All’inizio la denuncia del pericolo di trovarsi in un «regime», il paragonare Berlusconi ad Arturo Ui, descrivere il suo governo come fascista o nazista erano un espediente retorico.
Ma poiché «sottile è la linea che separa il resistente dal retore» come scrive Adriano Sofri, e le parole pesano, a un certo punto l’indignazione per il regime si saldò con l’osservazione che in Italia Berlusconi ha raccolto solo il 45% dei consensi, ne dedusse che il 55% gli era contrario, sognò una «santa alleanza» per batterlo.
Il ragionamento ha una presa crescente in queste settimane, e testimonia la crisi della leadership della sinistra prima di ogni altra cosa. Professori e autoconvocati, minoranza interna diessina e riottosi della sinistra dell’Ulivo, hanno trovato l’unità sulla linea della piazza perché essa sconfessa cinque anni di governo del centrosinistra, e chi oggi, alla testa dei Ds e dell’Ulivo, ne porta l’eredità. Ma c’è un fatto nuovo.
La legge sul conflitto di interesse che Berlusconi sta facendo approvare sembra offrire alla «santa alleanza» un’iniziativa che non passa più per la lenta costruzione di un’alternativa di governo. E che teoricamente consente la somma di tutti gli avversari di Berlusconi, comunque la pensino sulle cose da fare dopo averlo eventualmente sconfitto.
Il referendum abrogativo. «La via preferita – scrive Augusto Minzolini – da tutti gli schieramenti in crisi». Ma quale prospettiva politica aprirebbe? I sostenitori stessi della proposta, in realtà timorosi del precedente referendario che vide gli italiani esprimersi in tre quesiti a favore delle tv di Berlusconi, stanno pensando a un vero e proprio «pacchetto» di quesiti.
Oltre al conflitto d’interessi, giustizia, articolo 18, magari scudo fiscale. Se il centro sinistra vincesse questa prova referendaria, d’attacco su tutti i maggiori provvedimenti del governo Berlusconi, il premier ne uscirebbe a pezzi. Se perdesse, alla sinistra non resterebbe che piangere sulle proprie macerie.
È questa la logica terribile del «o la va o la spacca». Non stupisce che ieri le prime valutazioni di Rutelli e Fassino siano state molto prudenti. Si tratta di una strategia di cui le prime vittime sarebbero proprio loro. Qualunque siano le cariche che essi ricoprano, sarebbero i leader della «santa alleanza», non quelli della sinistra di governo, a dettare le danze.
Oggettivamente, negli ultimi due mesi le cose a sinistra sono cambiate. Iniziative che potevano e dovevano essere prese, per dare una risposta alla protesta che montava nella base, oggi non avrebbero successo. Un tappo è saltato, e far rientrare nella lampada il genio che ne è sprigionato non sarà facile. È dunque questo il momento in cui chi non crede nella santa alleanza, deve tentare in Ulivo e Ds una via diversa per sconfiggere Berlusconi.
C’è una sinistra di governo che ha capito come è fatta l’Italia del nuovo millennio, e non l’ha solo fatta «balenare e intravvedere», come scrive Jas Gawronski. Non sono «ipocriti» i delegati che hanno votato la linea riformista che ha vinto al congresso di Pesaro. Questa sinistra di governo vuole davvero meno Stato, ma non per questo crede che un grande Paese come l’Italia possa essere guidato come un’azienda. Sa che è il capitalismo la forma dei rapporti economici in una società democratica: ma sa individuare quale Stato sia necessario per il funzionamento del mondo delle imprese.
Questa sinistra non ha bisogno di eccitare gli sfoghi del Palavobis, perché ha sempre presente che ci vuole una leadership politica per consentire la partecipazione al gioco politico e istituzionale della società civile: di quella che ha votato a sinistra e anche di quella che ha votato a destra. Solo che, realisticamente, la sinistra di governo sta alla sua undicesima ora. Se non proporrà una strada diversa dall’«o la va o la spacca», avranno avuto ragione i leader della santa alleanza.
Perché vorrà dire che chi ha creduto nella sinistra di governo non le ha dato leader all’altezza.
marzo 1, 2002