Spariglio Internet sul duopolio TV

luglio 29, 2007


Pubblicato In: Varie


Forum Corriere Comunicazioni-Thinktel. Debenedetti, Curzi, Guerci a confronto sul futuro televisivo

Va a rilento alla Camera la discussione sul disegno di legge Gentiloni. Tanto che, per evitare lo stallo, il ministro potrebbe spostare con un decreto la data dello switch-off. Ma rischia di essere la tecnologia la vera bomba che farà scoppiare gli equilibri del mercato tv in Italia. Debenedetti e Guerci: troppo dirigismo statalista nella legge del ministro. Curzi: il servizio pubbli­co va tutelato. Emilio Pucci direttore di e-Media Institute: “I contenuti premium non bastano più a trainare lo switch-over”. Antonio Sassano direttore della Fondazione Bordoni: “Dal Dtt una grande occasione: meno spettro, più canali”.

E AL DUOPOLIO CI PENSERA’ INTERNET?
Più che la Gentiloni saranno le tecnologie a rovesciare gli equilibri

Quali regole per la televisione nell’era digitale e di Internet? Il duopolio Rai-Mediaset è il segno del fallimento del mercato televisivo in Italia o solo la faccia italiana di una tendenza mondiale alla concentrazione nel mercato dell’entertainment? Il tetto del 45% alla raccolta pubblicitaria di Mediaset
è una misura pro-competitiva o la tagliola di uno Stato dirigista? Ha ancora senso parlare di servizio pubblico e se sì, quale può essere? La Rai è riformabile o va privatizzata e basta? Su questi temi il Corriere delle Comunicazioni e Thinktel hanno chiamato al confronto tre esperti: Franco Debenedetti,
fresco autore di un libro sul tema, Sandro Curzi, consigliere di amministrazione della Rai e Carlo Maria Guerci, vicepresidente Thinktel.

DEBENEDETTI. “Voglio essere netto: le ragioni che hanno portato al disegno di legge Gentiloni sono eminentemente politiche. Non si capisce altrimenti un provvedimento così dirigistico e antimer­cato. Si impone a Mediaset di rinunciare al 25% del proprio fatturato, un fatturato raggiunto competendo sul mercato e non con acquisizioni, e impedendole di com­petere alla pari con la Rai. È una legge “ad aziendam”. I riferimenti al break up di AT&T non c’entrano nulla. E non solo perché in quel caso è stato un giudice a ordinarlo dopo un lungo processo e non un Governo con una legge..

CURZI. Il controllo antitrust è una delle condizioni fondamentali del libe­ro mercato. Senza entrare nel merito del modo in cui le concentrazioni monopoli­stiche si sono storicamente determinate – e di come si è determinata quella della televisione commerciale e della raccolta pubblicitaria nel nostro Paese – si tratta di una questione elementare di funzionamento del mercato e, insieme, di democrazia. Non solo economica.

GUERCI. Non sono le quote di mercato che fanno concorrenza, si veda Airbus e Boeing. La concorrenza Rai-Mediaset è piuttosto tradizionale e su prodotti simili. Sky mostra che c’è una ricerca di qualcosa di diverso. Le nuove tecnologie faranno scoppiare questa voglia di nuovo ancora inespressa dal mercato. Non è irrilevante come si formano le concentrazioni: se avvengono nel mercato, conquistando quote in base a efficienza e consenso dei consumatori, hanno impatto benefico. Sono la vera anima della vera concorrenza.

DEBENEDETTI. La Gentiloni è una soluzione sbagliata ad un falso problema. L’Italia è l’unico Paese con una TV pubblica con tre canali generalisti pagati da canone e pubblicità. È questa l’anomalia! È noto che nell’ambito dei programmi di intrattenimento, soprattutto quando la tecnologia, come quella televisiva, ne facilita la riproducibilità, i consumatori esprimono una domanda che tende a fare emergere delle star. Per questo nell’industria dell’entertainment si affermano un numero limitato di imprese leader , in grado di attrarre un’elevata audience. Anche il fatto che i costi per acquisire i talenti sono costi irrecuperabili. porta a una naturale concentrazione del mercato.

CURZI. Gli scenari del futuro non possono far dimenticare che il “mercato” non deve essere distorto né da uno Stato statalista né dalla legge della giungla, del più forte, del più prepotente, del più protetto, del più intrigato con il potere. In materia di televisione si toccano questioni democraticamente assai sensibili come la comunicazione e l’informazione. Nessun casus belli, ma l’esigenza di promuovere un mercato veramente libero, pluralista, non strozzato da monopoli od oligopoli, e tutela di un presidio di “servizio pubblico” non residuale, che sappia confrontarsi sul mercato, puntando e sostenendo qualità e valori.

GUERCI. Il problema della concentrazione della pubblicità televisiva esiste, ma la differenza devono farla il mercato ed eventualmente politiche di incentivo e disincentivo, non cervellotici tetti dirigistici. In realtà, non stiamo parlando di regole di mercato ma di manovre politiche.

DEBENEDETTI. Le imprese si fanno concorrenza non sulla pubblicità ma sull’audience: esistono diversi modelli di business per raggiungerla. C’è la tv generalista con solo ricavi pubblicitari. C’è la RAI, canone più pubblicità. C’è Sky, abbonamento e pubblicità. Ma la Gentiloni prende di mira solo le entrate pubblicitarie e quindi arbitrariamente penalizza un solo modello: quello di Mediaset. Il diritto antitrust ha da tempo adottato il modello dei mercati a due versanti per regolare i casi di concorrenza tra piattaforme. La legge Gentiloni invece va rozzamente al suo obbiettivo: un taglio netto e via!

CURZI. Il servizio pubblico è la Rai di proprietà pubblica. È una boutade parlare di “servizio pubblico” per una Tv privata e commerciale. Non è la molta o la poca audience – e nemmeno il genere in quanto tale (l’informazione, la cultura, l’intrattenimento, ecc.) – che distingue un programma di servizio pubblico da un altro o che legittima il canone, cosa peraltro un po’ diversa dal finanziamento statale, quanto la sua qualità. È la qualità che lo Stato ha interesse a promuovere, a premiare, a incoraggiare nella Tv, nella comunicazione, nel cinema con l’obiettivo di innestare e rafforzare nei singoli settori di attività e segmenti del mercato meccanismi virtuosi di concorrenza e di emulazione da cui tutta la società ha da guadagnare. In termini culturali, economici e di sviluppo della democrazia.

DEBENEDETTI. E perché mai la qua­lifica di un servizio discenderebbe dalla proprietà, pubblica o privata, di chi lo eroga? Le TV private contribuiscono al pluralismo: svolgono un servizio pub­blico, o no? Perché la qualità si avrebbe solo se è pagata con le tasse prelevate dai cittadini e non con le scelte libere degli spettatori? Se un programma o una Tv non hanno audience, perché spendere soldi pubblici? Per produrre programmi culturali che il mercato da solo non pa­gherebbe, bastano cifre che non hanno paragone con quelle erogate alla RAI. Dietro lo schermo del servizio pubblico e della qualità ci sono le barricate per im­pedire la privatizzazione della Rai. Si era parlato di “disarmo controllato”, cessioni di una rete per parte di Rai e Mediaset. La Gasparri prevede cessione di quote di tutta la RAI. Io credo che lo Stato dovrebbe uscire dalla TV del tutto. Ma non avverrà. Usigrai e politica non lo permetteranno mai. Si porrebbero immediatamente i temi dell’efficienza della gestione, del numero dei giornalisti. E ci si straccerebbe le vesti sulla perduta identità della Rai.

CURZI. Non sono sempre d’accordo con l’Usigrai, ma mi pare che essa faccia egregiamente il suo mestiere di sindacato e di tutela dei legittimi interessi dei suoi iscritti, i giornalisti Rai. Non credo che qualcuno eviti di privatizzare la Rai per le barricate che farebbero l’Usigrai o l’Adrai, il sindacato non meno importante dei dirigenti Rai, o anche le confederazioni sindacali cui fanno capo le altre categorie
di lavoratori. Non c’è bisogno della privatizzazione per mettere in luce tutte le inefficienze della Rai: è ormai una vulgata nazionale la sequela di inefficienze, inadeguatezze e misfatti della Rai. Semmai, a non essere messe correttamente in luce sono le risorse professionali, le virtù, i talenti e i successi della Rai. È un po’ lo sport nazionale più diffuso parlare male della Rai. Che in parte lo merita. Ma, in parte, i suoi guai – per lo più combinati dai partiti – sono enfatizzati. Spesso su giornali di proprietà di imprenditori che vorrebbero mettere le mani su qualche rete Rai. Magari a prezzi stracciati.

GUERCI. Stiamo discutendo con lo sguardo rivolto al passato. Fra poco cambierà tutto. E non mi riferisco all’arrivo del digitale terrestre. Penso al fenomeno Internet al suo impatto dirompente sul business televisivo. In Gran Bretagna la pubblicità on-line – che guida alla fine il mercato – ha raggiunto il 14%. Lo sviluppo di Internet e il decollo dei nuovi servizi di video online si porteranno dietro la pubblicità: la legge Gentiloni si svuoterà da sola: sarà il mercato ad erodere i tetti della pubblicità. Ci stiamo preoccupando di scenari di breve termine, cose moribonde. Certo, esiste il problema di trovare gli investimenti necessari allo sviluppo delle infrastrutture a larga banda necessarie per i nuovi servizi. Non saranno né video né IPTV a pagarli. C’è bisogno che nascano business diversi, legati alle necessità delle aziende e della vita di ciascuno di noi.

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