«Liberisti battete un colpo», ha chiesto «Il Sole 24 Ore» del 27 marzo, traendo spunto dalla «liquidazione impropria sotto l’urgere del crack» predisposta dal Tesoro per il banco di Napoli. Interrogandosi, alla fine, su quale sarebbe stata la posizione del Polo e dell’Ulivo di fronte alla vicenda, paradigmatica del perdurate dei salvataggi pubblici a fronte di disastri pubblici.
Se bisogna giudicare dalle reazioni espresse dalle parti politiche all’indomani della nota del Tesoro, ebbene esse sono tutte sostanzialmente positive, certo con venature diverse poiché il centrodestra per bocca dei suoi esponenti locali preferisce criticare l’intervento in quanto avrebbe preferito che il Tesoro ricapitalizzasse prima l’istituto mentre il centro sinistra è più prudente e sottolinea la necessità di evitare pericolose crisi di credibilità del sistema del credito nel suo complesso.
Personalmente, e lo dico come candidato al Senato sotto il simbolo dell’Ulivo, dichiaro con tutta l’energia di cui sono capace di non ritrovarmi in alcuna di queste prese di posizione.
Non desidero qui entrare nelle technicalities dell’intervento annunciato. Di fronte ai disastrosi risultati ’95, a pochi mesi dal prestito obbligazionario di 2.500 miliardi si affronta comunque in qualche modo il problema dell’assetto proprietario: anche se resterà tutto da vedere quanto a tempi e modi del successivo smobilizzo della quota di 2mila miliardi assunta — ieri mille, oggi altri mille — dal Tesoro direttamente; e quanti degli istituti coinvolti nel prestito ’95 saranno disponibili alla conversione della propria quota in partecipazione, e quanti invece si rammaricheranno di non aver seguito la Comit nel suo fermo no di allora.
Mi limito ad affermare che tutto ciò sarebbe ben diversamente considerato dai mercati internazionali che guardano con scetticismo all’Italia, se fosse avvenuto all’interno di una solida cornice di impegni — quanto a tempi e quanto a procedure — della privatizzazione nel loro complesso degli istituti di credito controllati da Fondazioni e associazioni. È ovvio che privatizzando sarebbero soprattutto gli istituti meglio avviati e gestiti a spuntare prezzi più interessanti, e che per quelli come il Banconapoli sarebbero stai egualmente necessari interventi di refitting. Ma mancando certezze su privatizzazioni vere, il messaggio che continua a passare è unicamente che — a onta di ogni chiacchiera sulla necessità di gestire le banche come aziende — Tesoro e, diciamolo, anche Bankitalia, restano fermi al tabù che nessuna banca in Italia possa fallire mai, con tanti saluti alla lezione della Baring, la banca della regina. Mentre i dati sulle sofferenze sempre più allarmanti e sul peso dì un personale sempre più ridondante costituiscono evidenze sem pre più da allarme rosso. Alle quali si continua a non affiancare l’evidenza delle migliori performances degli istituti privati.
Su questo fronte, io ho la coscienza a posto, avendo predisposto nella disciolta legislatura insieme a Giavazzi, Penati e De Nicola un disegno di legge volutamente rigido, in ordine agli obiettivi da conseguire. Le reazioni sono state assai aspre, manifestando la stessa sostanziale tendenza alla prudente conservazione che continua a caratterizzare un po’ tutte le parti politiche, di fronte alle banche pubbliche, che ritroviamo oggi nelle reazioni al salvataggio di Via Toledo.
Non sono un don Chisciotte, e non nutro dunque particolari illusioni sulla facilità di affermare nella vita pubblica italiana — in ambedue gli schieramenti — la necessità di affermare ampie liberalizzazioni sul lato dell’offerta: dal lavoro, alla fornitura di beni e servizi tra cui il credito, fino al ruolo stesso dello Stato. Ma è ciò che bisogna continuare a fare. I giornali italiani dei giorni scorsi riportavano il raddoppio dell’utile di esercizio della Banca di Roma: 88 miliardi nel ’95, su 179mila depositi. L’Economist due settimane fa sottolineava che il medesimo istituto è «sintomaticamente assente» dalle graduatorie sul rating di fiducia curate da Moody’s e Standard & Poor’s, aggiungendo: «omissione che entrambe le agenzie definiscono “insolita” per un istituto di tali dimensioni». A chi credono di più i mercati, ai ben 88 miliardi di utile di esercizio, oppure all’Economist, Moody’s e S&P?
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aprile 2, 1996