Votare no, ma andare a votare: per salvare l’istituto del referendum. Dissento da questa tesi, sostenuta in questi giorni anche da voci autorevoli. Dissento in generale, e non solo nel caso del quesito sull’art.18, oggi proposto agli italiani. Per molti referendum ho raccolto firme, e fatto campagna; a molti di essi siamo debitori di fondamentali acquisizioni che hanno modernizzato la nostra società e ravvivato la nostra democrazia.
Ma lo strumento referendario ha limiti intrinseci. Propone e consente una scelta binaria, mentre gli interessi dei cittadini a volte si dispongono con continuità tra due estremi, più sovente si aggregano in uno spazio a più dimensioni. Propone e consente una scelta su un unico argomento, su cui polarizza tutta l’attenzione, mentre gli interessi dei cittadini dipendono dalla risultante di un gran numero di variabili, interagenti tra loro.
Una politica non può risolversi nella successione di decisioni binarie su singoli argomenti. Una politica è disegnare un progetto complessivo, e cercare di realizzarlo. Insomma: bisogna tenere ben presente la distinzione tra referendum come strumento di democrazia, e referendum come illusione di democrazia diretta, impossibile in società appena un po’ complesse: anche senza scomodare il teorema di Arrow.
Il referendum dà al cittadino il potere del sovrano: ma è un potere disgiunto dalla responsabilità quanto alle conseguenze delle sue decisioni ed alla compatibilità con altri vincoli. Per questo la nostra Costituzione dichiara non sottoponibili a referendum materie come il fisco e i trattati internazionali, e prevede solo referendum abrogativi (quelli confermativi in materia costituzionale sono altra cosa): il costituente aveva in mente la differenza, quanto a conseguenze sulla coerenza dell’ordinamento, tra il sopprimere una norma vecchia e l’introdurne una nuova. Molti referendum sono di fatto propositivi: così aumenta la tentazione di svilirli al micromanagement di questioni specifiche, anziché mantenerli come strumenti per incidere su grandi temi di principio.
Potrebbe essere questa una spiegazione dell’ondata astensionistica degli ultimi tempi: potrebbe essere segno di saggezza da parte dell’elettore rifiutarsi di risolvere questioni complesse con un sì o con un no. “I referendum – scrivono Augusto Barbera e Andra Morrone ( La Repubblica dei referendum, il Mulino) – hanno contribuito a bipolarizzare il sistema politico: raggiunto lo scopo sembra esaurirsi la loro funzione. Gli elettori hanno già in mano uno strumento per decidere secondo una logica bipolare, il voto nelle elezioni politiche, e hanno perso interesse per altri strumenti”.
La Costituzione, richiedendo la partecipazione del 50% degli aventi diritto per la validità del referendum, dà all’elettore anche l’astensione come mezzo per manifestare la propria volontà. Per manifestarla non solo sul merito del quesito, ma anche sulla sua natura. Cioè, per riferirci al referendum di oggi, non solo se l’art.18 debba o no essere esteso alle aziende con meno di 16 dipendenti, ma anche se questo quesito appartenga alle grandi questioni di fondo da decidere con un sì o con un no. Anzi, segnalare con l’astensione che i referendum non sono un metodo idoneo per questioni che si dovrebbero regolare con soluzioni modulate da parte delle forze politiche e sociali, può essere un modo per contrastare all’origine la supposta “ondata astensionistica”.
Sarà dunque logico che vada a votare chi ritiene che quella sottoposta oggi agli elettori non sia una questione di tutele e di contratti, ma un problema che riguarda i diritti intangibili della persona. Ho invece difficoltà a capire le ragioni di chi, non pensando che di diritti si tratti, va a votare, e vota no. In ogni caso quella secondo cui in tal modo si salvaguarderebbe per il futuro la sorte dell’istituto referendario, non la ritengo una ragione valida.
giugno 16, 2003