Con ogni probabilità anche a Massimo D’Alema, come alla maggior parte dei commentatori, è sfuggito il rapporto sulle business school pubblicato dal «Financial Times» il 25 gennaio: in cui la scuola di management della Bocconi è presente con un inserto pubblicitario ma non nella classifica dei primi 50 istituti europei e americani. Se l’avesse visto, c’è da scommettere che martedì, parlando proprio nel tempio milanese degli studi economici, alla tentazione della battuta caustica non avrebbe resistito.
Nella graduatoria compilata dal giornale londinese, le business school americane la fanno ovviamente da padrone (sono nove delle prime dieci). Ma accanto ad Harvard e Columbia, Stanford e Wharton, troviamo: otto scuole inglesi, tre francesi, tre canadesi, due olandesi, due spagnole, e una svizzera. Italiana nessuna.
In questi casi sovente la prima reazione è quella del rifiuto dell’operazione classificatoria stessa: ne sa qualcosa «Il Sole 24 Ore» le cui pur articolate e analitiche classifiche sul tenore di vita delle Province italiane sono state oggetto di non poche contestazioni. Conviene quindi preliminarmente precisare i criteri in base a cui è redatta la classifica. Essi sono divisi in tre gruppi: le opportunità di lavoro (stipendi e loro dinamica; facilità di essere assunti da imprese); l’apertura culturale (per lingua, nazionalità, sesso); il valore scientifico (carriere accademiche, ricerche effettuate). Quanto al primo indicatore, per ridurre la distorsione data dal diverso livello degli stipendi nei vari Paesi, questi sono stati convertiti usando i cambi in base al potere d’acquisto elaborati dall’Ocse e «tagliando le code» dei valori estremi.
È invece proprio dal rifiuto della classificazione che bisognerebbe partire. Le graduatorie sono un modo per dare informazioni: a volerle dovrebbero quindi essere proprio coloro che si battono per la libertà di fare scuola e scuole: senza disporre di un sistema di valutazione, come fare a orientarsi nella varietà dei percorsi formativi offerti? Valutare è necessario in generale per tutte le scuole, dagli asili alle università, lo è a maggior ragione per le business schools che devono preparare gli studenti a un mondo in cui la competizione è Valore e regola. Per scegliere bisogna poter paragonare, ovunque c’è concorrenza c’è qualcuno che fa una classifica.
Che auspichi «meno oligarchie, più Borsa» che indichi i limiti — noti e da tempo avvertiti — delle «ristrette oligarchie» del capitalismo familiare e i pericoli — altrettanto noti ma non avvertiti in tempo — del ruolo improprio che avrebbero le Fondazioni quali investitori istituzionali, che socchiuda le bronzee porte della flessibilità in azienda: tutti i temi toccati da Massimo D’Alema sono variazioni sul tema della concorrenza. Le condizioni della concorrenza sono le istituzioni a crearle: e qui non si può fare a meno di notarne il ritardo, che le parole di D’Alema rendono ancora più stridente: a chi si rivolgeva il capo del Governo quando denunciava la mancanza di fondi pensione? Ma la concorrenza è anche cultura: e quale cultura della concorrenza può dare il monopolio statale del sistema scolastico, che di fatto nega l’effettivo uso della libertà, per gli studenti, di avere la formazione di propria scelta e peri docenti di insegnare secondo le proprie scelte? L’avere sradicato la selezione per merito ha degradato irrimediabilmente un sistema scolastico di cui potevamo menar vanto; in mancanza di concorrenza le università muoiono di corporativismo, i più valorosi tra gli accademici sono in prima fila a lamentarlo.
È puramente casuale la concomitanza di una visita e di un servizio giornalistico; il riferimento alla scuola di perfezionamento collegato alla prestigiosa università milanese può anche essere immotivato. Ma è certo pertinente l’occasione per ricordare che ogni discorso sull’aumento di competitività del nostro Paese, nel suo sistema produttivo e nei suoi assetti proprietari, è monco se non si provvede a ricostruire il sistema scolastico sulla base di principi di competizione. Da lì incomincia la formazione di una classe dirigente.
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gennaio 28, 1999