Il progetto Gasparri
Sulla RAI, c’era stato lo sprazzo di qualche interessante idea all’inizio della passata legislatura. A spegnerlo, era subito intervenuto il “partito RAI”. E si era ritornati al solito programma: lamentele e polemiche tante, idee e soluzioni poche. Adesso il Ministro Gasparri ha presentato, e il Governo approvato, il ddl “Norme di principio in materia di riassetto della RAI”: un testo ambizioso, che contiene interessanti novità sul piano dei principi, ma che, quando si passa a come attuarli, presenta contraddizioni interne.
Il testo governativo distingue “servizio pubblico” e “pubblico servizio”. Il “servizio pubblico” è costituito dalla “attività di informazione radiotelevisiva, da qualunque emittente esercitata”. Accanto a questo vi sono “ulteriori e specifici compiti di pubblico servizio” a cui è tenuta “la società concessionaria del servizio pubblico generale radiotelevisivo”. (Non si poteva essere un po’ più chiari, magari con l’aiuto del Tommaseo e del Battaglia?)
I principi fondamentali del sistema radiotelevisivo nel suo complesso sono: “la garanzia di libertà e di pluralismo”, sia passiva (libertà di ricevere informazioni), sia attiva (libertà di comunicarle); “l’obiettività, la completezza, e l’imparzialità dell’informazione; l’apertura alle diverse opinioni e tendenze politiche”; ecc. Pubblici e privati sono in regime di concorrenza, alla cui tutela è dedicato l’intero capo II.
Gli “ulteriori e specifici compiti” sono dettagliati in un elenco di 18 punti: l’educazione, la valorizzazione di opere “teatrali, cinematografiche e musicali di alto livello artistico e maggiormente innovative”; il finanziamento alla produzione di opere europee. Oltre a questi obiettivi di qualità, ce n’è uno specifico per “l’accesso alla programmazione in favore dei partiti e dei gruppi” politici. Il costo di fornitura di questi compiti è coperto dal canone.
Schematizzando: il pluralismo è una funzione svolta dall’intero sistema radiotelevisivo, pubblico privato, in condizioni di concorrenza. Il potere politico, democratica espressione dei cittadini, elenca e finanzia alcuni beni che il mercato spontaneamente non fornirebbe. Questi beni sono certe caratteristiche “di qualità”, più un’ulteriore garanzia di pluralismo, una sorta di “ammortizzatore culturale” che, analogamente all’ammortizzatore sociale, fornisce una rete di sicurezza a chi potrebbe non essere adeguatamente tutelato nel mercato concorrenziale.
Questo impianto concettuale rimuove gli ostacoli alla privatizzazione della RAI. Gasparri può quindi procedere a definire le modalità con cui lo Stato dismette la sua partecipazione. Egli dunque disconosce le opinioni di chi afferma che gli obbiettivi, sia di qualità, sia di pluralismo, possano essere conseguiti solo con una presenza pubblica; non accetta né quanto “predicano” intellettuali quali Dario Antiseri e Giovanni Sartori, né quanto “razzolano” governi europei da Schroeder a Aznar. In particolare disconosce la tesi che questi “compiti ulteriori e specifici” non potrebbero essere svolti né confinandoli in una rete dedicata, né inserendoli nel palinsesto di reti commerciali, poiché detti compiti proprio in ciò consisterebbero, in una “qualità” che trascende i contratti di servizio, che deve pervadere tutti i programmi di tutte le reti, anzi che deve permeare la cultura dell’intera società concessionaria del servizio pubblico: che di conseguenza deve rimanere in mano pubblica.
Il Governo non accetta queste tesi: elenca i compiti ulteriori e specifici, assegna alla RAI per 12 anni la concessione del servizio pubblico generale televisivo. Le ragioni per cui si può privatizzare sono esplicite, quelle per cui si deve farlo sono conseguenza dell’avere radicato il pubblico servizio in un mercato concorrenziale, facendolo perciò oggetto di particolari tutele. Il pluralismo incontra un limite nella scarsità delle risorse (le frequenze dell’etere, ma anche il tempo degli spettatori): si deve operare una selezione tra le opinioni ed espressioni di tutti gli individui. Lo si può fare o per decisione politica, o con l’automatismo del mercato.
Se c’è una cosa che il mercato concorrenziale sa fare, è proprio selezionare risorse scarse secondo le preferenze, che si tratti di assegnare spazi sugli scaffali di un super mercato, o di individuare segmenti sempre più specifici di gusti e inventare modi per soddisfarli. Il Governo, decidendo di privatizzare, ha scelto il mercato: quella radiotelevisiva diventa così una “normale” attività industriale.
Questi principi sono una novità positiva e importante. Peccato che, al momento di applicarli, il ddl Gasparri incappi in un’ambiguità e in una contraddizione.
L’ambiguità. Aboliti gli steccati tra i vari tipi di media, il ddl Gasparri pone a ogni operatore il limite di non superare il 20% delle risorse complessive del settore integrato delle comunicazioni. (tranne che per l’ex monopolista telefonico, a cui si applica un limite del 10%). Nel calcolo delle risorse entra tutto, dal canone alle televendite, dalla pubblicità alle sponsorizzazioni, dalle Tv ai giornali. Che cosa comporta questo in pratica per gli operatori presenti e futuri? Difficile dirlo, il ministro non ha fornito al pubblico elementi quantitativi: ma non si teme di sbagliare pensando che egli abbia verificato l’impatto della norma sulle proprietà del Presidente del Consiglio, e che la verifica abbia fornito all’interessato risultati rassicuranti.
La contraddizione. Il ddl prevede che vengano vendute quote della RAI mediante OPV, che nessuno possa detenere più dell’1% del capitale e che le quote vincolate a sindacato di voto non possano eccedere il 2%. Ma “si dimentica” di dire la data certa in cui il Tesoro uscirà del tutto dal capitale: fino a quel momento, in pratica, il Tesoro manterrà il suo potere, e la vendita di quote di capitale non comporterà privatizzazione. Ma quand’anche si arrivasse a vendere tutto, un’azienda a proprietà così parcellizzata, con una gestione assembleare di tipo cooperativo, sarebbe un’azienda debolissima. La sinistra, che coltivò in passato simili utopie, le ha abbandonate da tempo. Sarebbe questa l’azienda protagonista forte di un vivace mercato concorrenziale? Se la va proprio a cercare, il ministro Gasparri, l’accusa di avere ibernato il vantaggioso (per Mediaset) duopolio pubblico privato, e di avere assicurato che, finito il periodo glaciale, dal disgelo esca una RAI che non possa creare problemi al concorrente.
Gli errori, si dice, sono peggio dei crimini. Credo che ci sia un errore all’origine del costruttivismo giuridico che ha partorito questa incredibile “public company per legge”. L’idea stravagante che ci sia una corrispondenza tra partecipare al capitale e far sentire la propria voce; che quanto più è frammentato l’azionariato, tanto più sia garantito il pluralismo; che il pluralismo sia il risultato di una maxilottizzazione del capitale.
Il “chiodo” a cui è appeso il progetto del Governo è di buona qualità: un sistema televisivo composto da aziende private, non confinate da steccati artificiali, in concorrenza tra loro, col correttivo di “ulteriori e specifici compiti” finanziati dal pubblico. Quello che non tiene è il “muro” in cui conficcare il “chiodo”: non si capisce se il mercato che Gasparri disegna sarà concorrenziale, ed é escluso che la RAI, con quella struttura proprietaria, sia un concorrente vivace. Nella proposta che avanzai alcuni mesi orsono, e che ebbe autorevoli apprezzamenti anche dalla maggioranza, io suggerivo il procedimento inverso: prima costruire il muro e poi piantare il chiodo; dall’esigenza di dar vita a un mercato concorrenziale derivare assetto del settore e modalità della privatizzazione.
Ciononostante il “chiodo” predisposto dal Governo è importante. Noi dell’opposizione dovremmo prenderlo come punto fermo e, tenuto conto delle limitate possibilità di modificare la volontà della maggioranza, dovremmo puntare tutto per evitare che si pregiudichi per sempre la possibilità di un’autentica riforma del settore. Quindi priorità assoluta: evitare di fare della RAI un ircocervo pubblico privato.
Se disponessi di un solo emendamento, lo userei per sopprimere il comma 3 dell’art.19, quello che dà mandato per incominciare a vendere qualcosa. Vendere a privati quote dell’1% lasciando il controllo al Tesoro non elimina gli inconvenienti del controllo pubblico e non dà i vantaggi della concorrenza alla pari: quindi è una cosa senza senso. Consente di farsi schermo dei privati per forzare compromessi tra politici e management, alle spalle degli azionisti privati, Non basta quello che è successo con l’Enel? Il ddl vuole che le norme che vincolano i limiti del possesso azionario vengano scritte nello statuto e rese immodificabili. Così la vendita di poche quote, forse anche solo di una, immetterebbe nella nostra maggiore azienda mediatica un virus che la condannerebbe a non poter mai essere governata da una solida maggioranza azionaria.
Certo, privatizzare tutta la RAI in un sol colpo è impresa politicamente complessa. Ma allora perché vendere pezzi del tutto senza privatizzare niente, come vorrebbe Gasparri, e non invece vendere del tutto un pezzo, per privatizzare qualcosa? Una rete o due reti, si può discuterne. Era il progetto dell’Ulivo nella passata legislatura, l’opposizione sta lavorando a un testo che dovrebbe essere reso noto tra poco. A questo progetto il ddl Gasparri offre un involontario aiuto: perché se ritiene plausibile che ci sia chi è disposto a comperare quote dell’1% che non dànno alcun potere in un’azienda gestita da manager autoreferenziali, non potrà più obbiettare che è impossibile trovare chi compera la quota di controllo di una rete RAI, e il potere di gestirla.
E se invece mi fossi sbagliato, e questo Governo se la sentisse davvero di vendere tutta la RAI in blocco? Il sistema per farlo é bell’e pronto, quello dei buoni di acquisto negoziabili, che De Nicola, Giavazzi, Penati ed io proponemmo per le banche possedute da fondazioni: ebbe il premio Tarantelli per la migliore idea economica dell’anno. Se ci riesce, ministro, altro che premio, un monumento le facciamo. Un monumento equestre, un cavallo al galoppo per Viale Mazzini.
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settembre 20, 2002