Sorry, I don’t have a dream

marzo 1, 2002


Pubblicato In: Giornali, Panorama


Sì, siamo cambiati, come partito. E talvolta il cambiamento può essere doloroso

“Sì, siamo cambiati, come partito. E talvolta il cambiamento può essere doloroso. Ma siamo più forti, non più deboli, perché siamo cambiati. E per buone ragioni. Non siamo diventati il partito della competenza economica per impressionare le grandi aziende. Ma perché conoscere il mercato è la precondizione della giustizia sociale, e le vittime della disoccupazione sono lavoratori ordinari. […]. Le nostre politiche sono cambiate. I valori no: valori per cui vale la pena di combattere e governare”.

A questo ho pensato ascoltando i resoconti dell’incontro di Fassino con gli intellettuali a S. Michele in Roma. A questo ho pensato ascoltando per radio il boato dei 40 mila del Palavobis di Milano. Alle parole con cui il 22 febbraio Tony Blair ha concluso la conferenza del Labour scozzese.

“Ma qui da noi c’è Berlusconi, di che Blair vai parlando”? E’ questa l’obiezione di molti a sinistra che guardano con speranza al bombardamento contro il quartier generale che intellettuali, manipulitisti, cofferatiani, e, tra poco, c’è da scommetterlo, no global, hanno scatenato contro una classe dirigente dell’Ulivo accusata di infiacchita mollezza nella lotta al “regime”. “E piantala, ma chi è il nemico, Berlusconi o l’Unità?”, mi chiedono con una certa insistenza, quando cerco di difendere le ragioni di una sinistra di governo, contro chi indica la via delle piazze, nega di aver perso le elezioni, accusa e deride ormai apertamente il Capo dello Stato di essere un novello Facta.

Chiarezza per chiarezza, con questa sinistra i riformisti non sentono di avere molto in comune. Dimentica che abbiamo perso proprio perché eravamo alleati a Di Pietro e Bertinotti, e ci siamo divisi perché gli obiettivi erano diversi, checché ne dica oggi Fabio Mussi. Propone ostruzionismo e manifestazioni di piazza, convinta di liberare l’Italia dalla “malapolitica”.

Mentre la sinistra riformista è convinta che quella della maggioranza sia una cattiva politica, non “il male”. E’ la differenza tra chi guarda alla città di Dio e chi si contenta di lavorare per la città dell’uomo, tra chi preferisce la scorciatoia della spada alla prudenza del libro, tra chi si tira su le maniche di fronte alle sconfitte e chi si mette, come diceva Nenni che se ne intendeva, a fare il puro più puro che epura gli impuri dalle proprie file. Fassino e Rutelli sembrano convinti di poter tenere tutto insieme, Palavobis e riformismo, no global e artigiani di sinistra della Cna che col cavolo hanno seguito Cofferati nel buttare per aria il tavolo e proclamare lo sciopero generale.

Posso anche comprenderli. Ma la loro è un’illusione. La stessa, generosa, di Filippo Turati. Che dopo dieci anni di congressi proteso a rincorrerli finì espulso dai massimalisti: nell’ottobre del 1922, guarda caso, faccio notare a chi parla di regime.
Quindi, io no. Nell’illusione, non li seguo. Rivendico il diritto di votare no all’attuale maggioranza, ma lavorando per una sinistra che creda nelle cose di cui parla Tony Blair, e che cerchi di convincerne gli italiani. Lui aveva 25 anni quando la Thatcher vinse le elezioni. Io un po’ di più. Ma non dispero. Dei fuochi massimalisti, è lastricata da un secolo la via delle sconfitte della sinistra.

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