Intervista a Franco Debenedetti
Cosa c’è dietro il muso duro di Marchionne a Melfi
I riformisti un po’ spiazzati dalla Fiat che corre sulle relazioni industriali
Ma c’è del metodo dietro il pugno di ferro di Sergio Marchionne? Oppure il manager italo-canadese, a forza di azioni dimostrative, farà vittime soprattutto tra chi, nel sindacato, nei partiti e pure nel governo, vuol collaborare al successo di Fabbrica Italia? Domande legittime dopo che, alle 13 e trenta di ieri, è ufficialmente iniziato l’autunno caldo dell’industria italiana.
Incurante degli appelli lanciati da Raffaele Bonanni, il leader sindacale a lui più vicino, e condivisi dal ministro del Welfare Maurizio Sacconi, Marchionne non ha rinunciato alla linea dura: quando i tre operai Fiat di Melfi licenziati dall’azienda ma reintegrati dal giudice hanno varcato i tornelli dello stabilimento (scortati da un legale e da un ufficiale giudiziario) sono stati fermati prima di accedere alle linee di montaggio. In attesa i tre dell’appello del 7 ottobre i tre sindacalisti (Giovanni Barozzino, Antonio Lamorte e Marco Pignatelli) avranno accesso alla “saletta sindacale” e percepiranno lo stipendio. Ma alla linea di montaggio, quella che ad aprile fermarono ricorrendo al blocco dei carrelli per non consentire il lavoro degli operai che non scioperavano (atto di sabotaggio che merita il licenziamento, secondo la Fiat) non potranno nemmeno avvicinarsi, nonostante la pronuncia del giudice del lavoro. La Fiat, insomma, contro il parere di Bonanni, sembra aver deciso di “rincorrere la Fiom”, con l’effetto, come aveva anticipato con preoccupazione lo stesso Pietro Ichino, giuslavorista principe del mondo riformista, sul “Corriere della Sera”, di “inasprire ulteriormente lo scontro, dopo la scelta del licenziamento in un caso in cui avrebbe potuto adottarsi anche un provvedimento disciplinare”. Con un risultato scontato: “Cisl e Uil, che in questa vicenda appoggiano il piano industriale di Marchionne sono messe in difficoltà”. Intanto la Fiom incassa la solidarietà, scontata, di Antonio Di Pietro e Maurizio Zipponi, responsabile lavoro dell’Idv, contro “l’idea medievale del diritto di Marchionne” ma anche quella del Pd che, probabilmente per evitare di esser scavalcato a sinistra fa la voce grossa:”la Fiat del dopo Cristo – dice il responsabile economico Stefano Pessina – vuol negare la dignità del lavoro”. E sull’onda di queste emozioni la Fiom promette denunce penali e una lettera aperta a Giorgio Napolitano, per ottenere una giustizia rapida.
I timori di Debenedetti e Rossi
Insomma, non sarà che Marchionne l’americano sia caduto in quel di Melfi in una trappola che peserà sul futuro Fiat in Italia, a partire da Pomigliano? “Melfi e Pomigliano sono due partite distinte – risponde Franco Debenedetti, ex senatore dei ds che alle spalle ha tra l’altro una lunga esperienza in Fiat – A Melfi si gioca secondo le vecchie regole, quelle delle contrapposizioni rigide cui siamo stati abituati da quarant’anni a questa parte mentre a Pomigliano si cerca di creare un sistema di relazioni industriali per ottenere maggiori produttività e quindi maggiori guadagni per lavoratori e imprese. E la chiave di volta è che l’accordo siglato dai sindacati e approvato dai lavoratori, deve valere per tutti. La domanda vera è: il pugno di ferro a Melfi aiuta l’accordo Pomigliano? La risposta è lecito dubitarne”. Ma allora l’ad di Fiat ha commesso un grosso errore. “C’è un’ipotesi più pessimista: Marchionne potrebbe aver pensato che la partita di Pomigliano è comunque persa. Per aver successo, infatti, l’intesa dovrebbe essere sottoscritta dalla Fiom, che non ci pensa proprio. Oppure ci vorrebbe una legge, che il governo non intende fare. Di qui, mi vien da pensare, Marchionne potrebbe aver deciso che tanto vale tener duro nelle altre fabbriche”.
Marchionne come Machiavelli?
Nicola Rossi, economista, altra testa fine (e spesso inascoltata) dell’ala riformista, non ci crede. “Marchionne può dar l’impressione di seguire una tattica precisa. Ma in realtà è costretto pure lui a subire gli eventi – dice – A suo tempo, diciamo dieci anni avremmo avuto la possibilità di governare il cambiamento. Ma non l’abbiamo fatto. E così osserviamo da lontano le esperienze americane e tedesche che, complice una politica debole, non riusciamo ad importare”. Ichino, per la verità, nutre più speranze: è ancora possibile adeguare il nostro sistema delle relazioni industriali agli standard dell’Occidente industrializzato. “Mi auguro che Pietro abbia ragione – obietta Rossi – Ma una cosa è sicura: ormai non abbiamo più a disposizione, per cambiare, anni o mesi. Anche il tempo è diventato una risorsa limitata”. Anche questo spiega la politica delle “spallate” cui ci dobbiamo abituare ai tempi di Marchionne.
agosto 24, 2010