dalla rivista Mondo Contemporaneo
recensione di Pierluigi Allotti
Il rapporto tra politica e televisione è l’oggetto dell’interessante volume di Franco Debenedetti, ex senatore del centro sinistra, e di Antonio Pilati, esperto di media e attuale componente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (dal 1998 al 2005 è stato anche componente dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni). Si tratta di una saggio composto di due parti: la prima, scritta da Debenedetti, è una Storia politica della televisione che, facendo ricorso a un’ampia bibliografia, offre una interpretazione non convenzionale di un tema che meriterebbe senz’altro di essere approfondito in sede storiografica; la seconda, scritta da Pilati, è invece una Storia delle politiche televisive in cui vengono esaminate, con un taglio talvolta troppo tecnico, le modalità con cui è stato regolamentato il settore radiotelevisivo.
Il merito principale dei due autori è in ogni caso quello di essersi cimentati con uno dei problemi centrali del nostro paese: la «questione televisiva» intesa in senso stretto. Essa – spiegano «riguarda essenzialmente la televisione commerciale privata, e l’incrociarsi con la politica che accompagnò le vicende del suo affermarsi in Italia» a partire dalla metà degli anni Settanta (p. IX), e costituisce una delle principali anomalie della nostra storia recente, considerato solo il fatto che «in nessun paese occidentale il proprietario di quasi la metà dei canali televisivi nazionali (Silvio Berlusconi) si presenta alle elezioni cinque volte in quattordici anni, per tre volte le vince e diventa capo del governo» (pp. IX-X). Tuttavia per gli autori, «la questione televisiva, e la stessa vicenda politica di Berlusconi» rappresentano «solo la manifestazione più appariscente di anomali che risalgono a parecchi anni prima della famosa “discesa in campo”» del Cavaliere, e loro obiettivo dichiarato è quello di «individuare i fili che le uniscono, i percorsi lungo cui si svolgono» (XIII). In altre parole, Debenedetti e Pilati si propongono di ripercorrere le fasi salienti della guerra trentennale che a loro giudizio è stata combattuta attorno alla questione televisiva, «una guerra di potere travestita da guerra di religione» che richiama alla loro mente, con un singolare parallelismo, la Guerra dei trent’anni che nel Seicento devastò l’Europa (p. XI).
La guerra per la tv scoppia nel 1976, quando la Corte Costituzionale, con una sentenza (n.202), disarticola il monopolio statale della Rai consentendo l’emittenza privata in ambito locale. Ma la modalità con cui viene liberalizzato il settore radiotelevisivo costituisce la prima grande anomalia registrata dagli autori, poiché i partiti presenti in Parlamento – che con la riforma della Rai del 1975 hanno assunto il controllo della tv di Stato, dando vita al fenomeno della lottizzazione – considerano le tv private «come intrusi e non come attori economici a cui lo Stato consente di esercitare, seppure in limiti precisi, la loro attività» (p. 11), e per tale motivo affrontano «il problema degli assetti di settore tra pubblico e privato» seguendo «una strategia conservatrice» a tutela dei propri interessi (p. 18). Per Debenedetti e Pilati è dunque colpa dei partiti se la questione televisiva in Italia è rimasta in primo piano sulla scena politica per oltre trent’anni, in quanto essi, concependo la tv essenzialmente come un media da controllare e condizionare, non hanno mai cercato seriamente di affrontarla e risolverla come un fatto economico-industriale.
Nel vuoto legislativo scaturito da questa inerzia politica si combatte la fase cruciale della guerra per la tv, che termina alla fine degli anni Novanta con l’approvazione della legge Mammì – la prima legge di sistema che prende in considerazione l’attività delle emittenti commerciali – e con il lodo Ciarrapico che pone fine alla grande battaglia per la Mondadori tra Berlusconi e Carlo De Benedetti iniziata nella primavera del 1987. È in questo quindicennio, tra il 1976 e il 1991, che «si ridisegna la mappa dell’intero settore dei media. Non solo nella televisione, ma anche nella carta stampata» (p. 37-38). Gli attori principali di questa prima fase sono da un lato Bettino Craxi e Berlusconi, e dall’altro il quotidiano La Repubblica di Eugenio Scalfari. Quest’ultimo ha infatti «un ruolo rilevantissimo nelle vicende di questo quindicennio»: «Insieme al giornale da lui fondato, è Scalfari il vero deuteragonista delle vicende, dei media e della politica, che si svolsero in quegli anni» (p. 53), ed è questa un’altra evidente anomalia di questa guerra, affermano gli autori (p. 56). Il fondatore del quotidiano di largo Fochetti, durante il sequestro Moro, posiziona il suo giornale «sulla linea del più intransigente rigore», ottenendo un grande successo editoriale (p. 54), e cerca di imporre un ambizioso progetto per la modernizzazione del paese, incentrato sul capitalismo italiano e antitetico a quello elaborato dal PSI di Craxi: «La debolezza economica e politica del Pci apriva enormi spazi all’innovazione politica. Craxi pensava di approfittarne e di risolverla, seppure tardivamente, alla maniera delle altre socialdemocrazie europee, erodendo progressivamente la base del consenso del Pci. Scalfari invece pensava di riempiere quegli spazi con la sua mediazione tecnocratica, con un processo in qualche modo educativo, convertendo gradualmente il Pci, e portandolo, tutto intero, struttura dirigente e base elettorale, nell’area pienamente di governo; con il sostegno delle strutture economiche portanti, Banca d’Italia e Mediobanca da un lato, la grande industria dall’altro» (pp. 55, 192-194).
A questo progetto scalfariano di «rinnovamento conservatore», il leader socialista propone invece «una visione del tutto opposta, che mira innanzitutto alla crescita del mercato interno, dei nuovi gusti e dei nuovi consumi, e quindi delle aziende che possono promuovere e soddisfare quelle nuove richieste» (pp. 47-48). Egli, osservano gli autori, intuisce l’importanza della nascente televisione commerciale come strumento funzionale sia alla modernizzazione del paese che alla costruzione del consenso politico; «capisce che la spettacolarizzazione della politica è necessaria a una forza che non ha gli strumenti di comunicazione della DC e del Pci» (p. 51), e per questo stringe uno stretto sodalizio con Silvio Berlusconi, il quale – avendo a sua volta compreso che «la domanda di consumi televisivi sollecitata da prodotti di successo nuovi per il nostro mercato e l’esigenza delle industrie di promuovere i beni di consumo di massa avrebbe portato a un’esplosione del mercato pubblicitario e quindi a un aumento delle entrate che gli avrebbe reso possibile di non essere subordinato alla politica» – investe nella tv privata e tra la fine degli anni Settante e i primi anni Ottanta fonda il suo impero televisivo, che include Canale 5, Italia 1 e Rete 4, lanciando la sfida alla tv pubblica (p. 52).
Così, se Craxi e Berlusconi hanno una visione moderna della tv, e mostrano di essere consapevoli del ruole che essa può svolgere nei processi di trasformazione della società, la sinistra italiana manifesta invece al riguardo un grave ritardo culturale, figlio della lezione della Scuola di Francoforte, per i cui esponenti di punta (Adorno e Horkheimer) i mass media sono solo strumenti usati dal potere per imporre valori e modelli di comportamento, creare bisogni e stabilire il linguaggio, fissare il divertimento e i suoi orari (pp. 28-29). Debenedetti e Pilati insistono molto su questo punto, e accusano il centrosinistra di miopia politica per aver fondato – dopo la “discesa in campo” del Cavaliere nel 1994 – la loro opposizione al centrodestra essenzialmente sull’ «antiberlusconismo televisivo»; ma «quando si fa della questione televisiva il cardine dell’opposizione politica a Berlusconi – avvertono i due autori – quando si concentra ossessivamente la battagli apolitica sul conflitto di interessi, su presunte violazioni della Costituzione, sull’abuso di posizione dominante, quando tutto viene genericamente ricondotto a un degrado culturale ed etico indotto dalla televisione commerciale, si mira al bersaglio sbagliato, non si capiscono le ragioni del successo di Berlusconi e non si costruisce una solida alternativa a Berlusconi» (p. X).
Con l’avvento sulla scena politica del proprietario della Fininvest la guerra televisiva si inasprisce ulteriormente, e tocca il momento più acuto tra il 2003 e il 2004, in occasione dello scontro in Parlamento per l’approvazione della legge Gasparri – la terza legge di sistema dopo la legge n. 103 del 1975 e la legge Mammì – che Debenedetti e Pilati difendono (pp. 116-117; 264-273). Nel 2006 però il centrosinistra rivince le elezioni, e tra le priorità del nuovo governo Prodi c’è quella di «smontare la legge Gasparri». Il consiglio dei ministri, nel mese di ottobre, approva così il disegno di legge Gentiloni, un testo che rappresenta «in qualche modo una summa delle polemiche contro la tv berlusconiana; quelle condotte in nome del pluralismo, dato che ne riduce il numero dei canali; quelle condotte in nome della concorrenza del mercato pubblicitario, dato che riduce ope legis la quota disponibile per Mediaset; quelle condotte in nome del conflitto d’interessi perché, non potendo (o non volendo) ridurre “il conflitto”, riduce “l’interesse”, vale a dire il fatturato e assai di più l’utile di Mediaset» (pp. 123-124). Il giudizio degli autori non può essere più negativo: «La legge Gentiloni – osservano – è la linea Maginot nel tempo dei carri armati, degli aerei e dei paracadutisti: il monumento di un tempo ormai passato» (p. 124). La sua mancata approvazione da parte del Parlamento (il centrosinistra disponeva solo di una striminzita maggioranza in Senato) sancisce la fine della guerra, e la questione televisiva, secondo l’ottimistica interpretazione degli autori, viene infine superata anche «politicamente» quando Walter Veltroni, assumendo la leadership del Partito Democratico, il 27 giugno 2007 pronuncia un discorso al Lingotto di Torino con cui «decreta la fine di una politica basata sull’antiberlusconismo e dei programmi ritagliati sulle coalizioni» (pp. 129-130).
In realtà l’ottimismo degli autori sembra essere mal riposto: le vicende e gli scandali che hanno segnato la lotta politica italiana nei mesi successivi alle dimissioni di Veltroni da segretario del PD, nel febbraio 2009, stanno a dimostrare che la questione televisiva – e più in generale la questione dell’informazione – è tutt’altro che superata, e che la «guerra dei trent’anni» è probabilmente entrata in una nuova fase.
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di Franco Debenedetti – 29 maggio 2009
aprile 1, 2010