Stabilità e concorrenza: il problema di come creare un ambiente economico che garantisca entrambi questi valori è stato riproposto dalle Considerazioni finali, là dove il Governatore della Banca d’Italia ha trattato il tema della vigilanza e delle aggregazioni bancarie. Tra i due valori, stabilità e concorrenza, Antonio Fazio non ha dubbi su quale debba avere la preminenza.
Il Testo unico bancario, la direttiva europea del 1989, la sanzione costituzionale in tutela del risparmio, lo obbligano a interpretare in modo stringente l’obbligo di «salvaguardare la sana e prudente gestione degli intermediari e l’integrità del credito e del risparmio». Il bene primario è «la stabilità degli intermediari. l’integrità dei fondi amministrati»: dunque la necessità di far approvare i progetti di acquisizione prima di ogni annuncio pubblico; dunque il pregiudizio contro le acquisizioni ostili: dunque una «più stringente» procedura di approvazione preventiva in risposta alle critiche di eccessiva discrezionalità.
Certo le banche hanno una loro peculiarità che le distingue dalle altre imprese. Perfino alla domanda «che cosa è una banca» non si riesce a dare risposta univoca: le banche possono essere viste come trasformatori di scadenze (mantengono passività a breve e investono in attività a lungo termine): oppure, se invece che sulle passività si pone l’attenzione sulle attività, la loro funzione può essere fatta consistere nel valutare e selezionare gli investimenti, e il loro merito nel minimizzare il costo di monitoraggio dei progetti. E a diverse definizioni di banca corrispondono diversi equilibri tra stabilità e concorrenza.
Il dilemma stabilità o concorrenza è il tema di fondo di tutto il processo di privatizzazione; e ciò che colpisce è proprio il fatto che, alla differenza sostanziale tra banche e industrie, ha corrisposto un percorso e un approccio singolarmente analogo: anche nel processo di privatizzazione delle aziende pubbliche sempre è la stabilità a essere stata privilegiata. Al presidente Amato si deve riconoscere il merito di aver respinto il progetto di privatizzare conferendo tutto in un’unica holding e vendendone le azioni. con il che la concorrenza sarebbe stata esclusa per sempre. Ma fu per la stabilità della grande impresa che all’Eni si lasciò il monopolio del gas, fu per garantire integrità al national champion che Prodi volle il nocciolo duro per Telecom: anche il piano elettrico per l’Enel è fortemente sbilanciato verso la stabilità. È solo con l’Opa che in Telecom ha prevalso la concorrenza, anzi erano proprio dettate da preoccupazioni di stabilità le obiezioni non preconcette all’Opa.
Che c’entra, obietterà qualcuno, le banche ormai sono private, lo dice Fazio stesso: «la quota di mercato delle banche facenti capo al settore pubblico è discesa al 17%»,
le 38 Casse di risparmio tuttora controllate dalle Fondazioni originarie sono piccole, rappresentano solo il 7,7% del volume totale intermediato dal sistema. Tutto dipende dal criterio per definire controllo, e il Governatore sembra che intenda quello formale di maggioranza azionaria. Ma la realtà è ben diversa: l’ente Fondazione ha una posizione di assoluto rilievo in Unicredito, in Intesa, nella Banca di Roma, l’ha nel San Paolo, anche se non lo esercita. l’ha, e se ne vanta, nel Montepaschi. Nè le cose cambieranno quando le Fondazioni saranno diventate soggetti di diritto privato per legge: la privatizzazione avverrà quando la presenza delle Fondazioni nel capitale delle banche sarà tale né da avere. né da poter avere influenza sugli equilibri proprietari. Il grosso del sistema bancario non è ancora effettivamente privato, così come non lo è l’Enfi, così come non lo sarà per vent’anni l’Enel.
Come si è voluto pilotare e guidare le privatizzazioni delle aziende di Stato, così si è accettato che si piloti e si guidi la transizione delle banche al mercato: la rituale presenza di Mario Draghi alla destra di Antonio Fazio mentre legge le sue Considerazioni finali ha un valore simbolico. Le tesi del Governatore hanno attizzato critiche portate in nome della concorrenza; dovrei essere il primo a rallegrarmene, non fosse che esse risultano poco convincenti per due ragioni. La prima, che quando si sceglie di mettere un demiurgo à governare il processo, si sa che le sue scelte sono discrezionali: si può non concordare con le sue scelte, non sorprendersi del fatto che scelga. La seconda, che quando l’intervento discrezionale è la norma, le teorie generali servono a poco, si entra nel regno delle scelte empiriche, del caso per caso. E qui i casi sono poi quattro più uno: Credit, Comit, Imi SanPaolo, Roma, e, un po’ a parte, Intesa. E due sono le operazioni che tanto hanno fatto discutere.
Non si può negare che la fusione di Imi-San Paolo con Banca di Roma avrebbe dato luogo a una concentrazione di notevole dimensione, perdipiù connotata da un incrocio banca-industria inusuale nel nostro Paese: non proprio una garanzia di concorrenza. Quanto a Unicredito-Comit, il gruppo di controllo di Piazza della Scala è attraversato da profonde divisioni, mentre per Piazza Cordusio lo scontro con le Fondazioni proprietari ha fatto temere una crisi al vertice non proprio una garanzia di stabilità. Pensare che queste situazione possano essere risolte in modo rapido e conveniente dalle sole forze d mercato, appare irrealistico. Ed ingenuo stupirsi dell’intervento di Banca d’Italia.
Per banche e imprese, non era questa l’unica soluzione possibile in tema di stabilità e concorrenza. Si poteva assicurare la stabilità sud dividendo i rischi tra molte imprese, invece che ricercarla affidandosi a poche aziende too big to fail; assicurare la concorrenza con il ricorso sistematico ed estensivo break-up anziché inevitabilmente avvantaggiare l’esistente. Si poteva evitare che la transizione avvenisse con l’intervento discrezionale, col rischio che gli assetti di mercato aziendali siano creatura del regolatore; e invece consentire che fosse il mercato a ridefinire perimetri aziendali e a formare maggioranza. Questo è quanto ho sempre sostenuto. È questo che vogliono i critici Fazio? Magari; ma i fatti fino adesso ne fanno dubitare.
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giugno 3, 1999