Flessibilità, competitività, articolo 18: riflessioni di un riformista
E’ in libreria Non basta dire no (Mondadori, 228 pagine, 15,60 euro), raccolta di saggi di 11 autori sulle riforme del lavoro. Di seguito pubblichiamo stralci dell’intervento di Franco Debenedetti, curatore del volume.
Restiamo lontanissimi dai traguardi posti ai Consigli europei di Lisbona e Stoccolma per tentare di appianare il gap tra la lenta economia europea e la locomotiva statunitense. L’obiettivo per l’Italia al 2005 è di un tasso di occupazione del 67 per cento per la componente maschile e del 57 per cento per quella femminile. Per raggiungere queste mete, intermedie rispetto a quelle ancora più alte poste per il 2010, è fondamentale anche la componente “cambio di mentalità”. La disponibilità psicologica alla prestazione di lavoro ha infatti un’elevata reattività alle riforme introdotte, che nonservono solo a fornire strumenti e incentivi alla convenienza delle imprese a occupare, ma “modellano” anche, per così dire, la convenienza a prestare lavoro. I questionari trimestrali sulla ricerca di lavoro curata dall’Istat, relativi agli ani 1995-2001, attestato che la propensione alla mobilità geografica non è riuscita in quegli anni, ferma al 60 per cento delle persone in cerca di nuova occupazione. E’ anche effetto, pensa il riformista, del fatto che non sia stata introdotta alcuna differenziazione territoriale delle condizioni contrattuali e retributive. Al contrario, la disponibilità a lavorare senza porre condizioni di orario si è innalzata dal 62,9 al 68,7 per cento. In altre parole la maggior flessibilità “in entrata”, consentita dal pacchetto Treu alla domanda di lavoro, ha contribuito a realizzare anche il maggior favore con cui l’offerta di lavoro guarda alla flessibilità. A riprova che, per vincere la sfida dello sviluppo, nulla “deve restare com’è”, slogan oggi della Cgil sull’art. 18. Dallo stesso mondo del lavoro viene invece un concreto gradimento verso la sperimentazione di nuove formule contrattuali e di garanzia.
Infine, un’ultima conseguenza negativa, sempre secondo il riformista, delle rigidità inopportune. “La competitività della nostra industria – sono parole di Antonio Fazio – risente della frammentazione delle attività in un numero elevatissimo di imprese piccole. Dimensioni aziendali ridotte conferiscono elasticità al sistema, ma rendono più difficile lo sviluppo di prodotti e di tecniche innovativi limitano l’efficienza”. La percentuale elevatissima degli occupati indipendenti nel nostro Paese, vissuta per altro da molta parte della sinistra come un fenomeno che esalta la precarietà economica e corrode la coesione sociale, è secondo l’Ocse in relazione diretta alla rigidità del mercato del lavoro. L’Italia conta su un 27 per cento di occupati indipendenti non agricoli a fronte di un coefficiente complessivo di rigidità del mercato del lavoro stimato dall’Ocse in 3,4. Solo la Grecia tra i paesi sviluppati ci batte, con il 31 per cento e un coefficiente pari a 3,5. La Spagna è al 20 per cento con un coefficiente 3. La Germania al 10 per cento con un coefficiente di 2,6. L’Olanda al 9 per cento con un coefficiente 2. Gli Stati Uniti al 7 per cento con un coefficiente 0,7.
ARTICOLI CORRELATI
La ballata del 18
di Pietro Ichino – 2 marzo 2023
novembre 29, 2002