole 24 Ore) suggerivo di adottare. Proponevo di vendere separatamente il fisso e il mobile: più facile, sostenevo, sarebbe stato collocare due aziende di dimensioni minori. E dando a ciascuna la licenza di operare a tutto campo ci sarebbe stata da subito più concorrenza. Allora l’idea fu bocciata come “spezzatino”.
Oggi, ripensando alle difficoltà incontrate a formare il nocciolino duro, al tempo perso, alle frenesie sull’OPA, e adesso alla tempesta suscitata dal progetto di ristrutturazione, credo si debba riconoscere che la proposta non era poi così insensata.
Quella occasione è stata persa, vediamo almeno di non continuare negli errori; e di non inventarci, per coprirli, strani modelli di multiutility di stato.
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ottobre 1, 1999