di Franco Debenedetti e Carlo Stagnaro
La guerra contro Google-Amazon-Facebook-Apple e i rischi della fine dell’“innovazione senza permessi”
Le autorità di regolazione europee vogliono introdurre un nuovo piano per ridurre il potere delle Big Tech. Ma quanto a spaccarle, hanno opinioni diverse: secondo il Financial times del 29 Ottobre, Margrethe Vestager, vice presidente esecutivo dela Commissione europea con incarico sulla Concorrenza e la politica digitale, ha detto ai parlamentari che la separazione strutturale non le pareva “la cosa giusta da fare”. Ma Thierry Breton, commissario europeo per il Mercato interno, le accusa di considerarsi “too big to care”, troppo grandi per curarsi delle loro conseguenze, e suggerisce che debbano essere spezzate. Proprio ieri, intervistato dalla Stampa, ha ribadito le sue critiche e chiesto interventi contro le piattaforme online. Anche negli Stati Uniti, da Donald Trump a Elizabeth Warren, sono in molti a chiederlo. Sarebbe un gravissimo errore.
Intanto, il 16 ottobre la sottocommissione antitrust della commissione Giustizia del Congresso americano ha rilasciato un ponderoso rapporto di 451 pagine. La domanda a cui vuol dare risposta è netta e precisa: Google, Amazon, Facebook, Apple (accomunati nell’acronimo Gafa) sono impegnati in pratiche anticoncorrenziali che le agenzie governative non sono in grado di punire con le leggi attuali? Non si occupa di problemi non legati alla concorrenza, quelli sociali creati dalla tecnologia – fake news, hate speech, ecc. – e neppure di altri settori industriali che presentano analoghi problemi di concorrenza, quali Big Pharma, alimentari, assicurazioni. Purtroppo, tra i problemi sociali creati dalla tecnologia, rimane fuori anche l’uso dei dati per interferenze elettorali. Quegli stessi partiti che accusano i Gafa di ogni male, usano senza ritegno il microtargeting, gli algoritmi per avere un quadro completo di ogni singolo elettore: il Democratic data exchange tra giugno e ottobre avrebbe raccolto oltre un miliardo di punti dati. Alcuni fatti vengono dati per acquisiti: i prezzi sono diminuiti, la produttività cresce, fioriscono nuovi concorrenti, l’occupazione è in aumento, queste aziende piacciono alla maggior parte degli americani.
E poi: è facile dice spezzare, ma i pochi precedenti non sono pertinenti. Il più recente è la separazione tra banche commerciali e banche di investimento imposta dal Glass-Steagall Act del 1933; e abrogato nel 1999, perché finiva per favorire l’opacità dello shadow banking.
Molto citato è il breakup di Standard Oil (1911): ma quello fu il frazionamento orizzontale di un monopolio che le autorità non avevano bloccato al suo formarsi. Nel caso AT&T (1982), l’antitrust aveva chiesto la separazione verticale di Western Electric, che produceva le apparecchiature telefoniche; l’azienda contropropose la separazione orizzontale del mercato, cedendo il traffico telefonico locale alle neocostituite Baby Bell: l’autorità accettò e fu un grande successo. Il processo contro Ibm – accusata di approfittare della sua posizione dominante nei mainframe a danno dei produttori di periferiche – intentato nel 1960, durò anni e costò milioni di dollari a entrambe le part; a risolvere la questione ci pensò il mercato, man mano che i minicomputer della Digital presero a sostituire i mainframe Ibm, i clienti a preferire l’architettura “informatica distribuita” tipo quella di Olivetti, e poi Apple e i personal computer: nel 1982 l’accusa venne ritirata.
Spezzare le aziende tecnologiche separando la piattaforma sottostante dai prodotti e servizi vorrebbe dire distruggere gli ecosistemi che esse hanno costruito, e rendere impossibili i loro modelli di business: Google dovrebbe separare Android da Gmail; Apple Ios da Safari e Siri; Facebook, senza piattaforme dei social media, non potrebbe usare i dati personali per indirizzare gli annunci agli utenti. Per esempio: la funzione luce attivabile sul retro degli iPhone, è una app o fa parte del sistema operativo? Oggi la consideriamo un pezzo del telefono, fino a poco tempo fa bisognava scaricarla dallo store. Quelli su cui operano i social sono mercati a due (o più) versanti: esistono perché facilitano l’incontro tra domanda e offerta (per esempio, aiutano a indirizzare meglio i messaggi pubblicitari). Impedire questo processo, che si alimenta anche dell’offerta di servizi sempre nuovi, significa far venire meno la loro stessa ragion d’essere.
Crescere per fare più profitti è il naturale obiettivo degli imprenditori. I mercati del digitale, con le infinite possibilità di entrata e le molte opportunità di conquistarvi un proprio spazio, con le loro enormi economie di scala e di scopo, sono naturaliter mercati estremamente competitivi. Richiedono che ci sia un adeguato sistema di finanziamento: a fare delle Silicon Valley, quella eponima e le tante ormai sorte nel mondo, luoghi così vibranti di iniziative e di invenzioni è quello che chiamiamo genericamente Venture capital (VC), in realtà un sistema variegato e sofisticato, capace di sostenere e accompagnare le più varie iniziative, con tutti i gradi di rischio, lungo tutte le tappe della crescita. Un percorso che inizia con gli angel e finisce o con la quotazione – le varie Shopify, Tik Tok, Zoom che hanno conquistato un proprio autonomo spazio di mercato –o con l’acquisto da parte di un Big Tech. E’ sempre la prospettiva di monetizzare a far da motore: dell’investito – re che affida i suoi risparmi a un VC di successo, del VC che scova chi ha un’idea promettente, dei giovani che nelle università o nei garage si rompono la testa per farsela venire in mente. Secondo la Mit Technology Review tra il 2006 e il 2019 il numero totale annuo degli accordi VC è aumentato da 3.400 a 12.200, per un valore salito da 30 a 135 miliardi di dollari. Nella sola Silicon Allee di Berlino nasceva, prima della pandemia, una startup ogni 20 minuti.
E’ in questo quadro che va posta la questione del profilo di concorrenza dei Big Tech. Ci sono le acquisizioni di aziende che hanno già il loro potere di mercato: You Tube da parte di Google, Whatsapp e Instagram da parte di Facebook. All’altro estremo ci sono quelle di start up cresciute fino a un certo grado di visibilità. Quanto alle prime, il controllo delle concentrazioni è il mestiere dell’autorità antitrust: spetta a loro stabilire se vi siano rischi e se possano essere controbilanciati da nuove e maggiori efficienze, a vantaggio dei consumatori finali. L’accusa di monopolizzazione ai Gafa è figlia di una definizione molto restrittiva del mercato rilevante (per esempio i motori di ricerca online o i social network).
I giganti, in realtà, si fanno la guerra gli uni agli altri sia in diversi mercati contigui (per esempio quelli dei servizi cloud), sia – soprattutto – per ottenere la risorsa più scarsa, il nostro tempo e la nostra attenzione. Per il benessere del consumatore è dubbio se sia meglio una Instagram public company o una controllata da Facebook: si finisce sempre in un indice sul Nasdaq, o in grembo a Blackrock. Si può sostenere che, nel passato, i regolatori della concorrenza siano stati troppo indulgenti, ma è una questione che rientra nel paradigma tradizionale della competition policy, e non richiede di cambiare alcuna legge. Quanto invece alle seconde, ci sono le “killer acquisition”, cioè la pratica di rilevare startup non per sfruttare reali sinergie, ma per mettere le mani sulla loro proprietà intellettuale, e così soffocare in culla i potenziali futuri competitor. Con conseguenze gravemente negative sulla concorrenza e sul grado di innovazione del sistema. Individuarle e sanzionarle richiede competenze tecniche e capacità investigative non comuni: ma di certo non nuovi strumenti legislativi.
Su questo vi sono state numerosi procedimenti: l’ultima in ordine di tempo l’inda – gine aperta dall’Antitrust italiano su Google, accusata di aver abusato della sua posizione dominante nel mercato italiano del display advertising.
Capacità innovativa del sistema: è questo che non bisogna perdere di vista. Se tutto questo esiste, dice Peter Thiel, l’inventore di Paypal, è perché “abbiamo vissuto in un mondo in cui gli atomi erano regolamentati e i bit no”, quello che Matt Ridley chiama il mondo dell’“innovazione senza permessi”. E’ negli Stati Uniti che si verificarono le condizioni per il suo realizzarsi, in parte per caso ma in buona parte di proposito: all’inizio degli anni novanta, politici di entrambi i partiti abbracciarono l’idea che l’innovazione senza permessi dovesse essere la base della politica di Internet. Il Documento quadro per il commercio elettronico globale pubblicato nel 1997 dall’ammini – strazione Clinton sosteneva che “Internet si deve sviluppare come un ambiente di mercato, non come un’industria regolata”; che i governi dovessero “evitare ogni indebita restrizione del commercio elettronico”; che doveva essere possibile “compera – re e vendere prodotti su Internet con il minimo di coinvolgimento o di intervento governativo”. Fu questo che stimolò la crescita esplosiva dell’e-commerce nei due decenni successivi. Seguì, con l’articolo 230 del Telecommunications Act del 1996, la libertà di espressione su Internet che rendeva gli intermediari online non responsabili per i contenuti dei loro siti. Infine, con l’ar – ticolo 512 del Digital Millennium Copyright Act del 1998 che li tutelava da violazioni del copyright.
E’ questa la ragione per cui tutte le grandi imprese del digitale, e in modo ancora più macroscopico quelle dei Big Pharma, non innovano internamente ma tramite acquisizioni, perché è molto più facile che in una start-up ci siano le condizioni dell’in – novazione senza permessi. E non ci sarebbero start-up e venture capital se non ci fossero le grandi imprese che sono, e rimangono, la principale exit strategy. Nessuno fonda una start-up per lasciarla ai figli o per promuovere il bene sociale; persegue invece una exit strategy facendo più soldi possibile in meno tempo possibile. E quando il mercato strapaga, l’exit strategy è l’Ipo.
Tanto di nuovo sul mercato, poco di nuovo sul fronte della concorrenza: siamo sempre al trade-off tra aspirazione alla posizione dominante (che è la molla dell’innova – zione) e tutela della concorrenza (senza la quale quella molla non potrà mai scattare). D’altronde, la storia recente è piena di ex monopolisti passati a miglior vita, e pistole fumanti rivelatesi scariche. Chi si ricorda di Explorer? Eppure ne temevamo il monopolio. I big di oggi esistono perché hanno messo in ginocchio quelli di ieri, e prima o poi faranno la stessa fine non potendo reggere la pressione dei Big di domani. Non più tardi di giovedì, il Financial times ha dato eco alle innovazioni che Apple sta apportando al suo motore di ricerca per aggredire la dominanza di Google: se c’è un mercato nel quale i pretesi monopoli sono tanto solidi all’apparenza quanto fragili nel concreto, è proprio quello dell’online.
Il peccato – per citare Francesco Guccini – fu creder speciale una storia normale: il framework retorico in cui si inserisce questa discussione è quello delle nuove sfide del digitale. E’ possibile che talune acquisizioni compiute dai colossi digitali – sia di potenziali concorrenti, sia di minacciose startup – dovessero essere bloccate, o subordinate a rimedi strutturali (la cessione di altre attività) o comportamentali (per esempio la portabilità dei dati). Se è così, sarà necessario tornare a un approccio più rigido: il problema, se di problema si tratta, non sta nelle peculiarità del digitale, ma nel lassismo delle autorità.
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