Forse perché era la mia prima, ma io ricordo bene la campagna elettorale del 1994: noi, i Progressisti della «gioiosa macchina da guerra», ad accusare Berlusconi di essere «sceso in campo» per difendere le sue aziende, e ad alzare il tiro contro il pericolo del Grande Fratello che corrompe e coarta la volontà degli elettori; e Bossi .i garantire che, al primo accenno di scorrettezze da parte del suo alleato», gli avrebbe ficcato dove si meritava «una bella legge antitrust». A leggere quello di cui si sta discutendo in queste settimane, sembra che sei anni siano passati invano.
Già allora la televisione produceva nella sinistra l’irresistibile impulso a prodursi in variazioni sul tema «facciamoci del male»: come quella di chiedere voti agli elettori dandogli degli sprovveduti. pronti a credere al primo dottor Dulcamara di passaggio, o quella di accusare un avversario di voler difendere le sue proprietà, confermando così quello che egli sostiene, e cioè che qualcuno (chi?) gliele minaccia.
Da Bossi uno non si aspetta precisione definitoria e proprietà lessicale, ma non è che gli altri abbiano fatto molto meglio: conflitto di interessi, antitrust, posizione dominante, la vecchia e la nuova accezione della candido, un’insalata di termini e di concetti intercambiabili per significare una sola cosa: «stu presepe nun me piace». Per molti, un’affermazione incontrovertibile; per i pochi che, pur condividendola, hanno gusti un po’ più nuancé, propongo invece le seguenti divagazioni logico-terminologiche.
Conflitto dl interessi. È un concetto del codice civile (artt. 2373, 2391) e riguarda la posizione in cui possono venirsi a trovare amministratori di una società, che in tal caso devono astenersi dal votare in consiglio. Negli ultimi anni, con la legge Draghi e con direttive Consob, si è cercato di aumentare la protezione degli azionisti di minoranza delle società quotate, con particolare riguardo alle operazioni infragruppo.
Trasferito in ambito pubblico, il concetto di conflitto di interessi assume un significato metaforico: la politica è per definizione mediazione tra interessi confliggenti, e tutti sono in qualche misura portatori cli qualche interesse. Bisognerebbe invece parlare più propriamente di interesse privato in atto di ufficio, o di insider trading. E, se ben ricordiamo, per commettere questi reati, gli «interessi» non è necessario averli ere tati o esserseli costruiti in anni lavoro. Al contrario, in un Paese con una società articolata e un’informazione indipendente, quanto grandi e visibili sono gli interessi di cui una personalità politica è titolare, tanto più impossibile venta il favorirli. Se l’Avvocato Agnelli fosse mai stato ministro dell’Industria, mai avrebbe poti proporre una legge sulla rottamazione, neppure nel caso in essa — come è stato — fosse vantaggiosa per il Paese. Così Berlusconi non potrebbe mai vendere al 100% le reti Rai, neppure se fosse — come è — salutare per il Paese. Anzi, quanto più estesi sono gli interessi, dalle televisioni alle assicurazioni, dall’editoria alla finanza, tanto maggiori sono i gli ostacoli che limitano il campo d’azione di un politico che quegli interessi rappresentasse: questo è vero conflitto di interessi, di cui però nessuno parla.
Posizione dominante. Anche qui c’è un uso proprio e uno traslato. A quello proprio fa riferimento la legislazione antitrust, quello traslato lo estende ad indicare il sommarsi di potere politico e di potere economico. Riferito all’esercizio del potere politico, non sembra un problema: l’esecutivo ha già troppi poteri (e il capo dell’esecutivo troppo pochi) non si capisce bene che cosa cambierebbe nel bilanciamento dei poteri se l’inquilino di Palazzo Chigi fosse anche proprietario di un’acciaieria o di un’azienda di telefoni, o di una banca Il problema invece esiste, ed è di assoluta e inquietante rilevanza, nella fase precedente, cioè nella lotta per l’accesso al potere, nella competizione elettorale. Il finanziamento della politica è un tema irrisolto, ma la direzione verso cui si vorrebbe andare, invece di quella del massiccio sostegno pubblico preferita dai partiti, è quella di un finanziamento da parte di privati fatto in modo trasparente: e allora che differenza fa se i soldi provengono dalla tasca del candidato o da quella di persone e di imprese di cui gode la fiducia? Noi restiamo giustamente sconcertati nel constatare come negli Usa le primarie vere hanno come protagonisti i finanziatori dei candidati, e che le possibilità di successo dei ciascuno di loro dipendono dal numero di miliardi di dollari con cui entrano in campagna elettorale. Ma al contempo bisogna chiedersi: fino a quando e in che misura leggi limitative ci daranno campagne «relativamente” pauperiste, visto che si tratta di oltre cento miliardi a tornata che son tornati a gravare sulla generalità dei contribuenti italiani, fallito l’esperimento di chiedere agli italiani in dichiarazione dei redditi di sostenere le forze politiche? Si dirà che senza le risorse di cui ha potuto disporre, Forza Italia non sarebbe neppure decollata. Ma vanno ricordati gli anni in cui i fabbisogni finanziari dei partiti si misuravano a punti di Pil del Paese, non a percentuali dell’utile di un’azienda…
Incompatibilità e ineleggibilità. Tutto quanto fin qui si è detto presuppone che esistano mezzi di informazione di massa indipendenti, anzi pregiudizialmente sospettosi e diffidenti verso il potere politico. E bene quindi che il proprietario di mezzi di informazione di massa non svolga attività politica diretta, e anch’io vorrei vivere in un Paese dove i cittadini non mandano al governo il proprietario di mezzi di comunicazione di massa. Sono anche convinto che questa sia un’opinione condivisa dalla maggioranza degli italiani: il che non impedisce però al 50% circa di loro di votare per la coalizione che, per convinzione o per realismo, vuoi mandare Berlusconi al governo. E questi italiani vanno rispettati: non si può trattarli da dementi come tante volte sembra fare il centrosinistra. A me non piacciono i divieti, ma comunque per vietare una cosa ci vuole una legge, e le leggi come si approvano così si possono abrogare. Una cosa però è sicura: una legge sulla incompatibilità non si vota a colpi di maggioranza ma deve essere concordata con l’opposizione; altrimenti, ammesso che la maggioranza riesca ad approvarla, diventa un formidabile argomento regalato all’opposizione per gridare contro la sinistra liberticida, vincere le elezioni e subito dopo abrogare la legge.
La somma delle iniziative recentemente assunte e i toni di scontro che le hanno accompagnate sembrano esattamente prefigurare questo scenario per le prossime elezioni: e a me non sembra granché né come idea in sé, né come prospettiva di vittoria elettorale. Anzi…
Personalmente, sono di un’altra idea rispetto a quella corrente. Per eliminare l’anomalia del padrone di tre reti televisive che è oggi capo dell’opposizione e potrebbe domani essere capo del governo, bisogna eliminare l’anomalia originaria, quella per cui delle altre tre reti sono proprietari i partiti. Per evitare che Mediaset possa fiancheggiare la politica, bisogna che la politica (col governo che fa la parte del leone) smetta di utilizzare Viale Mazzini. Ma siccome solo chi crede ai miracoli può pensare che la Rai diventi la Bbc, la sola soluzione è vendere la Rai: non con la burletta prevista dalla proposta di legge 1138 in esame al Senato, ma vendere il 100% della proprietà delle reti commerciali.
Non accadrà mai? Può essere. Ma allora vorrà dire che la degenerazione della degenerazione commerciale in contrapposizione alla politica è un fenomeno irreversibile: per colpa però di entrambi gli schieramenti. Perché se il Polo non può, la sinistra non vuole, in quel caso non di conflitto di interessi converrà parlare, ma di un conflitto politico. Anzi di uno scontro muro contro muro, da cui non so quanto il Paese abbia da guadagnare. Perché è naturale che quando si va al muro contro muro il conflitto tende a rappresentarsi come quello tra due mondi, tra la «propria» civiltà e l’incultura dell’avversario, tra nobiltà dello spirito e volgarità del consumo, tra chi educa e chi corrompe, tra la qualità del servizio pubblico e la corruzione dell’intrattenimento.
Può un confronto politico per il governo del Paese ridursi al rimpianto di Carosello e del Convegno dei cinque della Rai? Personalmente, da un siffatto scontro di civiltà» mi dichiaro volentieri disertore.
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settembre 9, 1999