Di vendere la rete telefonica fissa si parla almeno da quando si è privatizzata la Stet.
Prima era per ragioni antitrust: i concorrenti “mobili” sostenevano che solo quando le vecchie società telefoniche privatizzate avessero venduto le loro reti, ci sarebbe stata la “neutralità” della rete. Grazie un po’ a regolamentazioni più severe, un po’ a tecnologie sostitutive, oggi questo problema è meno acuto.
Poi è stato per ragioni economiche: perché tenere immobilizzato un valore così ingente? Meglio vendere e usare i soldi per la nuova tecnologia della banda larga mobile. Per Telecom Italia poi, erodere un po’ della montagna di debito consentirebbe di entrare in operazioni societarie, acquisizioni, vendita, fusioni. E gli azionisti di Telco vedrebbero un po’ di luce al fondo del tunnel.
Si fa in fretta a dire vendere. Ma se ci si prova si incontrano ostacoli formidabili.
Prima di tutto: che cosa si vende? La sola infrastruttura fisica, (cavi, cunicoli, spazi in cui si mettono le apparecchiature), o anche quella logica, hardware e software, computer e programmi, tutto quanto serve per inviare ricomporre ricevere il traffico voce e dati? Ma questo è il mestiere del telefonista, vendere tutta la rete equivarrebbe a vendere tutta l’azienda.
Secondo problema: la rete è il collateral più rilevante a garanzia dei debiti contratti con le banche. Il valore della parte venduta è pari a quello dei debiti di Telecom, oppure dopo la scissione, l’azienda deve trovare altri collateral?
C’è infine il “problema” dell’italianità: la rete, recita la giaculatoria, è un’infrastruttura essenziale per la sicurezza e per le attività economiche del Paese, deve restare italiana, è uno dei casi in cui si applica la golden share. E se l’Europa storce il naso, si scelga il compratore che più italiano non si può, la Cassa Depositi e Prestiti.
Si è scritto “problema ” tra virgolette, perché l’italianità per alcuni potrebbe anche essere la soluzione. Il dato da cui partire è la quantità di debito da cui Telecom vuole liberarsi. Quindi si deve procedere a definire la linea di separazione, operazione chirurgica di estrema complessità. Si devono definire i rapporti contrattuali e quindi economici tra le due parti che risultano dalla scissione, tra chi possiede la rete e chi la usa. Si deve tener conto sia del flusso di cassa formato dai “diritti di passaggio” di chi la usa, sia dei costi di manutenzione e di ammodernamento. Di conseguenza complesso e opaco è stabilire il valore dell’oggetto della transazione. Il sistema migliore sarebbe fare un’asta internazionale: ma come si fa a fare un’asta in un paese solo, a in cui di fatto può partecipare un solo concorrente? Il calcolo del valore attuale dei flussi di cassa dedotti i costi di manutenzione, proiettato su decenni, durante i quali sicuramente ci saranno variazioni di contesto competitivo, di tecnologie e di regolamenti, lascia ampio spazio a “interpretazioni”. Inoltre la rete deve restare italiana, e un bene vincolato vale meno di un bene libero. Di quanto?
La Cdp per ora ha detto di essere “sempre interessata” e di aspettare proposte.
Presidente, Amministratore delegato, rappresentante degli azionisti di minoranza sono noti per la loro serietà, con una certa inclinazione a una benedetta taccagneria. Ma stabilire “il prezzo giusto” è difficile: giusto per chi? Neppure le conseguenze non tutte evidenti: se Cdp paga un prezzo “alto” a Telecom, dovrà rifarsi richiedendo tariffe più elevate a tutti gli operatori della rete, che li scaricheranno sui clienti finali.
A proposito: le discussioni di oggi sono proprio la conseguenza imprevista di una decisione dei regolatori: probabilmente dopo avere consultato la sfera di cristallo, essi avevano deciso che in Italia ci dovevano essere quattro operatori mobili. Quattro ce li hanno gli Usa, ma da noi dopo un po’ si constata che non c’è posto per tutti. La 3 di Li Ka-Shing, l’ultimo arrivato, che ha una rete moderna di ottima qualità ma insufficiente come copertura, vorrebbe fondersi con Telecom Italia, e si dice pronto a crescere progressivamente fino anche a prenderne il controllo.
Se Cdp fa un’offerta “bassa”, resta più debito in Telecom, e l’operazione diventa meno conveniente per 3. Se fa un’offerta “alta”, l’ingresso di 3 viene facilitato, ma aumentano, come si è visto, i costi per i consumatori. E si rischia la procedura di infrazione per aiuto di Stato. Alla fine potrebbe essere più facile e meno controverso far comprare a Cdp la maggioranza di Telco e scindere invece Tim e le controllate estere. Dopo quasi vent’anni, il cerchio si chiude, rinazionalizziamo la telefonia (fissa).
Ma l’italianità è salva. Per l’italianità abbiamo fatto scappare AT&T: ed abbiamo avuto il nocciolino. Abbiamo respinto il messicano: ed abbiamo avuto Telco, un abito da arlecchino per i big della finanza scarsamente interessati al core business; con lo spagnolo in quarantena, a crogiolarsi con il suo 46% del 22,5%. Ma alla fine, grazie alla Cdp, abbiamo vinto: la telefonia ritorna a casa. Il cinese si è conquistato il mobile? Ma i cunicoli sono nostri: nella patria del diritto, abbiamo lo jus sub-soli.
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maggio 8, 2013