Salvataggio che tradisce il mercato

aprile 2, 1996


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore


«Liberisti battete un colpo», ha chiesto «Il Sole 24 Ore» del 27 marzo, traendo spun­to dalla «liquidazione im­propria sotto l’urgere del crack» predisposta dal Teso­ro per il banco di Napoli. Interrogandosi, alla fine, su quale sarebbe stata la posizione del Polo e dell’Ulivo di fronte alla vicenda, para­digmatica del perdurate dei salvataggi pubblici a fronte di disastri pubblici.

Se bisogna giudicare dalle reazioni espresse dalle parti politiche all’indomani della nota del Tesoro, ebbene esse sono tutte sostanzialmente positive, certo con venature diverse poiché il centrode­stra per bocca dei suoi espo­nenti locali preferisce criti­care l’intervento in quanto avrebbe preferito che il Te­soro ricapitalizzasse prima l’istituto mentre il centro si­nistra è più prudente e sot­tolinea la necessità di evita­re pericolose crisi di credibi­lità del sistema del credito nel suo complesso.

Personalmente, e lo dico come candidato al Senato sotto il simbolo dell’Ulivo, dichiaro con tutta l’energia di cui sono capace di non ritrovarmi in alcuna di que­ste prese di posizione.

Non desidero qui entrare nelle technicalities dell’in­tervento annunciato. Di fronte ai disastrosi risultati ’95, a pochi mesi dal presti­to obbligazionario di 2.500 miliardi si affronta comun­que in qualche modo il pro­blema dell’assetto proprieta­rio: anche se resterà tutto da vedere quanto a tempi e modi del successivo smobi­lizzo della quota di 2mila miliardi assunta — ieri mille, oggi altri mille — dal Te­soro direttamente; e quanti degli istituti coinvolti nel prestito ’95 saranno disponibili alla conversione della propria quota in partecipazione, e quanti invece si rammaricheranno di non aver seguito la Comit nel suo fermo no di allora.

Mi limito ad affermare che tutto ciò sarebbe ben di­versamente considerato dai mercati internazionali che guardano con scetticismo al­l’Italia, se fosse avvenuto all’interno di una solida corni­ce di impegni — quanto a tempi e quanto a procedure — della privatizzazione nel loro complesso degli istituti di credito controllati da Fondazioni e associazioni. È ovvio che privatizzando sarebbero soprattutto gli istituti meglio avviati e ge­stiti a spuntare prezzi più interessanti, e che per quelli come il Banconapoli sareb­bero stai egualmente neces­sari interventi di refitting. Ma mancando certezze su privatizzazioni vere, il messaggio che continua a passa­re è unicamente che — a onta di ogni chiacchiera sul­la necessità di gestire le banche come aziende — Te­soro e, diciamolo, anche Bankitalia, restano fermi al tabù che nessuna banca in Italia possa fallire mai, con tanti saluti alla lezione della Baring, la banca della regi­na. Mentre i dati sulle soffe­renze sempre più allarmanti e sul peso dì un personale sempre più ridondante co­stituiscono evidenze sem pre più da allarme rosso. Al­le quali si continua a non affiancare l’evidenza delle migliori performances degli istituti privati.

Su questo fronte, io ho la coscienza a posto, avendo predisposto nella disciolta legislatura insieme a Gia­vazzi, Penati e De Nicola un disegno di legge volutamen­te rigido, in ordine agli obiettivi da conseguire. Le reazioni sono state assai aspre, manifestando la stes­sa sostanziale tendenza alla prudente conservazione che continua a caratterizzare un po’ tutte le parti politiche, di fronte alle banche pubbli­che, che ritroviamo oggi nel­le reazioni al salvataggio di Via Toledo.

Non sono un don Chi­sciotte, e non nutro dunque particolari illusioni sulla fa­cilità di affermare nella vita pubblica italiana — in am­bedue gli schieramenti — la necessità di affermare ampie liberalizzazioni sul lato dell’offerta: dal lavoro, alla fornitura di beni e servizi tra cui il credito, fino al ruolo stesso dello Stato. Ma è ciò che bisogna continuare a fa­re. I giornali italiani dei gior­ni scorsi riportavano il rad­doppio dell’utile di esercizio della Banca di Roma: 88 mi­liardi nel ’95, su 179mila de­positi. L’Economist due set­timane fa sottolineava che il medesimo istituto è «sinto­maticamente assente» dalle graduatorie sul rating di fi­ducia curate da Moody’s e Standard & Poor’s, aggiun­gendo: «omissione che en­trambe le agenzie definiscono “insolita” per un istituto di tali dimensioni». A chi credono di più i mercati, ai ben 88 miliardi di utile di esercizio, oppure all’Econo­mist, Moody’s e S&P?

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