di Filippo Ceccarelli
Le parole, le immagini, i titoli dei libri non arrivano mai per caso, e se rimbalzano proseguendo e replicandosi nel tempo, nello spazio e nelle relazioni vuol dire che davvero sono in grado di aprire spiragli di verità, non di rado oscura e fuggevole perché scomoda e anche dolorosa. Così nel marzo del 2006, poco prima di quelle elezioni che furono il più classico dei pareggi, ma che la sinistra si sforzò di considerare come una mezza vittoria uscì per Laterza un impietoso ritratto dell’allora già disastrata classe dirigente dell’Ulivo, così come veniva fuori dagli articoli di quel magnifico giornalista e direttore che fu Claudio Rinaldi. Un’antologia di figuracce e cantonate dei leader della sinistra, dalla “gioiosa macchina da guerra” ai fasti dell’Unipol, e che di conseguenza Rinaldi volle intitolare: I sinistrati.
Ecco. Di lì a un paio d’anni, per l’esattezza all’indomani delle elezioni della primavera scorsa, il sinistro, vale la dire l’accidente, la sciagura, la disgrazia di quel mondo si è fatta ancora più evidente, conclamata, maiuscola. E Sinistrati s’intitola la “storia sentimentale di una catastrofe politica” che Edmondo Berselli ha scritto per Mondadori (pagg. 208 pagine, euro 17, dal 4 novembre), secondo la felice e sperimentata formula del cabaret sull’orlo del baratro e il piglio degno del moralista che non se la sente di fare la morale ad alcuno, tanto è inutile, l’importante semmai è smettere per un attimo di fare i cinici, i furbi e i vanagloriosi, sempre che sia umano e possibile – conveniente, in politica, no di certo. Ecco dunque un pamphlet spietato e onesto, beffardo, tenero e per certi versi anche costruttivo, fin dal primo capoverso: «Dopo che ci è arrivato addosso il tram, in quel fatale e crudelissimo mese d’aprile, ci abbiamo messo un po’di tempo per capire che cosa era successo. Sulle prime siamo rimasti seduti fra le rotaie, frastornati. Poco dopo ci siamo rialzati, non ancora del tutto coscienti.
Poi ci siamo spolverati i pantaloni a testa bassa, poi lentamente ci siamo avviati verso casa stringendo i denti, cercando di mostrare un atteggiamento disinvolto e indifferente, come Fantozzi dopo una martellata sulle dita, e sperando che la gente intorno non ridesse». Persa per persa, lascia intendere Berselli, tanto vale scherzarci sopra, ma da sinistra. Mitologie, fissazioni, tic, gente che ancora si prende troppo sul serio, sondaggisti che pochi giorni dal voto preavvertivano movimenti nella pancia profonda del paese, dabbenaggini, stravaganze e superbe ingenuità tipo l’sms spedito da Franceschini ad Arturo Parisi, che ancora lo conserva nel suo telefonino, il pomeriggio della disfatta: «Ce la stiamo facendo». Oh, vanità delle vanità rileggere le magagne del centro sinistra pittorescamente lanciato verso il suo stesso inesorabile disastro. Il “fattore C.” di Prodi, di cui sono qui delineate le origini e il selvaggio utilizzo a tinte mitico-magiche. Le grevi civetterie mondane di Bertinotti. Le velleità “romanzieresche” di Veltroni, “funambolo dei sospiri”. La sicurezza di D’Alema «che non crede più in niente tranne in ciò che al momento pensa lui». Nomi e cognomi a iosa – ed è impossibile non pensare alle facce dei protagonisti quando leggeranno questo che non è un sketch di Crozza, ma il libro di un illustre politologo, fino a ieri direttore de Il Mulino; un commentatore obbligato, come diversi altri in questo tempo, a cogliere e a concentrarsi sul grottesco dominante nella vita pubblica italiana, a mettere in parodia i cattivi esempi, i luoghi comuni, le deformazioni culturali, la sfilata di maschere, l’intreccio senza ritorno di arcaismi e tecnologie, il chiaro disegno economico post-corporativo del centrodestra, il conseguente spappolamento sociale, a parte le indispensabili miserie della politica e le perenni male arti del potere. In questo panorama, di suo già pieno di macerie, si staglia la nuova e pittoresca inadeguatezza della sinistra. Tanto più acuminato quanto più discorsivo, il racconto rintraccia le cause di questo esito nella rapida erosione delle culture politiche e ricostruisce la fine degli amati-odiati partiti di massa.
Insieme e attraverso il ritratto dei nuovi protagonisti quali Berlusconi, Fini, Bossi, il quale piacevolmente designò l’ex alleato Casini come un “carugnit de l’oratori”, viene fuori una preziosa storia disincantata della Seconda Repubblica, o Terza che sia. Certo fra I sinistrati del profetico Rinaldi e Sinistrati del corrosivo Berselli, la caduta dell’articolo indica un che d’irrevocabilmente compiuto, il ground zero di una antica e nobile vicenda che ormai ha dato tutto ciò che poteva dare. Ma adesso? Beh, resta da dire che la descrizione della nascita, come della breve vita infelice del Partito democratico, con congressi ds e Margherita conclusi al suono delle canzoni di Rino Gaetano e Caterina Caselli, sfiora la più simpatetica crudeltà e l’amaro dileggio da parte di chi, pur con tutti i dubbi del caso, non ce l’ha fatta proprio a farsi incantare dall’euforia artificiale del nuovo riformismo europeo, dalla retorica delle grandi tradizioni che finalmente si ritrovano in un unico soggetto eccetera, per non dire i caroselli e i giochi d’artificio sulle varie carte dei saggi, i manifesti etici e i Pantheon elaborati a forza di ghost-writer. L’appartenenza affettiva a quel mondo consente un giudizio più netto, senza lo schermo dell’autolesionismo. Deludente fusione a freddo è stata, quella del Pd. Per giunta priva di messaggio, che non fosse «una tonalità intellettuale, una sfumatura emotiva, un intero spettro di nuances sentimentali». Il dubbio è che tuttora si tratti di una forza politica “fuori dal mondo”, un “partito ipotetico”. Uscito di scena Prodi, il gruppo dirigente democratico ha affrontato le elezioni come un “gioco d’azzardo”. E alla prova delle urne lo schema di Veltroni, pure rapito dall’incantesimo del Cavaliere, si è risolto in un tragicomico paradosso: «L’operazione è riuscita, ma il paziente è morto». Non solo, ma a questo punto «per giorni e settimane Walter si è trastullato con i decimali e con la confortante, per quanto oggettivamente strampalata, idea di aver vinto o quasi le elezioni e di essere al governo insieme a Berlusconi». Ovvio che adesso tutto si potrà fare meno che guardarsi alle spalle. Non salveranno la sinistra le vecchie zie, né le nonne che ormai perseguono un’etica da fiction, dicono “autostima” e parlano come la tv. «La prima cosa che la sinistra deve fare – azzarda Berselli avviandosi allegramente sconfortato alla conclusione – è imparare a dire la verità. Il che non è semplice perché la sinistra crede di essere la verità e quindi non sente il bisogno di dirla». E sembra di riascoltare il grido del Circo Massimo: «Siamo due milioni e mezzo». Ecco, magari molti, molti di meno, comunque sinistrati, anzi sinistratissimi.
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ottobre 31, 2008