Dire che il Governo Prodi è caduto per Rossi e Turigliatto, o per Andreotti e Pininfarina è attribuire al naso di Cleopatra il corso della storia del mondo, o a un “nail in a shoe” la perdita di un regno. Ed è un truismo dire che caduto per il risicato margine del Senato. Quel margine, al contrario, è la conseguenza aritmetica di un fatto politico: che non è possibile governare un grande Paese occidentale ad economia di mercato con una maggioranza di cui la sinistra antagonista sia parte organica.
Non succede ovviamente nell’Inghilterra di Blair, non succede in Germania, dove a Schroeder manco è passato per la testa di allearsi con Gysi, non succede, a ben vedere, neppure nella Spagna di Zapatero. Tutti Paesi, si noti, nei quali vige o il maggioriatario, o un proporzionale dell’alternanza. Il Governo, non è dunque caduto per l’azzardo di D’Alema, che si è coraggiosamente messo in gioco, spingendosi fino dove era possibile, per cercare di fare chiarezza sul tema, fondamentale, della politica estera. Semmai la sua responsabilità è precedente, nel non avere avuto negli anni passati, per l’eterna preoccupazione del pas d’ennemis à gauche, il coraggio di portare fino in fondo le sue scelte.
La sostituzione dei voti dell’estrema sinistra, e non solo di qualche dissidente, con apporti dello schieramento opposto innescherebbe smottamenti successivi, che probabilmente arriverebbero a toccare parte dei DS e dei DL. Per trovare un equilibrio non basterebbero probabilmente neppure i voti dell’intera UDC, si finirebbe con un governo di profilo nettamente di centro, di grande centro. Sarebbe la fine del bipolarismo. La prospettiva opposta non è migliore: il Governo Berlusconi del 2001-2006 é stato un cattivo governo, e ci sono tutti gli elementi per temere che se risultasse vincitore a nuove elezioni, sarebbe ancor peggiore.
Le soluzioni a breve di questa impasse, recuperare qualche voto per un Prodi bis, oppure un governo di decantazione, sono tutte, volenti o nolenti, di breve termine. Certo che la legge elettorale andrebbe cambiata, ma trovare il rimedio sembra più difficile che curare il male. Infatti, chi, grazie a questa legge, ha il potere di veto, non lo cede; e poiché questo è ora principalmente un problema della sinistra, una destra miope potrebbe avere poco interesse a risolverlo. E’ proprio quando si è nell’emergenza che bisogna guardare oltre la contingenza, ai fatti strutturali, e chiedersi se siano possibili soluzioni sistemiche diverse sia dal riproporre un governo di destra che non ha saputo governare, sia dal decretare la fine del bipolarismo in Italia. Bisogna smontare il sofisma consolatorio, che circola a sinistra: quello secondo cui l’Italia è un paese di destra, in cui la sinistra può vincere solo occasionalmente grazie a una maggiore sapienza nel maneggiare i meccanismi elettorali. Lo stesso sofisma che esprimeva, in forma ancora più radicale, Norberto Bobbio, all’indomani delle elezioni del 1994:
“la società nata dalla televisione è una società naturaliter di destra […] perché ha degli interessi che non sono quelli della sinistra. La sinistra vive di grandi principi, si immedesima nella sofferenza umana. [Su una società] che gode nel vedere insulse famigliole riunite intorno ad un tavolo che glorificano questo o quel prodotto [la sinistra] non ha nessuna presa.”
Una petizione di principio, perché il risultato è implicito nella definizione della causa: l’esito elettorale dipende da come il centrosinistra si definisce e si propone al Paese tutto. Non esiste una platonica idea di sinistra. E’ quella descritta da Bobbio che può andare al potere solo dopo l’esperienza di un cattivo governo dello schieramento opposto, e solo contando sull’appoggio determinante dell’estrema sinistra.
E’ fin banale: l’alternativa al dilemma governo di centrodestra – fine del bipolarismo, dipende dalla capacità della sinistra di elaborare un’offerta politica che possa avere i voti della maggioranza degli italiani senza bisogno della stampella dell’estrema. E’ ovvio che il recupero non può avvenire a sinistra, sul lato del pacifismo irriducibile, dell’arcadia anticapitalista, dell’antiamericanismo viscerale. Il fronte su cui recuperare è molto frastagliato. A fare la guardia per evitare sconfinamenti ci sono quelli per cui l’Unione, vincendo, avrebbe salvato l’Italia, perché dall’altra parte ci sono i delinquenti, i collusi con la mafia, i protettori degli evasori. Ci sono quelli che non hanno votato la fiducia al secondo Governo Amato. Quelli del “regime”. Quelli per cui l’essere del Paese deve conformarsi alla loro idea di dover essere. Quelli a cui la preclusione ideologica verso l’avversario, impedisce di cogliere le ragioni del suo successo, una preclusione che dalla sua figura personale si estende alla sua figura politica e poi alla sua policy e quindi al tipo antropologico di coloro che l’hanno votato. L’antiberlusconismo è anche il filo spinato che rinchiude questa maggioranza nei limiti politici e sociali analoghi a quelli che gli poneva Norberto Bobbio nel 1994.
Per conservare al Paese il bipolarismo dell’alternanza, e avere una valida alternativa di centrosinistra, una concorrenza tanto più necessaria dopo la deludente prova di governo del centrodestra, è necessario un ripensamento profondo, ripercorrere la catena di fatti che ci hanno portato fin qui. Incominciando da quando, come scrive Emanuele Macaluso sul Riformista, “l’Unione era all’opposizione [e] tutto si reggeva sull’anti-berlusconismo e l’unità sembrava certa e salda”. Procedendo poi a ritroso, rivedendo i giudizi con cui da sinistra si coprì di sospetti chi, con la Bicamerale, cercava di dare una base “normale” al nostro bipolarismo. Gli schemi angusti che impediscono oggi alla sinistra di allargare il proprio consenso, sono figli di una narrazione politica che recuperava l’argomento berlingueriano della diversità rovesciandolo in contrapposizione, che vedeva Craxi come omogeneo al sistema di potere di stampo democristiano, fatto di clientele e corruzione; una narrativa per cui la divisione si fondava sulle coppie diversità/omogeneità, legalità/illegalità, direzione collegiale e pluralista/leadership caudillista, unità/rottura a sinistra, e si colorava di virtuosi timori (la perdita di democrazia, i rischi di regime). Uno schema che, a ben vedere, aveva esordito nel 1978 quando la linea della fermezza aveva coalizzato l’intero sistema politico contro Psi, radicali e fanfaniani; che era ricomparso nel 1982 con la vicenda P2 e si era consolidato durante la presidenza Craxi; e che aveva avuto la sua consacrazione nell’agosto 1990 quando cinque ministri della sinistra Dc uscivano dal governo pentapartito di Andreotti in polemica con l’approvazione della legge Mammì.
Poco prima della votazione sulla politica estera, era stata approvata in commissione la proposta di legge sul conflitto di interesse: una finta soluzione, utile solo a soddisfare le esigenze ideologiche di alcuni, ma pagata facendo assumere a tutta la coalizione un profilo di anticapitalismo populista. Intanto alla Camera nelle Commissioni Cultura e Comunicazioni procedeva l’iter del ddl Gentiloni, una incredibile legge fatta per una sola azienda, a cui impone di ridurre il proprio fatturato di un quarto: almeno le leggi ad personam di Berlusconi avevano il pudore di apparire valide per intere categorie di persone. Dire che il Governo è caduto per provvedimenti di questo tipo è certo un paradosso. Che però rimanda a un tema di fondo: le ragioni per cui è caduto il Governo Prodi sono sì, aritmeticamente, riconducibili a Rosso e Turigliatto, ma politicamente dipendono dai pregiudizi ideologici, gli steccati che il centrosinistra pone alla propria.
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febbraio 25, 2007