da Peccati Capitali
Mi dà fastidio la radio nei taxi. Mi disturba mentre penso a quello che dovrò fare o dire all’arrivo; o quando rispondo a sms o mail. Sono insofferente della musica di sottofondo, quella che Adorno chiamava commestibile: evito i locali che la servono, massimamente quelli che consumano la musica classica credendo di darsi uno stile e aumentare i prezzi.
Mi sembrano male spesi 40 € per un’ora di rivelazioni sulle abitudini sessuali della famiglia di chi ha arbitrato l’ultima partita della Roma, o di suggerimenti all’allenatore della Lazio per la prossima partita. Ma l’urbana richiesta di spegnere può dar luogo a spiacevoli discussioni, perfino a minacce (a Milano, il numero a cui fare le segnalazioni è 02.88465290: sono gentilissimi).
Puoi capire se una categoria che ha sconfitto la “lenzuolata Bersani” si ferma di fronte alla mia bizzarra richiesta. Eppure il rifiuto di spegnere la radio e la sedizione contro l’aumento del numero delle licenze nascono dallo stesso equivoco: il tassista non è un imprenditore privato, perché non può fallire; e non è un dipendente perché non può essere licenziato neppure per ipotesi. “Pubblico”, per la maggior parte dei tassisti non indica un servizio disponibile a tutti, ma uno status, nello stesso senso in cui si dice pubblico ufficiale. Una volta che il tassista è entrato a far parte del monopolio comperando la licenza (che per questo in certe città vale centinaia di migliaia di euro) non ha nessun incentivo a migliorare produttività e qualità del servizio. Anzi, compie un illecito se cerca di farsi una sua clientela, distribuendo biglietti da vista. E per il cliente è sconsigliabile scegliere il Mercedes nuovo tre posti indietro invece che il più essenziale Doblò che è primo nella fila.
Il “peccato capitale” di Bersani è stato pensare che il problema andasse risolto adeguando la pianificazione: se mancano i taxi aumentiamo le licenze. Invece bisognava eliminare la pianificazione e introdurre la liberalizzazione: levare i vincoli a fornire il servizio, liberare la concorrenza tra compagnie di tassisti imprenditori. Ne avremmo una con Lexus e BMW e amplificatori Bang & Olufsen (mica tutti hanno le mie fisime), un’altra con macchine di terza mano e 200 W per canale. Una con autisti referenziati e stivali neri, un’altra con immigrati al primo impiego in infradito. Naturalmente a tariffe diverse.
Ci si potrebbe fare un corso di economia politica, sui taxi. Spiegare l’origine di tanti nostri mali: l’interventismo dello Stato, l’iperregolamentazione, la diffidenza verso gli automatismi di mercato. E il “benaltrismo”: quello di chi, a Francesco Giavazzi che per primo aveva inserito i taxi nella sua famosa agenda, obbiettava che si tratta di un problema che riguarda poche persone, e che “ben altri” sono i problemi del Paese.
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dicembre 6, 2007