Se «Job Italia» vuol dire cuneo fiscale

ottobre 12, 2014


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore


Un lavoratore oggi prende in busta paga il 50% di quanto costa all’azienda. Che cosa succederebbe per le casse dello Stato se, anche solo per i neoassunti, anche solo per la durata di 4 anni, il lavoratore, invece del 50% prendesse l’80 per cento?

Luca Ricolfi non ha dubbi: con il “job-Italia” – questo il nome che ha dato alla sua proposta – ci sarebbero almeno 300mila posti di lavoro in più. Diminuirebbero i contributi Inps e Inail, ma aumenterebbero le tasse (Iva, Irpef, Irap, Ires) derivanti dal maggior valore aggiunto del lavoro creato da ogni nuovo assunto, che altrimenti non ci sarebbe stato. E siccome il gettito delle tasse è 5 volte quello dei contributi, a un certo punto il minor gettito dei contributi è più che compensato dal maggior gettito delle imposte.

Ricolfi calcola questo punto a 1,4, cioè quando gli assunti in più superano del 40% quelli che le aziende comunque avrebbero assunto. Un’indagine sul campo lascia prevedere una riposta molto positiva delle aziende, il rapporto arriverebbe addirittura a 2,6. Ma anche con un valore 2, sarebbero 600-800 mila posti di lavoro (anzichè i 300 mila nuovi posti tradizionali) con 3 miliardi di gettito netto in più per lo Stato. Ricolfi è mosso da preoccupazioni macroeconomiche, la difficoltà di rispettare i saldi di bilancio, la previsione di un’occupazione che cresce appena di 20.000 unità in presenza di 3 milioni di disoccupati. Io propongo una verifica microeconomica: perché un’azienda dovrebbe assumere questo 40% di dipendenti in più? Retribuire i nuovi assunti più generosamente dei lavoratori con anni di anzianità aziendale creerebbe sicuramente problemi interni.

L’azienda assume solo se prevede di riuscire a vendere di più, perché i lavoratori assunti col nuovo contratto abbassano il costo del lavoro: al limite, a parità di soldi in busta paga, e cioè se il beneficio andasse tutto all’azienda, il risparmio sarebbe del 37,5%! Le “offerte speciali” rompono le abitudini, inducono a prestare attenzione ai vantaggi specifici che il mercato può offrire. Se lo stimolo funziona nei supermercati, perché non dovrebbe funzionare nel mercato del lavoro? In questo senso la proposta di Ricolfi è molto ben congegnata: un grosso vantaggio, per un tempo sufficientemente lungo, condizionato a un solo fatto semplice, assumere qualche lavoratore in più.

Tuttavia, con tutta la sua attrattiva, la proposta dovrebbe scavalcare diversi ostacoli per essere approvata. Supponiamo superabili le difficoltà “normali” di compatibilità con i contratti nazionali. Supponiamo superabile l’art 81 della Costituzione, che non dovrebbe consentire di compensare il taglio di un gettito con i maggiori gettiti che produrrebbero gli effetti del taglio. Ma l’assunzione di personale in più oltre quello che si aveva intenzione di assumere, è una formula talmente vaga da rendere improbabile il consenso parlamentare e pressoché certa la bocciatura della Ragioneria.

Al supermercato come al mercato del lavoro, vien da chiedersi: perché l’offerta speciale non può diventare normale? Se la proposta funziona, perché non generalizzarla? Qui succede il contrario: probabilmente improponibile nel caso ristretto, il “contratto Ricolfi” sarebbe invece sicuramente applicabile nel caso generalizzato.

È da sempre che si parla di riduzione del cuneo fiscale; il successo che, secondo il sondaggio, incontrerebbe la proposta, dimostra che la nostra disoccupazione è dovuta a un costo del lavoro troppo alto; non solo, ed è cosa su cui si farebbe bene a ragionare, dà la misura di quanto dovrebbe essere ridotto il costo del lavoratore marginale rispetto all’attuale perché le aziende aumentino le assunzioni. Estrapolato a tutta la nostra industria manifatturiera, perfino di un terzo. Per carità, nulla a che vedere con la deflazione del 30%, che alcuni (Hans Werner Sinn nel suo ultimo libro, per dirne uno) freddamente ci predicono e severamente ci predicano. Resta però il problema di trovare non già la copertura per un esperimento, ma la soluzione sistemica al taglio del cuneo fiscale.

E questa non può trovarsi altro nel taglio delle spese. D’altra parte è proprio da lì che parte la riflessione di Ricolfi: «Renzi dichiara – così inizia il suo articolo – che nel 2015 i tagli alla spesa pubblica non saranno solo di 17 bensì di 20 miliardi; nelle scartoffie, invece, la spesa pubblica diminuisce di appena 4 miliardi». Come conta la capacità comunicativa di Renzi quando annuncia «una rivoluzione nel mercato del lavoro, per dare una speranza ai disoccupati e agli esclusi», così conta una proposta come questa per dare uno scrollone a paure e pessimismi. Ma una scorciatoia non è una strada: la soluzione sistemica alle tremende cifre della nostra disoccupazione passa inevitabilmente attraverso la riduzione dei costi della nostra spesa pubblica.

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di Luca Ricolfi – La Stampa, 08 ottobre 2014

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