Intervista di Aldo Torchiaro
Debenedetti ricorda Colaninno: “Seppe vincere la sfida all’impossibile”
A una settimana dalla scomparsa di Roberto Colaninno abbiamo intervistato Franco Debenedetti , manager, economista e più volte Senatore che accompagnò Colaninno dagli esordi lungo tutta una sfolgorante carriera.
Come definirebbe Roberto Colaninno?
«Uno dei protagonisti dell’economia italiana degli ultimi decenni: ma con la particolarità di essersi dato, e superato, obbiettivi ambiziosissimi, al limite dell’impossibile».
Una lunga carriera, quella di Colaninno, con tanti successi e qualche stop.
«Carriera non è la parola giusta, è un percorso che per schematizzare, dividerei in tre fasi. La prima: dalla fabbrichetta di Mantova al governo di una multinazionale. La seconda: da primo fornitore privato di telefonia mobile, a ideatore e protagonista della scalata a Stet, quella che verrà chiamata la madre di tutte le privatizzazioni. La terza: dalla finanza e dall’industria a quella che chiamava “la mia università”, dove studiare le tecniche di progettazione delle attività digitali, con l’Interaction Design Institute di Ivrea» .
Vediamoli nel dettaglio.
«”Il primo tempo”» è il titolo della sua biografia fino al 2006. La nostra Gilardini (dei fratelli Carlo e Franco, ndr.) aveva comperato una grossa fabbrica di filtri, e questo ci aveva portato a incontrare sul mercato Colaninno come concorrente, piccolo ma vivacissimo. Finì che lui accettò di venderci la fabbrichetta di filtri per fare qualcosa di grosso insieme. La conclusione di un contratto con gli americani per il diritto a usare il loro marchio e rilevare le loro fabbriche in Europa fu il primo lavoro che facemmo insieme, e fu l’inizio della nostra amicizia. Io mettevo a posto le fabbriche, lui conquistava mercati. E fu la Sogefi, che Gilardini portò in Borsa».
Quando si separarono le vostre strade?
«Umanamente, mai: ancora a distanza di anni, il ricordo di una clausola “furbastra” che ero riuscito a infilare nel contratto con gli americani ci metteva allegria. Ma io, con i referendum Segni, l’elezione diretta dei sindaci iniziai a interessarmi direttamente alla politica, e dopo la “discesa in campo”, mi candidai e fui eletto senatore. Naturalmente mi dimisi da ogni carica in Olivetti e in Gilardini, compreso quella di presidente di Sogefi».
E Colaninno?
«Mio fratello l’aveva nominato amministratore delegato di Olivetti, dove le cose andavano malissimo nei prodotti tradizionali. Ma Elserino Piol, altro manager illuminato, aveva intravisto l’avvento della telefonia mobile: mio fratello capisce che questo poteva essere il salvataggio e il futuro di Olivetti: e Omnitel, un’azienda privata che si mette a far concorrenza al monopolio Stet‐Telecom, fu da subito un successo».
Quando finisce l’avventura di Omnitel?
«Quando le banche rifiutarono di fare un prestito all’Olivetti, Colaninno capisce che bisogna far cassa. Deve vendere una partecipazione di minoranza a Mannesmann, la quale stava mettendo insieme i pezzi di quella che sarà Vodafone. Sembrava mission impossibile perfino a Carlo: Roberto vendette un terzo di Omnitel realizzando l’equivalente di 7 miliardi di euro. Ma se le banche non facevano credito all’Olivetti, a rischiare di fallire era l’IRI; anche l’Italia doveva vendere. I Governi Ciampi e Amato avevano spianato la strada, nella XII legislatura coi governi Berlusconi e Dini si incomincia a fare sul serio».
E questo mette un tarlo nella mente di Colaninno: se lo Stato vende Stet, perché non può essere Olivetti a comperarla?
«Intanto c’era un ostacolo legislativo: la legge Ciampi chiedeva che, per ogni settore che veniva privatizzato, venisse prima costituita un’autorità di regolazione. Io cercai di far sì che le legge costitutiva dell’autorità per l’energia elettrica e del gas fosse allargata a comprendere anche norme specifiche per le telecomunicazioni, ma i DS si opposero: volevano che fosse si facesse una legge apposita per le telecomunicazioni per avere l’occasione di inserire norme che ponessero limiti alle televisioni di Berlusconi. E questo ritardò parecchio l’operazione di privatizzazione».
Che soluzione trovò Colaninno in quel caso?
«Colaninno capisce che un outsider può comprare Stet solo in modo limpido, lanciando un’OPA: sarà il mercato a determinare il valore dell’azienda. Dove trovare i soldi? Intanto vendendo a Mannesmann i 2/3 di Omnitel ancora in mano a Olivetti. Poi coinvolgendo industriali (i cosiddetti bresciani) in un’operazione così ambiziosa. E infine chiedendo un prestito ad una grande banca americana. E procurandosi il necessario consenso politico. Della maggioranza di governo faceva parte anche Rifondazione Comunista. Ero in vacanza quando mi raggiunge la telefonata di Ciampi: “Franco, ho convinto Bertinotti, vendiamo Telecom tutta intera.”»
Spallata dopo spallata avete fatto fare qualche passo avanti a un sistema ingessato.
«Da allora quasi ogni mattina prendevamo un caffè al bar di Piazza Sant’Eustachio e a fare il punto di una partita appassionante, che finirà con il tappo di champagne che salta fuori dalla finestra di Mediobanca: la più grande OPA italiana di sempre (e una delle più grandi europee) si era conclusa con successo. Dopo di che al caffè di Sant’Eustachio si prese a parlare di come portare Stet alla redditività: intanto vendendo le partecipazioni estere e badando invece di non perdere le nuove occasioni dell’economia digitale, per esempio dando vita a un mega portale web. Sempre avanti».
Al mondo digitale è legata anche l’idea pioneristica della vostra università a Ivrea, ce la racconta?
«Questo è il collegamento con quella che ho chiamato la terza fase della carriera di Roberto Colaninno. Nasce da un’istanza “sentimentale”, voler lasciare a Ivrea qualcosa di duraturo in riconoscimento alla città che aveva permesso al capo di una fabbrichetta di Mantova di diventare quello di una delle massime aziende italiane. La chiamava “la mia università”: mia moglie convince me a convincere Colaninno a fare qualcosa di nuovo e di funzionale all’economia digitale: un istituto di progettazione delle interazioni, specializzato per le telecomunicazioni».
Il progetto prese piede?
«Eccome. La cosa aveva interessato anche i guru dell’università di Stanford. Ricordo tra gli altri Bill Verplank, l’inventore dei simboli con cui si indicano gli “oggetti” e le “azioni” dei computer, e Terry Winograd, di Google, noto per il lavoro pionieristico sul linguaggio naturale. Nel giugno 2000 avevamo portato a bordo Gillian Crampton Smith, direttrice e persona chiave dell’iniziativa, il cda di Telecom delibera di fondare Interaction Design Ivrea dotandola di 39 milioni di euro per il periodo 2000‐2005; fatto e approvato il programma didattico, scritto lo statuto e il business plan per cinque anni. A dicembre è inaugurato l’edificio, ricavato da Ettore Sottsass dall’edificio per le ricerche di Olivetti, a gennaio 2001 inizia l’attività di ricerca, a settembre arrivano i primi trenta studenti dall’estero».
Poi però si ferma, cosa è intervenuto?
«Un’indagine della Procura (finita al solito in niente) su un preteso conflitto di interesse in Seat Pagine Gialle mette in allarme alcuni soci bresciani di Colaninno, che nel luglio 2001 finisce per cedere a Pirelli il controllo di Olivetti‐ Telecom. Venendo meno Telecom, l’università è sprovvista dei fondi necessari a andare avanti, e si ferma. Riattivarla sarebbe il miglior riconoscimento per il grande esempio di vita di Roberto Colaninno».
E arriviamo così alla Piaggio, alla sfida della mobilità sostenibile.
«Nel 2002 Colaninno riparte acquisendo Immsi, società del settore immobiliare, che trasforma in una holding industriale tramite cui nel 2003 acquisisce Piaggio. Nel dicembre 2004 ne amplia il perimetro industriale, e con l’acquisizione dei marchi motociclistici Aprilia e Moto Guzzi entra nel business delle moto. Nel 2006 la quotazione con cui si abbatte il debito. Allora sull’orlo del fallimento, qualche consulente propose di puntare sugli Stati Uniti sull’onda dell’eterna fama del film Vacanze Romane. Colaninno invece punta a farne un oggetto distintivo per i nuovi ricchi dei Paesi emergenti. Apre una rete di vendita “di lusso” in Vietnam, e a seguire negli altri Paesi del sud est. Io lo seguii come membro del Cda Piaggio, ma lì ero un silenzioso e affettuoso osservatore».
Che lezione trarre dalla vita di Colaninno?
«Tutti abbiamo una lezione da trarne: la crescita, quella vera, quella capace di produrre livelli di benessere più elevati e di attenuare le disuguaglianze, la fa la voglia di rischiare e di intraprendere di individui, la loro determinazione, le loro aspirazioni».
agosto 27, 2023