Nei giorni dei congressi dei Ds e dei Dl, su Telecom era ben difficile avvenisse qualcosa di decisivo: l’aveva pronosticato – con molto realismo – Cesare Geronzi all’assemblea di Capitalia. Detto in termini accademici:
“Le tensioni all’interno dell’azienda sono connesse a tensioni all’esterno. I rapporti di forza all’interno dei consigli di amministrazione riflettono rapporti di forza nell’ambiente politico. Le pretese sui profitti aziendali derivano da obbligazioni definite dal processo politico di un Paese”.
Si legge ne “La public company e i suoi nemici” di Mark Roe, lo studioso americano dei sistemi di governance (Edizioni il Sole 24 Ore, 2004).
Certo, una cosa è “connettere” e “riflettere”, tutt’altra è interferire. E quanto a interferenze politiche la vicenda Telecom è da primato. Ma ciò che più di tutto è scandaloso è che la politica accusi il sistema industriale di colpe che derivano proprio da culture e valori che la politica stessa ha diffuso e radicato. E’ Romano Prodi a domandarsi scandalizzato – per la seconda volta, a dieci anni di distanza – perché non si trovino imprenditori italiani disposti a prendersi Telecom. È Francesco Rutelli a osservare, anch’egli scandalizzato, che il controllo di Telecom si può prendere con un decimo della somma che l’Enel ha speso per assicurarsi Endesa. È Fausto Bertinotti a sintetizzare elegantemente che il nostro capitalismo è “impresentabile”.
Provassero a chiedersi invece perché nessuno prova a prendere il controllo di Telecom con un’OPA o su Pirelli, o su un 20-25% di Telecom, operazioni entrambe che gli analisti giudicano economicamente più convenienti. Ridicolo pensare che sia per limitare l’esborso finanziario: con tutto il danaro che c’è in giro! La realtà è che quelle sarebbero operazioni destabilizzanti del sistema, anche privato. È per prudenza che si cerca composizione di interessi all’interno di una mini-Mediobanca, quale è Olimpia. E si evita di iniziare una bagarre dall’esito imprevedibile, che coinvolgerebbe tutti gli attori del nostro sistema fondazional-bancario, assicurativo, industriale: e i loro sponsor politici. È un fenomeno circolare: la pervasività dell’intervento politico rende necessario avere protezioni politiche. È ogico cercare protezioni quando chi compera non sa se poi avrà il diritto di vendere ciò che ha pagato: come è successo a Benetton per Autostrade e per tre volte di seguito a Tronchetti.
Logico cercare protezioni, quando diventa dubbia la validità dei contratti (per esempio di concessione), e incerta perfino la definizione del perimetro aziendale (leggi alla voce rete). Logico, quando le Autorità di regolazione, che sono state create proprio per rompere il legame dei monopoli delle PPSS con i “loro” Ministeri, vengono indotte (senza troppa fatica, a dire il vero) a comportamenti ossequienti al volere del Governo. Logico, quando per decenni si è diffusa a piene mani una cultura diffidente verso il mercato, che rifiuta la selezione per merito, e difende un sistema di protezioni diseguale e ingiusto. Sicché, per non far scattare, oltre alle normali reazioni sindacali, anche i veti politici, bisogna avvolgere nell’ambiguità i piani per fare efficienza attraverso la riduzione degli organici. E’ vero, anche le scatole cinesi inducono a gestioni meno efficienti, perché riducono la concorrenza per il controllo: in questo senso, scatole cinesi e difesa, senza se e senza ma, dell’articolo 18 dello Statuto del lavoratori, sono due facce della stessa medaglia.
Si fa confusione tra i problemi finanziari delle strutture societarie a monte e quelli gestionali dell’azienda Telecom. Ci si inventa la necessità di un partner tecnologico, quando tutti comprano la tecnologia dalle stesse Cysco, Nokia, Motorola. Di un partner nel marketing, quando è italiano il successo delle carte prepagate, a cui si deve l’eccezionale sviluppo della telefonia mobile in Italia. Di un’alleanza internazionale, quando in realtà il suo vero nome è TIM Brasile. E tutto questo perché? Per trovare l’accordo per nominare un Presidente che poi selezioni un capo azienda: come l’Italia da Carlo VIII, anche Telecom “conquistata col gesso”. Un gestore poteva selezionarlo Guido Rossi: ma proprio il più noto sostenitore del modello public company, non poté o non volle fare l’operazione che avrebbe potuto separare problemi dell’azienda da quelli della catena di controllo a monte.
Si fa confusione sulle conseguenze delle scalate a debito. I debiti della Telecom di Colaninno erano dovuti alle acquisizioni, giuste o sbagliate che fossero. Il debito contratto per acquisirla restava a monte, in Olivetti, e aveva a fronte del 54% di Telecom. I debiti della Telecom di Tronchetti, nonostante le imponenti dismissioni, sono principalmente dovute all’elevato pay out e al riacquisto delle minorities di TIM.
La struttura piramidale, così diffusa nel nostro capitalismo, ha certamente effetti negativi su sviluppo e competitività del nostro sistema industriale. Non si può continuare a mantenerlo in piedi solo perché evita l’esplodere uno dopo l’altro di casi in cui verrebbe invocata la difesa dell’italianità. Alla lunga, la sola difesa che regge è quella della competitività: ma per favorire l’emergere di soggetti forti, serve una politica che sia lungimirante nel dare le regole, autorevole nel farle osservare, e rispettosa nel non interferire nelle dinamiche di mercato. E’ un processo che richiede cambiamenti culturali; in primo luogo, ma non solo, di cultura economica. Anche dei risparmiatori: si veda quanto si stiano dimostrando conservatori nella destinazione del loro TFR. “La social democracy – è la tesi centrale di Mark Roe – poco si addice alla public company ad azionariato diffuso”. In questo senso il Partito Democratico, se saprà conquistare il Paese a una cultura politica nuova e diversa rispetto a quella dei Pantheon dei suoi fondatori, di tutti i suoi fondatori, potrebbe favorire l’affermarsi di governance più moderne ed efficienti. Accanto a quelle tradizionali, che – non dimentichiamolo – sono state e continuano a essere l’asse portante della nostra economia.
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aprile 22, 2007