Che il proprietario di un’azienda in dissesto cerchi chi gli dia capitali per sopravvivere, è naturale. Che nel nostro paese il primo a cui ci si rivolge per aiuto sia il governo, è risaputo. Che ciò venga addirittura preteso, e da chi ancora ieri rivendicava orgogliosamente la propria indipendenza dal mondo pubblico, è solo una contraddizione. È quella in cui incorrono gli amministratori della fondazione che controlla il 72 per cento del Banco di Napoli.
A chi, come il sottoscritto, propone che le fondazioni bancarie debbano vendere (si noti bene, vendere) le proprie partecipazioni bancarie, ancora ieri si replicava che questo sarebbe equivalente a un esproprio, che le fondazioni non sono più pubbliche, e che quindi a esse non si può chiedere nulla. Il maggiore istituto bancario meridionale ha accumulato lo scorso anno perdite per 1.147 Mld, e dovrebbe già averne consuntivati altri 1.000 nei primi sei mesi di quest’ anno: una situazione indubbiamente critica. Però le situazioni critiche potrebbero anche essere l’occasione per risolvere nodi strutturali: e qualche difetto strutturale è almeno legittimo ipotizzarlo nel modo in cui la fondazione ha gestito, o consentito che venisse gestita, la sua principale partecipazione, se è riuscita ad accumulare perdite cosi vertiginose.
In un paese normale, il Tesoro, considerata la dimensione dell’istituto, i problemi dell’area di sua principale influenza, l’obbligo di proteggere il risparmio sancito dalla Costituzione, avrebbe convocato le altre banche e avrebbe loro chiesto di farsi carico del problema del risanamento. Avrebbe magari giocato sulla rivalità tra gruppi di banche interessate a espandere la propria sfera di influenza : in ogni caso cercando di risolvere il tutto senza intervento dei soldi dello Stato.
Da noi questo è impossibile: se per il salvataggio viene, come è stato detto, organizzata una cordata tra Cariplo, S. Paolo e Montepaschi, cioè tra banche pubbliche, le perdite del Banco di Napoli non usciranno mai dall’area pubblica; se si chiamano le banche private, si viene accusati di ampliare il potere della ‘Galassia del Nord’.
Sempre dal fronte bancario, cronaca di questi giorni: l’Alitalia ha bisogno assoluto di un aumento di capitale; il suo azionista ha difficoltà a sottoscriverlo: l’Iri ha già i suoi problemi, e deve vedersela con Bruxelles che non accetta sovvenzioni statali in un settore aperto alla concorrenza tra privati. Ed ecco che l’Imi si propone per garantire il collocamento dell’aumento di capitale. Conoscendo l’oculatezza con cui è gestito l’Imi, non abbiamo ragione di dubitare che si tratti di un’operazione di mercato, capace di dare buoni profitti. Ma che l’Imi privatizzato si lanci subito in un salvataggio di un’azienda pubblica, appare operazione quanto meno poco elegante, e non tale da entusiasmare quei mercati internazionali che già avevano bollato come finta la privatizzazione dell’istituto.
Ultima notizia: la Cassa di risparmio di Torino, quella di Verona, e forse qualche altra venderanno le proprie banche a una holding detenuta dalle rispettive fondazioni. L’operazione sarà brillantissima dal punto di vista delle sinergie tra banche, ma in nessun caso può essere fatta passare come una privatizzazione, e oggettivamente (poichè delle intenzioni è inutile discettare) ne costituisce un ostacolo.
L’anomala situazione delle banche possedute da fondazioni, oltre a essere di ostacolo allo sviluppo dei mercati finanziari, continuerà a riproporre problemi su problemi: meglio sarebbe decidersi ad affrontare questo nodo, e a risolverlo in tempi ragionevoli, ma certi.
ottobre 23, 1995