È diventato un luogo comune contrapporre la performance delle aziende italiane, l’andamento della cosiddetta economia reale, a quello degli indicatori macroeconomici della nostra economia, in primo luogo l’andamento del cambio e il differenziale dei tassi di interesse.
Conviene tuttavia aver sempre presente la natura assolutamente eccezionale delle circostanze che hanno reso possibile la vigorosa ripresa dell’attività industriale: sul lato internazionale, una vivace congiuntura in una situazione non inflazionistica e, sul lato interno, la dinamica salariale bloccata dagli accordi del ’93 e del ‘94. Situazione quasi unica, irripetibile che dovrebbe essere accompagnata da una manovra economica energica atta a invertire l’andamento del rapporto debito/PIL, e quindi a ridurre il costo del debito pubblico e di conseguenza anche il costo del capitale per le imprese. Invece si è dato spazio alla rissa politica, o, nel linguaggio asettico del Governatore Fazio, ai “fattori generali di ordine metaeconomico, in parte irrazionali, che influiscono sulle aspettative di cambio e sui comportamenti degli operatori”.
La Banca d’Italia ha constatato che “gli investimenti in impianti e attrezzature sono sensibilmente inferiori a quelli prevedibili in base all’andamento della produzione e dei profitti realizzati dalle imprese” e che “elementi di incertezza hanno probabilmente trattenuto anche gli imprenditori dall’accrescere la capacità produttiva, nell’attesa di nuove e migliori prospettive”. Cioè le eccezionali circostanze di questa ripresa non solo non sono state utilizzate per produrre modifiche strutturali sul lato della finanza pubblica ma verosimilmente non avranno avuto conseguenze su alcune caratteristiche del sistema delle imprese italiane, strutturali anch’esse e che conviene richiamare.
Che l’Italia manchi di grandi imprese a livello internazionale è cosa risaputa: meno noto è che si sta aggravando la sottorappresentazione delle grandi imprese italiane rispetto al peso dell’Italia nell’economia internazionale in termini di prodotto e di interscambio. Dal 1966 al 1992 il numero delle imprese italiane tra le prime 200 società non statunitensi del mondo è passato da 7 a 6 (quelle private da 5 a 4). Nel 1966 il loro fatturato era il 5,3% del fatturato totale delle 200 società, mentre il PIL italiano era il 5,1% del PIL complessivo delle nazioni del G7; nel 1992 il fatturato era il 6% di quello delle 200 società, ma il PIL italiano ammontava al 7,8% di quello delle nazioni del G7. Dunque, mentre l’Italia ha mostrato un aumento del reddito prodotto secondo solo a quello del Giappone, si è avuto, anziché un’espansione, un impoverimento relativo delle grandi imprese. Anche l’analisi per numero di addetti conferma l’assoluta preponderanza delle micro-imprese e la scarsità relativa di quelle medio-grandi: a fronte del 24,8% della manodopera tedesca impiegata in società con meno di 10 addetti, in Italia si ha il 42,8%; a fronte del 34,3% di occupati tedeschi in imprese con non meno di 500 addetti, in Italia si ha il 18,5%. A queste peculiarità nella distribuzione dimensionale delle imprese è indubbiamente correlata la notoria assenza dell’Italia da alcuni settori industriali ad alto contenuto tecnologico e la scarsa propensione all’innovazione di prodotto. É in atto una tendenza regressiva di lungo periodo del nostro sistema industriale: le produzioni italiane sono squilibrate a favore dei prodotti industriali tradizionali; le piccole imprese non riescono a diventare grandi. I brillanti risultati del nostro sistema industriale nel 1994 e, sperabilmente anche nel 1995, saranno impiegati a correggere le debolezze strutturali del nostro sistema, a rimuovere le cause che hanno prodotto la peculiarità italiana?
Perché un sistema industriale si sviluppi al massimo della sua potenzialità, è necessario che le risorse finanziarie vengano applicate alle iniziative con maggiori possibilità di successo: la peculiarità della struttura industriale italiana rimanda dunque all’analoga peculiarità delle strutture finanziarie. E questa la tesi di De Cecco e Ferri (“Origini e natura speciale dell’attività di banca d’affari in Italia”, edito dalla Banca d’Italia, da cui sono tratti anche i dati sopra riportati): “la stranezza del corporate finance nel nostro Paese ha permesso ad una quantità di aspetti deboli delle imprese italiane di conservarsi assai più a lungo del dovuto”. Non si deve cioè lamentare un’insufficienza di credito disponibile per le aziende, ma piuttosto di qualità dei servizi finanziari offerti, dovuti a mancata sinergia tra banche e imprese. Mentre il sistema della Hausbank consente di instaurare un rapporto di tipo fiduciario, basato su una profonda conoscenza delle situazioni interne delle imprese, e quindi il proficuo fondersi delle professionalità, di imprenditori e banchieri, in Italia le banche sono disposte a concedere credito in maniera abbondante a fronte di garanzie reali, il credito viene suddiviso con criteri assicurativi, le aziende sono propense a cambiare l’intera gamma delle proprie relazioni di credito. Quindi non si investe, né da parte delle imprese né da parte delle banche, nella creazione di un rapporto fiduciario di lunga durata.
Secondo i due studiosi, l’origine del fenomeno è da ricercarsi nella legge bancaria del 1936 che separava le funzioni di banca di credito ordinario da quelle di credito industriale, ed in particolare al fatto che Mediobanca, anziché essere il complemento delle attività della sola Comit (come era nel progetto originario di Mattioli), sia diventata un’istituzione di proprietà comune delle tre banche di interesse nazionale.
Essendo queste in concorrenza tra di loro, era illusorio pretendere che mettessero Mediobanca a parte delle informazioni che giornalmente ricevevano dai propri clienti.
Sempre alla mancanza di rapporti di tipo fiduciario è da scrivere il fatto che le banche italiane non svolgano il ruolo, riconosciuto alle banche tedesche, di intervenire nella delicatissima fase di riallocazione proprietaria; funzione che Mediobanca ha sì svolto, ma solo nei riguardi delle imprese maggiori; sicché in molti casi questo sistema finanziario, sempre secondo i due studiosi, “ha assicurato la sopravvivenza degli imprenditori e dei loro patrimoni personali assai meglio di quanto ha assicurato la sopravvivenza e, in particolare, la crescita delle imprese”. L’Italia ha conosciuto negli anni 50 e 60, un periodo di crescita eccezionale, che non a torto è stato chiamato “miracolo italiano”: oggi ci sarebbero le condizioni esterne perchè un analogo miracolo si ripeta. Ma i miracoli non avvengono se sono solo invocati come slogan elettorali, ancor meno se poi si dà luogo ad un clima di rissa e di improvvisazioni, quali ci ha fatto conoscere l’ultimo Governo.
È ovviamente necessaria una gestione più seria della finanza pubblica che valga a ristabilire fiducia internazionale nella nostra economia e nella nostra moneta. Ma solo sciogliendo il nodo della intermediazione finanziaria sarà possibile far sì che il dinamismo delle nostre imprese produca non solo maggiori profitti, ma faccia evolvere il sistema delle imprese in modo da invertire la tendenza regressiva di cui si parlava.
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febbraio 5, 1995