di Francesco Forte
Il libro di Thomas Piketty, “Capital in the Twenty-First Century”, soprattutto dopo la sua pubblicazione in lingua inglese, ha suscitato un dibattito interessante. La sua impostazione metodologica, consistente nel mettere insieme dati plurisecolari sulla diseguaglianza dei redditi, mi insospettisce. Ciò ancorché egli sembra essere stato aiutato in tale compito da un economista competente come Anthony Atkinson. Infatti quando per il mio libro “L’economia italiana dal Risorgimento ad oggi” del 2010 ho cercato di ricostruire serie omogenee dei dati macro economici della nostra economia nei 150 anni, mi sono reso conto di quante lacune ci siano nelle fonti statistiche di un singolo paese. E non capisco come si riesca a omogeneizzarli fra una ventina di paesi, come fa Piketty. In attesa di studiare tali banche dati, esprimo molti dubbi sulla tesi di fondo per cui la elevata concentrazione della ricchezza dipenderebbe dal fatto che “r”, il tasso di remunerazione del capitale, ha la tendenza a eccedere “g”, il tasso di crescita del pil, per colpa del modo “patrimoniale” in cui è organizzato il sistema economico capitalistico.
Inoltre mi pare un non sequitur la tesi per cui per alleviare le diseguaglianze occorre introdurre una tassazione patrimoniale per modificare la distribuzione. Infatti ci sono in linea di principio un capitalismo di monopolio e uno di concorrenza. E mi pare evidente che il primo tenda alla diseguaglianza più del secondo, sia oggettivamente perché protegge le posizioni costituite sía soggettivamente perché ostacola il ricambio. Per porre rimedio a questi difetti occorre favorire la formazione del risparmio di chi ha un basso reddito e dei ceti medi e ridurre la tassazione dei piccoli capitali e dei loro redditi, sia a livello familiare che nelle imprese, sicché il tributo patrimoniale avrebbe senso solo se addossato alle altissime fortune. Che peraltro hanno moltissimi modi per sfuggirvi legalmente. E del resto ciò non sarebbe di alcun aiuto a chi ha bisogno di risparmio e investimento per crescere e competere.
E poi perché la colpa è di “r > g”? Non sarà magari vero che “g > r” perché chi detiene “r” è maltrattato? In un’economia di mercato aperta, la crescita è maggiore che in una ingessata dalle regolamentazioni e da un eccesso di spese, tributi debiti. Perché non ci si occupa di accrescere “g” anziché piangere su “r”? E perché mai abbassando r con le imposte automaticamente “g” cresce? Ciò che si riduce con le imposte non è “r” netto di imposta, ma lordo. La domanda di capitale ai fini della crescita “g” dipende dalla quantità di capitale offerto. Questa si riduce se una parte va al fisco, salvo che questo lo usi per prestare denaro alle imprese o per far impresa direttamente.
L’economia cinese però come spiega Ronald Coase nel suo ultimo libro da poco uscito in Italia grazie all’Istituto Bruno Leoni è cresciuta perché lo stato ha sempre più lasciati il apitale e le imprese al mercato. Infine non è vero che se “r”, il reddito del capitale, cresce al 3 per cento annuo e la crescita del pil è dell’1 per cento annuo, dopo x anni tutto il reddito è dei capitalisti, per una legge matematica inerente alla diversa crescita delle due variabili. Essa vale solo se a “r” si applica la regola del cumulo dei tassi composti. Ma una parte del risparmio si traduce in consumo. Così quello delle assicurazioni previdenziali e dei fondi di investimento. E notoriamente le ricchezze delle grandi famiglie dopo tre generazioni si disperdono. I ricchi sono’come il fiume Po, che è molto più grande dei suoi affluenti. Ma le acque che lo compongono cambiano di continuo perché finiscono nel mare. Mentre il Po, a parte le alterne vicende, nei secoli rimane eguale. Se fosse più grande, potrebbe irrigare più terreno.
Tweet
maggio 3, 2014