Considero Friedrik von Hayek, di cui oggi ricorre il centenario della nascita, il più grande scienziato sociale del secolo. In Italia tale merito è assolutamente misconosciuto e fa malinconia. La sua battaglia novantennale ha avuto un esito essenziale: unire in un blocco logico coerente il valore preminente delle scelte individuali su quelle collettive e insieme affermare il loro limite. Senza scelte individuali non c’è sistema dei prezzi, dunque non c’è mercato; ma il limite dei nostri atti individuali anche più intenzionali è che a prevalere sono le loro conseguenze inintenzionali, ed è impossibile per qualsiasi soggetto collettivo governare e superare tale limite.
Economia ed epistemologia, psicologia e storia delle idee: in ognuno di questi campi Hayek ha impresso un’orma di caparbia confutazione del mito collettivista cui il nostro secolo ha eretto monumenti lordi, purtroppo, del sangue di milioni di vittime. Confutazione attuale, per tre buone ragioni.
La prima ha a che vedere con la negazione che, rivolta ad Hayek, l’Europa continentale ha fatto in realtà di se stessa. Nella Vienna d’inizio secolo, i Mises e gli Hayek seppero vedere lontano; ma furono intellettualmente spazzati via dal diffondersi delle utopie collettiviste rossa e nera e costretti all’esilio nel mondo anglosassone: alla London School prima, a Chicago poi. Eppure nell’Europa occidentale, che lo riscopriva dopo il Nobel nel ’73, Hayek dovette difendersi dalle accuse di essere ispiratore intellettuale della rivoluzione reaganiana e thatcheriana: cioè di quanto più lontano da sé l’Europa cristiano-sociale e socialdemocratica sentiva e continua, purtroppo, a sentire. Finché dimenticherà che la radice intellettuale hayekiana è nata qui e non nelle praterie del Midwest, l’Europa continuerà a farsi del male: ad avere meno crescita del mondo anglosassone e a essere meno libera.
La seconda ragione ha a che vedere con gli avversari di Hayek. Oggi, nessuno o quasi, se si fa eccezione per Bertinotti, difenderebbe il comunismo dalla confutazione. di Hayek del ’44 con The Road to Serfdom. Ma resta fortissima la presa delle tesi del grande avversario di Hayek, Lord Keynes: investimenti pubblici come strumento per uscire dalle crisi di sottoconsumo. Non a caso, fu citando Hayek nella campagna elettorale del 45, che Churchill perse le elezioni pur avendo vinto la guerra. E la battaglia intellettuale di Hayek è ancora da vincere in un Paese come il nostro, tuttora convinto che mano e spesa pubblica siano viatico e non ostacolo a lavoro e benessere.
C’è, infine, una terza ragione. Se l’Europa vuole riunificarsi davvero con i Paesi ex comunisti ancora piegati dalle conseguenze di sessant’anni di Ottobre rosso, il terreno di quest’incontro è sulle idee di Hayek prima che sull’ammontare di investimenti e aiuti. Anatoli Chubais, primo privatizzatore nella Russia di Eltsin, raccontava che od giorni più felici della mia vita li ho trascorsi a leggere Hayek fino a tarda notte». Forse anche oggi qualcuno lo legge allo stesso modo, a Belgrado. Non deludiamolo.
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maggio 8, 1999