Una reazione parossistica. È il giudizio che vien da dare tirando la somma a oggi della vicenda Parmalat, mettendo a confronto l’entità del fatto e le reazioni che ha scatenato. Una società di un Paese membro dell’Europa che insieme abbiamo fondata, con cui condividiamo la moneta fin dal suo primo giorno, una società che gestisce da anni aziende del “Bel Paese”, sale al 30% di partecipazione in una nostra impresa quotata, acquistando azioni già detenute da fondi esteri: tanto basta perché da un lato si senta l’imprescindibile urgenza di ridefinire principi scritti in trattati di rango costituzionale e di prospettare lo Stato come investitore di ultima istanza, dall’altro si ceda all’irrefrenabile tentazione di flagellarsi compiangendo la debolezza della nostra imprenditoria e lamentando la fragilità del nostro capitalismo.
Tanto da far pensare che la vicenda Parmalat abbia funzionato nell’inconscio come valvola di sfogo per timori di ben altro rilievo, la tenuta di istituzioni che rischiano di essere lacerate, la conservazione di un’identità culturale che potrebbe essere sconvolta da fenomeni impossibili da contenere.
Preoccupazioni e incertezze possono autoavverarsi, bisogna uscirne quanto prima. La reazione sul caso Parmalat ha scosso principi su cui si regge la nostra economia: per evitare che qualche crepa nascosta si allarghi e diventi lesione, è bene ribadire che la nostra economia poggia su un saldo fondamento: il mercato. Non il mercato finché è possibile, ma il mercato perché è sempre necessario: necessario perché produce non solo ricchezza, come cinicamente gli viene riconosciuto, ma soluzioni. Nel caso specifico del mercato per il controllo societario, le soluzioni già ci sono, scritte in regole ampiamente collaudate, e debitamente presidiate. Basterebbe lasciarle funzionare senza turbative, senza cioè decretare che questa volta la partita avrà dei tempi supplementari, o che un’altra volta sarà permesso fare entrare nuovi giocatori, magari robustamente dopati. Il mercato non assicura l’esito di una partita, garantisce che il campionato non finisce.
I problemi difficili ci sono: dimensione d’impresa, limiti alla crescita dimensionale, stentatezze di un capitalismo senza capitali; se ne è discusso in convegni di cui si è perso il conto, se ne è letto in libri di cui sono pieni gli scaffali.
Eppure alcuni ce l’hanno fatta a conquistare successi mondiali, Del Vecchio, Buzzi, Rocca, Benetton, Prysmian, Della Valle, Case New Holland, e facciamo torto a chissà quanti altri. Scaroni, Conti e Guarguaglini riescono ad avere successo in mercati complicati. Marchionne ci sta provando, sorretto dall’affettuoso incoraggiamento di politici e sindacalisti, a far diventare player mondiale un’azienda che qualche anno fa era sull’orlo del fallimento. Ferrari e Ducati si sono imposte in competizioni in cui aziende cento volte più grandi impegnavano soldi e prestigio.
Non ci sono ricette per il successo. Non ci possono essere, perché ogni successo è costruito su un’innovazione – di prodotto, di processo, di organizzazione – e le innovazioni non si programmano. Ma una cosa sappiamo per certo: che i successi si creano nel mercato, solo nel mercato, che non per nulla è stato definito procedura per la scoperta. Sappiamo anche che i successi si creano a causa del mercato, perché gli imprenditori sanno che nel mercato possono vedere soddisfatti i loro interessi. E tu chiamali, se vuoi, avidità. Se i comportamenti sono mossi da interessi, e vogliamo modificare i comportamenti, è sugli interessi che bisogna agire. Si distorcono gi interessi quando il mercato della politica offre vantaggi maggiori di quelli che uno si deve conquistare sul mercato vero. Si riducono gli interessi a crescere fuori, quanto più l’orticello di casa viene protetto dalla concorrenza. Si mortificano gli incentivi quando si divarica la forbice tra le imposte fatte pagare all’imprenditore e i servizi che lo Stato fornisce alla sua impresa.
Il controllo proprietario di imprese da parte dello Stato, non é considerato dalle norme europee di per sé lesivo della concorrenza. Ma discutendosi di strade di successo, va ribadito che inevitabilmente le aziende pubbliche hanno obbiettivi, incentivi, rischi, diversi da quelli degli imprenditori. Il limite della famosa contrapposizione tremontiana – il mercato quando possibile, il Governo quando necessario – è che se è il Governo a decidere quando è necessario, tende a farlo senza lasciare che il mercato faccia il possibile che non piace al Governo: come si è visto nel caso in questione. Il ministro Tremonti, con le recenti nomine dei vertici, ha dimostrato di volere, alla guida delle imprese di cui detiene il controllo, da manager nittiani, eredi di quelli che hanno segnato i tempi migliori delle partecipazioni statali. Ma un conto è ricollegarsi alle pratiche migliori del passato, altro è riproporre quel modello. Quello era stato concepito per un salvataggio prima e una ricostruzione poi, oggi navighiamo nel mondo globalizzato.
Globalizzata è pure la finanza: i nostri imprenditori che ce l’hanno fatta, sono riusciti a finanziarsi superando i limiti del nostro sistema bancocentrico e la limitatezza della nostra Borsa. Ci piacerebbe essere smentiti, ma nessuna storia di successo ha avuto bisogno di cordate, e nessuna cordata ha prodotto storie di successo.
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