A un anno dall’emanazione della direttiva volta a indurre le fondazioni a di smettere le partecipazioni bancarie, Dini ha ammesso che bisogna cambiare metodo: «La proprietà di molte banche rimane ancora pubblica – ha detto a Bologna il 4 novembre – dunque abbiamo percorso solo metà del cammino. Se più di questo non poteva farsi nell’ambito delle leggi vigenti comincia ora a diffondersi la convinzione che dette leggi debbano essere riviste, al fine di trasformare gli enti proprietari e accelerare il processo di privatizzazione delle banche. Condivido il fine e non escludo che modifiche legislative siano necessarie». L’opportunità di agire con strumenti legislativi riceve così un autorevole avallo.
Una proposta in tal senso è stata da me illustrata su queste colonne il 13 settembre. Il dibattito che essa ha innescato mostra un singolarità: da un lato ampio consenso sull’insostituibile ruolo delle attività no profit in un società moderna; dall’altro forte resistenza a individuare tempi e mezzi per produrre i mutamenti nella struttura economica delle fondazioni – innanzitutto tempi e modi di dismissione delle partecipazioni bancarie – e farle così diventare protagonisti di questa nuova missione.
Come superare queste contraddizioni? Bisogna ricuperare l’obbiettivo di interesse generale, già alla base dell’intervento della legge Amato sulle fondazioni, e i due strumenti per perseguirlo: quello microeconomico, cioè contribuire all’efficienza del sistema bancario, e quello macroeconomico, cioè liberare nuove risorse per beni di interesse sociale (cultura, formazione, assistenza). Si è coscienti che questo è un intervento parziale: esso realizza il primo obbiettivo, non compiutamente il secondo. Che le fondazioni abbisognino di «iniziative legislative volte a definirne con precisione lo status giuridico, radicandole chiaramente nel diritto privato» è scritto nella relazione di accompagnamento del disegno di legge da me presentato. Esso risponde alle ragioni delle banche, e pone in essere le condizioni perché si soddisfino le ragioni delle fondazioni.
Il tema della dismissioni delle banche è: prioritario per ragioni operative, urgente per ragioni economiche, giuridicamente fondato in sé. Per ragioni operative, perché finché la banca resterà il principale investimento delle fondazioni, essa rimarrà anche la principale preoccupazione di chi la fondazione amministra. Per ragioni di urgenza, perché la diminuita redditività delle banche rischia di far trovare le fondazioni con un patrimonio svalutato, inadeguato quindi a svolgere la loro nuova missione. Giuridicamente fondato, per la natura di enti pubblici delle fondazioni. Ma il consenso politico può venire solo si tiene presente l’interesse generale nella sua globalità. Se cioè all’interesse collettivo di avere un sistema bancario più efficiente si unisce la richiesta da parte di quelle comunità locali, la cui attività ha contribuito alla formazione del capitale delle fondazioni, di riceverne oggi in cambio interventi significativi nell’erogazione di beni di interesse delle stesse collettività.
Ragioni delle banche. Che il sistema bancario italiano sia inefficiente e poco redditizio ormai lo riconoscono tutti. Che in molti casi la ragione di questa inefficienza sia da ricondurre al peso della politica quando non dell’ingerenza partitica è innegabile soprattutto per alcune tra le situazioni più gravi recentemente esplose. Ma la proposta non si basa su una presupposta incapacità delle fondazioni di esercitare efficacemente l’attività bancaria. La ragione ineliminabile di inefficienza è che le banche possedute dalle fondazioni, non essendo scalabili, sono al riparo dalla possibile presa di controllo da parte di chi potrebbe gestirle nel modo più efficiente. L’ha rilevato Dini, con riferimento alla possibilità che la nuova legge bancaria offre alle banche di investire nel capitale delle imprese: «Se le banche devono contribuire (…) a un efficace monitoraggio dell’attività delle imprese, a maggior ragione la loro struttura proprietaria deve assicurare un monitoraggio altrettanto efficace: quis custodiet custodes?»
Ragioni delle fondazioni. Vincoli di bilancio e incapacità da parte dell’amministrazione centrale richiedono che siano sempre più (anche) le comunità locali a provvedervi, attraverso organizzazioni non a fini di lucro. In tutte le società complesse, università, teatri, musei, ospedali si sviluppano (anche) con il sostegno del cosiddetto terzo settore: le fondazioni, se non ci fossero, bisognerebbe inventarle. È stato un intervento della fondazione Rockefeller a sconfiggere la malaria nel sassarese. Un ospedale, un teatro lirico, un’università richiedono, per pareggiare i conti, contributi annui dell’ ordine di alcune diecine di miliardi. Per potervi provvedere, le fondazioni devono avere un capitale di alcune centinaia di miliardi, bene investito: mai quindi in un’unica attività, e non prevalentemente in banche. Il settore bancario è maturo, non è molto redditizio dovunque, lo è ancor meno in Italia; è esposto a tensioni, per l’estendersi delle reti telematiche, la globalizzazione della finanza, la necessità di concentrazioni; in Italia soffre di una frammentazione particolarmente accentuata. La dismissione («ben oltre il 50 per cento») dell’attività bancaria è necessaria «per consentire all’ente stesso di adempiere alla propria missione»: si richiede perciò «un intervento normativo che individui con più precisione la missione degli enti, e quindi renda inevitabile la dismissione del controllo bancario» (Costi). È l’interesse pubblico connesso al ruolo delle fondazioni che impone la dismissione delle banche.
Permangono nel settore bancario italiano aree di protezione, nicchie protette: paiono sicure e invece sono proprio queste le situazioni più a rischio. La pressione competitiva indurrà comunque una razionalizzazione del sistema: non è preferibile che essa avvenga in un quadro di norme di evidenza pubblica, usufruendo di strumenti tecnici (ad esempio, i buoni di acquisto) altrimenti non disponibili? Proprio coloro, amministratori, sindaci, cittadini che hanno a cuore la sopravvivenza delle fondazioni nel lungo periodo, dovrebbero sapere che il rischio è di trovarsi con un patrimonio svalutato, difficile da rendere liquido, in situazioni non prevedibili. È meglio per i cittadini che la ‘loro’ fondazione possegga la banca, o che la Cariplo finanzi la Scala, l’Opera Pia S. Paolo un ospedale che faccia concorrenza a Lione? Non succederà senza una norma che, con la sua cogenza, aiuti a superare inerzie e resistenze interne, interessi particolari quando non personali.
Tempi e tecniche di dismissione. Il progetto, è questa l’accusa più ripetuta, indica tempi obbligatori, giudicati per giunta troppo ristretti. Eppure concordare sulla necessità di un processo e non porvi un termine è una contraddizione, che colora il gradualismo di ambiguità. A maggior ragione se tempi lunghi vengono invocati da fondazioni che ritengono di poter aggirare il problema creando holding e partecipazioni incrociate. Coi tre anni previsti dal progetto di legge, sommati al tempo necessario per l’eventuale approvazione parlamentare, si va molto vicini ai cinque anni della direttiva Dini. E poi, quali eventi si attendono perché le dismissioni possano svolgersi in condizioni più favorevoli? Non certo che si formino nuovi investitori istituzionali, né che aumenti la massa di risparmio necessaria. Per ristrutturare? Si resta perplessi di fronte ad amministratori colti da questa improvvisa e generalizzata volontà di ristrutturare. Il valore attuale di un bene incorpora la sua redditività futura, anche quella che deriva da piani credibili e documentati.
Certo, una diluizione del fenomeno consentirebbe al mercato di assorbire più facilmente le offerte. Ma il tempo indicato pare adeguato se rapportato alla dimensione del fenomeno, o paragonato ad altri grandi interventi di privatizzazione, anche di alcuni attualmente in corso da noi (come l’Eni). Inoltre, un tempo contenuto rende pressoché impossibile che singoli soggetti possano monopolizzare il mercato.
Ragioni di un intervento diretto. Sarà certamente necessaria qualche maggiore articolazione (ad esempio sulla percentuale di possesso residuo da parte delle fondazioni); Franco Modigliani concorda sulla necessità di un meccanismo automatico, ma ne critica alcuni aspetti tecnici (e l’autorevolezza dell’interlocutore e la tecnicità del tema impongono ulteriore riflessione). Si è coscienti che la soluzione del problema, l’obbiettivo di interesse generale che giustifica un intervento su degli enti pubblici, richiede di agire sui due fronti, quello delle banche e quello delle fondazioni. Vi si dovrà provvedere anche agendo sugli statuti delle fondazioni: ma è evidente dai comportamenti stessi delle fondazioni che senza un intervento diretto, che ponga prioritariamente l’obbligo delle dismissioni, il processo si protrarrà tra resistenze, ambiguità, mezze soluzioni: il solito pasticcio in salsa italiana. Con danno e delle banche e delle fondazioni.
novembre 23, 1995