Mentre i giornali devono ricorrere alla grafica perché i lettori riescano ad orizzontarsi tra le varie “lenzuolate” di liberalizzazioni, rischia di non ricevere adeguata attenzione una iniziativa che, per quanto è dato saperne, sembra andare in una direzione diametralmente opposta. Mentre Bersani e Rutelli, in santa e meritoria concorrenza, propongono misure volte ad eliminare l’ingerenza dello Stato nelle attività di barbieri e benzinai, nella vendita di giornali e di assicurazioni, promettono di restituirci libertà anche leggere, quali lo sceglierci la targa della nostra automobile, martedì scorso il Governo ha dato vita a una iniziativa assai pesante, che sembra trasportarci agli anni della pianificazione, ai non rimpianti tempi delle partecipazioni statali. A Milano, officiante il Ministro dell’Economia in persona, si è tenuto a battesimo F2I Sgr, Fondo Italiano per le Infrastrutture.
Di tutto peso i padrini: il pubblico con la Cassa Depositi e Prestiti; il privato con le due maggiori banche italiane e le più prestigiose banche estere; il tertium genus, le grandi Fondazioni; e la Cassa dei Geometri. Ricca la dote: un miliardo di euro iniziale, destinato probabilmente a raddoppiare, e la possibilità di mobilitare capitali con una leva finanziaria fino a sette volte. Esperte le mani a cui verrà affidato: Salvatore Rebecchini, ex presidente della Cassa Depositi e Prestiti, che è un mercatista sincero; Vito Gamberale, ex amministratore di Autostrade (e, prima, di Tim).
Il fondo, apprendiamo, finanzierà investimenti in infrastrutture italiane con un tasso di rendimento un po’ sotto la media del mercato e non in ottica di breve termine. Qui nasce il primo interrogativo: perché banche private dovrebbero bloccare capitale loro e Fondazioni patrimoni loro affidati, per 15-20 anni, a un tasso inferiore al mercato? Il mondo nuota in un mare di liquidità, si cercano investimenti con cash flow sicuri quali sono le infrastrutture: perché spiazzare il mercato internazionale con tassi “un po’ sotto la media”? Forse, si è per un momento ottimisticamente supposto, tutta l’operazione mira a portare poste di bilancio “sotto la riga”, ed è strutturata in modo da evitare le sanzioni di Bruxelles; oppure serve a sistemare Terna e Snam senza incorrere in quelle dell’Antitrust. In questo caso, ci sarebbe da star tranquilli, ci penserebbe Giuseppe Guzzetti – leader delle Fondazioni dell’Acri – a vigilare perché il servizio reso sia adeguatamente remunerato, e il patrimonio delle Fondazioni preservato.
Ma poi si legge che il fondo prenderà partecipazioni, maggioritarie o comunque di controllo, in un elenco di settori in cui c’é praticamente tutto: trasporti, elettricità, gas, aeroporti, telecomunicazioni, energie rinnovabili, ospedali, scuole. Non mancano neppure le prigioni. Il Tesoro avrà il ruolo di indicare i settori prioritari, il fondo quello di individuare gli investimenti. E allora si capisce che il riferimento non è al passato prossimo del tremontismo, ma a un passato remoto e che si sperava sepolto: il paradigma culturale della programmazione anni ’70, e una pervasività quale neppure aveva l’Iri della prima presidenza Prodi. E si è sorpresi dal dubbio se l’amministratore delegato sia stato scelto per la sua passata esperienza in Autostrade o nella telefonia; o addirittura nella prospettiva di indirizzare gli stessi settori industriali ad esiti diversi da quelli che ha vissuto.
Si rimane perplessi di fronte agli aspetti industriali e finanziari dell’iniziativa così fuori tempo rispetto a ciò che avviene in Italia e nel mondo. Ma si rimane interdetti di fronte agli aspetti politici: è per mancanza di senso di opportunità o per eccesso di senso di onnipotenza che il Governo avvia un programma neostatalista in contemporanea con il tanto atteso piano di liberalizzazione?
Il Governo non si faccia trarre in inganno dall’aria di controriforma che circola nel Paese sul tema privatizzazioni. E’ vero, più ancora della brutta vicenda di Di Pietro con Autostrade, le giustificazioni che ne sono state date hanno iniettato tossine stataliste nell’opinione pubblica. Le recenti vicende giudiziarie intorno a Telecom vengono addebitate – non si sa con quale logica – a una privatizzazione che – non si capisce perché – invece di essere considerata un capolavoro viene ancora criticata. Ma criticare è un conto, mettere indietro l’orologio un altro. Forse il piano Rovati era solo un banale incidente: ma a maggior ragione a Palazzo Chigi si dovrebbe riflettere sull’ampiezza delle reazioni che ha suscitato e al prezzo politico che per questo ha dovuto pagare.
Sono in corso movimenti importanti nei piani alti del nostro sistema economico: in alcuni di essi l’opinione pubblica scorge riferimenti politici precisi. Il centrosinistra ha usato per 15 anni l’arma del conflitto di interessi, dell’intreccio tra potere economico e potere politico, contro Silvio Berlusconi e Forza Italia. Cadrebbe in una evidente contraddizione se cedesse alla tentazione di coltivare rapporti e di stringere legami con il potere economico, o per estendere il proprio potere o per ottenerne sostegno. Una contraddizione che potrebbe costare cara.
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