Perché la politica attira tanti ladri? È la domanda, rozza al limite del populismo, che vien da porsi di fronte al quotidiano stillicidio degli scandali. Non era la domanda che si faceva per Tangentopoli, o almeno non era la principale: allora ci si rendeva conto di vivere una vicenda storica, lo sgretolarsi di un sistema politico tetragono al cambiamento, che per mezzo secolo era sopravvissuto succedendo a se stesso. Anche allora non mancavano scene grottesche, documenti recuperati nel water, soldi nascosti nei puffi di casa: ma il clima era quello di una tragedia, la crisi era della politica. Anche la storia di questi scandali ha già avuto le sue tragedie umane, ma nel complesso appare una pochade di terz’ordine: la crisi è dei partiti e dei loro uomini.
I ladri vanno dove ci sono tanti soldi, e la politica ne muove tanti; vanno dove è più facile rubare, e rubare al pubblico lo è più che ai privati. Rendere più difficile rubare soldi pubblici potrebbe anche solo aumentare il premio al rischio per l’”intermediario”. Ridurre la quantità di danaro manovrato dal pubblico, questo sì che sarebbe risolutivo. Invece tutti sono pronti a mettere toppe ai buchi nell’ordinamento e a aumentare pene, e nessuno si pone l’obbiettivo di ridurre i soldi che lo stato gestisce o intermedia. Una prima riduzione, rapida e sicura, si ha privatizzando: anche ammesso (ma per nulla concesso) che quella di Telecom sia stata una privatizzazione sbagliata, delle non limpidissime cose che giravano intorno a Stet non si è più sentito parlare. Posto che il mestiere che fa Finmeccanica è, come si vede, particolarmente esposto a pericoli, non sarebbe più logico venderla? Le turbine del Pignone, gli ingranaggi dell’Avio, i cavi della Prysmian sono prodotti da aziende non più a controllo italiano: forse che ne è venuto un danno al Paese?
Ma il grosso è rappresentato dai movimenti di danaro manovrati dallo stato: nell’edilizia il tratto di penna di un funzionario su una mappa può valere milioni, centinaia di milioni. E analogamente nella sanità: anche là dove, come in Lombardia, il malato può scegliere dove farsi curare, è sempre la regione che gestisce il fiume dei compensi per le prestazioni.
In questi casi si può obiettare che eliminare del tutto il potere discrezionale forse non è neppur possibile. Ma dove è il pubblico stesso a creare, con le sue norme, le occasioni di intermediazione, allora c’è poco da discutere. Prendiamo la vicenda dell’assegnazione delle frequenze radio televisive: la questione nasce perché lo stato crea un bene che non esiste, se ne dice proprietario, e prende a sfruttarlo concedendone l’uso. Una situazione non tanto diversa dall’immobiliare: con la differenza che il terreno per le concessioni edilizie esiste, l’etere no, la frequenza essendo una grandezza fisica che caratterizza le onde elettromagnetiche. Inventandosi proprietario di una grandezza fisica, lo stato prima puntella il monopolio; poi quando qualcuno, più furbo o con migliori amicizie degli altri, lo viola, regola la concorrenza che aveva impedito. Anzi le concorrenze, quella tra imprese e quella tra idee: bisogna tutelare il pluralismo. E quando la tecnologia inventa altri usi delle onde elettromagnetiche, bisogna intervenire nella spartizione tra vecchie e nuove tecnologie. Tutela della concorrenza e tutela del pluralismo, ripartizione tra servizi “uno a tanti” e “uno a uno”, discrezionalità per gli imprenditori che vorrebbero entrare nel mercato, e egualitarismo per i consumatori che potrebbero esserne esclusi, fare entrare quanto più denaro possibile nelle casse dello Stato e pretendere che non venga sottratto agli investimenti: un guazzabuglio inestricabile di obiettivi confliggenti, in cui tutti possono avere torto e ragione. Mentre se lo Stato non intervenisse, o al massimo lo facesse per facilitare il coordinamento, facilmente gli operatori si accorderebbero per le modalità d’uso più vantaggiose per i consumatori. A chi facesse osservare che questa vicenda oggi non appare inquinata da scandali, si vorrebbe ricordare che, in un recente passato, con gli scandali si sono riempiti giornali e aule giudiziarie: e che comunque i dividendi politici possono essere i presupposti di dividendi economici.
Come le privatizzazioni, più che a ridurre il debito dello stato, servono a restituire aree di mercato all’iniziativa privata e alla concorrenza, così la spending review oltre che a ridurre i costi della macchina dello stato, serve a tagliare la quantità di danaro intermediata dal pubblico. Per esercitare l’indirizzo politico senza gestirne l’esecuzione bisogna reinventare il proprio ruolo. A chi, in buona fede, è riluttante a questo cambiamento, valga ricordare l’esperienza comune: le famiglie e le imprese che sono più “pulite”, hanno i conti in ordine e funzionano meglio.
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aprile 26, 2012