Il capitalismo a forte responsabilità sociale piace e raccoglie il plauso del Pd
Dato che si impara anche dai successi, la storia dello spettacolare turn around della Fiat di Sergio Marchionne, oltre che oggetto di compiacimento, ammirazione e soddisfazione, diventerà oggetto di studio. E’giusto che egli ci ricordi quanto giochi, in ogni storia industriale di successo, la componente schumpeteriana, le culture di origine o di elezione, Machiavelli o Dickens.
Un imprenditore deve tener conto del “terreno culturale” in cui opera, quello che Marchionne chiama, con qualche generosità, di “forte responsabilità sociale”. Non piccola parte del suo successo è dovuta all’aver riconosciuto che, tra i tanti problemi che ha trovato in Fiat, i temi “sensibili” – emblematicamente Termini Imerese e Mirafiori- non erano prioritari: e che potevano essere diversamente risolti.
Proprio perché ogni storia di rilancio è anche una “storia di trasformazione personale” di chi la realizza, nessuna caratteristica individuale, nessun tipo di capitalismo sono dati a priori come vincenti. E invece i resoconti della giornata e i commenti del giorno dopo testimoniano dell’incapacità del mondo politico di leggere correttamente la lezione del manager Fiat, e di resistere alla tentazione di generalizzare e di appropriarsi di una quota del merito che solum è suo.
La spesa sociale pubblica, ha detto Marchionne, in Europa è del 27%, in USA è del 16%. Tanto è bastato perché il “mondo accademico filo cattolico” radunato a Mattinata esprimesse consenso a quella che parve fosse una critica al modello americano (così Roberto Bagnoli sul Corriere della Sera). Ma era proprio una critica? Egli sa bene che questo divario si ha anche perché l’onere previdenziale sta nei bilanci delle aziende americane, nel caso della General Motors facendola vacillare più della concorrenza giapponese. Lo crediamo quando dice che a lui è stato più facile trattare sui livelli occupazionali con i sindacati italiani di quanto lo sarebbe per General Motors con UAW: ma in USA è possibile avere contratti aziendali che escludono la presenza di sindacati, anzi così succede in molte aziende del Gruppo FIAT in USA. Invece in Italia vige l’erga omnes e si rincorre sempre l’obbiettivo di differenziare e di fare della contrattazione aziendale il luogo dove si misura la produttività e si riconosce il merito. Per la flessibilità in uscita, le grandi aziende, e la Fiat in particolare, sanno di poter contare su strumenti di mobilità anche generosi. Per le piccole e medie aziende invece, e non solo per i commentatori anglosassoni, la nostra struttura del lavoro é poco flessibile. Anche per loro i problemi si chiamano una burocrazia che “non fa che alimentare se stessa”, la carenza “di una rete di infrastrutture efficiente e moderna”, “la riduzione della pressione fiscale”, “il costo dell’energia”.
Anche Piero Fassino, commentando il giorno dopo il discorso di Marchionne, ne apprezza la sensibilità sociale. Così insignitolo della medaglia di “vero socialdemocratico”, facendo l’analogia tra il cambiamento che il manager ha realizzato in Fiat (“quando tutti dicevano che doveva essere solo venduta”) e l’ambizione di cambiare la politica italiana dando vita al Partito Democratico, può prenderlo come supertestimonial dell’evento. Ormai il parallelo tra industria e politica è diventato comune anche a sinistra.
Fassino va oltre, e non esita a individuare nei sindacati e nella stessa coalizione di Governo il luogo dove si annidano le resistenze conservatrici al cambiamento. Per batterle, egli si dichiara “pronto ad allearsi con Marchionne”. L’affermazione lascia perplessi: perché non vi è dubbio alcuno che, per superare gli ostacoli che sono disseminati sulla strada di aziende grandi e piccole, e delle piccole più ancora delle grandi, il PD dovrà sapere stringere alleanze diverse, probabilmente assai meno facili. Penso alle tante aziende che non hanno bisogno che gli venga ricordato di “fondare le proprie radici sui valori della concorrenza e del mercato”; e che quanto ad “abbracciare la sfida del nuovo e pensare al futuro” possono dare lezioni. Perfino in America la frase che rese famoso Charles B. Wilson, ministro della difesa di Eisenhower, (“ciò che è bene per la General Motors è bene per l’America”) é ricordata come l’epitaffio di un mondo che fu: figurarsi in Italia dove di grandi aziende ne abbiamo avute sempre poche.
settembre 25, 2007