In un articolo di giornale, di solito la conclusione dimostra la validità della premessa. Ci sono invece articoli in cui la conclusione, invece che dimostrare, realizza ciò che viene affermato all’inizio. Un esempio di come si possano “fare cose con le parole”, secondo la famosa espressione di J.L.Austin, è il domenicale di Barbara Spinelli (Veri e finti riformisti, La Stampa, 14 Gennaio).
Inizia dicendo che l’uso della parola riformista è divenuto “smodato”, “dilagante”, “sciupato dall’uso”; e conclude che Rifondazione Comunista e i suoi ministri sono oggi più riformatori dei “cosiddetti riformisti”. Così aumenta la confusione che denuncia, fa, essa sì, e letteralmente, un uso “smodato” della parola. I lettori de La Stampa, che ricordano il segretario di Rifondazione, Franco Giordano, esclamare esultante “Li abbiamo fermati”, e che si trovano, sopra il suo articolo, a tutta pagina “Fassino: riforme o perderemo”, non hanno dubbi su chi spinga e chi freni sulle riforme. Come non ne hanno i lettori dell’Unità, che domenica hanno letto il “Riformare è decidere” di Gianfranco Pasquino, un titolo in cui c’è tutta la risposta alla dialettica spinelliana.
Tra l’inizio e la conclusione dell’articolo sta l’acrimoniosa caricatura che Barbara Spinelli fa del “suo” riformista. Che “si sente sperduto e inerme”; propone “raramente le riforme concretamente fattibili”, “non si sporca le mani e resta fuori dal gioco”, “consiglia riforme impopolari”, “sceglie lo scranno del commentatore sui giornali, così gode dell’impunità, non è neppure costretto a rispondere di quel che scrive” e può “contraddirsi senza timore”. Che ha qualcosa di giacobino, assomiglia ai falchi della guerra in Irak, senza peraltro avere “lo slancio o l’abnegazione” del rivoluzionario, avendo preferito gustare “il trasformismo o la celebrità”. Su questa massa di finti (bontà sua) riformisti, si erge la figura, nobile e austera, del “vero riformista”: che, a differenza dell’Orfeo di Rilke, “non divora il campo a grandi morsi, ma lo percorre piano e lo mastica”; dove masticare “ è fare sul serio riforme, pagarne il prezzo”.
Vien perfino da chiedersi chi Barbara Spinelli abbia preso a modello per la sua descrizione. Ma che ci siano riformisti che in quel modello proprio non ci possono rientrare, la Spinelli lo riconosce, senza che ci sia bisogno di illustrarle alcune storie personali? Dove li mette, quelli? O masticatori o niente? Quell’elogio della lentezza (in Italia, poi!) lascia interdetti: vien da domandarsi che ne pensino i giovani ricercatori che premono senza speranza contro le chiusure gerontocratiche, i figli a cui viene tolto per dare pensioni a padri non ancora vecchi, gli outsider vittime di una squilibrata ripartizione delle tutele sul posto di lavoro, quelli che sentono le ingiustizie di una società in cui le relazioni contano più del merito, chi chiede giustizia. Tutti coloro a cui “non basta dire no”. E’ (anche) per colpa di queste ingessature corporative se il nostro Paese negli anni prossimi non approfitterà della congiuntura favorevole e ancora una volta crescerà meno dei nostri partner europei: ci consoleremo dicendo che ci sono, è vero, quelli che ostacolano, ma “fanno grandi sforzi”?
I riformisti non sono degli sconfitti, a volte le loro proposte vengono realizzate in ritardo o parzialmente. Riforme se ne sono anche fatte, da quelle del lavoro di Treu e Biagi, alle privatizzazioni del primo Prodi, all’euro di Ciampi, al mercato finanziario e Bankitalia di Tremonti; recentemente, quelle meno strutturali, ma non per questo meno osteggiate, dei taxi, dei medicinali, delle professioni. La riforma sulle pensioni del primo Berlusconi venne bloccata dai sindacati: sull’appello per stigmatizzare la scelta di rinunciarvi raccolsi la firma del Nobel Modigliani, di Paolo Sylos Labini, di Romano Prodi. Per ricordare che il problema delle riforme non è un problema semantico, ma politico, (così come il problema dei riformatori non è psicologico, ma anch’esso politico) e che a renderlo acuto sono, oggi, i difficili equilibri politici interni a questa coalizione. Difficili lo erano anche in quella precedente, ed è vero che il riformista considera la sconfitta di Berlusconi “una sciagura”: intendendo però non la sua sconfitta alle elezioni, bensì quella sulla strada delle riforme. Apprezzabili quanti, nella sinistra radicale, fanno sforzi “per correggersi e correggere le storture italiane”, ma non si dimentichi che quelle storture hanno carattere ideologico, e si chiamano opposizione al mercato, alla concorrenza, alla selezione meritocratica.
Chi esibisce il “percorrere piano e masticare lento” come metodo si fa complice delle difficoltà che è chiamato a superare. Nell’appello per le pensioni del 1994, ricordo che Franco Modigliani volle inserire la parola “lungimiranza”. Chi per prestare orecchio alla voci di dissenso, rinuncia a guardare lontano, non solo perde l’Euridice che doveva salvare, ma finisce anch’egli agli inferi.
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Veri e finti riformisti
di Barbara Spinelli – La Stampa, 14 gennaio 2007
gennaio 16, 2007