Rai, questa è l’occasione per una privatizzazione vera

novembre 21, 2002


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore

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Di fronte all’esplodere della crisi Rai, c’è una cosa da fare: chiudere questa situazione insostenibile con le dimissioni di tutto il CdA. Concediamo pure che l’incidente non sia figlio di un errore: ma considerarlo solo un incidente, questo sì che sarebbe un errore. Quella che la RAI sta vivendo, non è solo la crisi del suo vertice aziendale, ma quella del sistema di governance dell’azienda pubblica di radiotelevisione.

I presidenti di Senato e Camera, all’epoca non nascosero il loro fastidio per il dover assolvere ad un compito che poco ha a che fare con i loro incarichi istituzionali. Nominare un consiglio migliore dell’attuale è possibile: giudichino i Presidenti se l’atmosfera politica è quella più adatta. Ma un’altra strada esiste ed é percorribile: la nomina di un commissario, sulla base di uno stralcio, nel ddl Gasparri, delle norme relative a tempi e modi della sua privatizzazione.
Proprio martedì, nella sala della Lupa di Montecitorio, si concludeva il convegno organizzato da ISIMM su “Servizio pubblico e pluralismo televisivo nell’era del digitale”. A fronte della crisi, drammaticamente attuali apparivano le preoccupazioni manifestate; ma poco più che virtuosi auspici sembravano la maggior parte dei suggerimenti proposti. La ragione di fondo è stata enunciata chiaramente dal Presidente del Senato Marcello Pera: al “servizio pubblico” si chiede “informazione plurale e corretta”, ma “la correttezza non è neutra, perché, essendo labile la distinzione tra giudizi di fatto e giudizi di valore, é sempre accompagnata da valutazione il più delle volte implicite. [...] non c’è un giudice della correttezza”. Proprio lo specifico RAI esalta le contraddizioni di un’azienda a capitale pubblico che opera sul mercato. Contraddizioni quando si cerca di definire i contenuti qualitativi e quantitativi della sua missione in un contratto di programma. Contraddizioni quando si vogliono definire criteri e procedure per la selezione dei vertici: per fortuna non si sente più parlare del balzano proposito di addossare la scelta al Capo dello Stato; la maggioranza ha comunque la responsabilità politica di come viene gestita un’impresa pubblica, non può nasconderla dietro complicati meccanismi di scelta su rose indicate da commissioni bipartisan, né addossarla a un’assemblea di ottimati irresponsabili delle conseguenze delle loro scelte. Certo che l’essere la RAI in concorrenza con un’impresa privata soggetta ai vincoli di efficienza economica, esaspera le difficoltà; certo che l’essere questa concorrenza, sotto l’attuale gestione RAI, più apparente che reale, rende le difficoltà ancor più paradossali; certo che l’essere il suo concorrente proprietà di chi è il responsabile politico ultimo dei suoi risultati, costituisce il “caso” italiano. Ma le difficoltà, che da noi compaiono in forma acuta, sono in realtà intrinseche ad ogni televisione pubblica.

Non c’è altra soluzione: considerare la RAI un’impresa culturale alla stessa stregua della sua concorrente, sottoporre entrambe ai vincoli ed agli obblighi per chi usa una risorsa scarsa quale lo spettro elettromagnetico. E privatizzare la RAI. Il ddl Gasparri su questo aspetto fa fare un passo avanti, perché vede il servizio pubblico svolto dall’intero sistema televisivo, non solo dall’azienda pubblica, e assegna a tutti gli operatori il compito di concorrere a fornire un’informazione pluralistica e corretta. Mancano però, in quella legge, sia una definizione accettabile di limiti antitrust, sia un tempo limite per la perdita del controllo da parte dello Stato; mentre minuziose norme sembrano messe lì apposta per evitare che la privatizzazione dia luogo ad assetti proprietari trasparenti e ragionevolmente stabili. Uno stralcio concordato che fissi tempi certi di privatizzazione della RAI renderebbe certa e anzi obbligata l’approvazione della stessa riforma di sistema. A questo scopo è più funzionale che la RAI sia gestita da un commisario “istituzionale” e non di parte, piuttosto che da un consiglio di amministrazione.

Vendere tutta la RAI é irrealistico. Vendere solo una rete per parte, renderebbe le due aziende più deboli senza neppure creare un terzo polo forte. Vendere RAI1 e RAI2, lasciare il canone alla sola RAI3 senza significativi ricavi pubblicitari, risolvere a norma di antitrust l’asimmetria che ne deriva, sembra essere una soluzione politicamente praticabile ed industrialmente valida. Ma a condizione che si definiscano procedure e tempi.

Quanto alla procedura, per assicurare un assetto iniziale certo ma aperto alla competizione per il controllo, il Governo può vendere una quota pari al 20-25% a trattativa privata, senza vincoli per l’acquirente che quelli antitrust italiano ed europeo; e alienare la parte restante con il meccanismo dei buoni di acquisto secondo la modalità che avevamo a suo tempo previsto per le banche possedute da Fondazioni. In questo caso gli aventi diritto ai buoni saranno ovviamente tutti gli abbonati alla RAI-TV, buoni che verranno trattati in Borsa per 15 giorni, alla fine dei quali saranno convertiti in azioni a un prezzo fortemente scontato rispetto a quello spuntato nella trattativa privata. Un’operazione limpida sul piano redistributivo, e di grande valore politico: questa sì che sarebbe una public company, soggetta alle regole del mercato, con milioni di azionisti, ma con un controllo contendibile e trasparente.

Quanto al termine per il completamento dell’operazione, è da respingere il proposito di farlo coincidere con il passaggio al digitale terrestre. È irrealistico che nell’attuale situazione economica ciò avvenga nel 2006. E in ogni caso il 2006 è inutilmente lontano. Chi propone di attendere quell’appuntamento, vuole sfruttare gli effetti di path dependence per prolungare nel tempo l’attuale duopolio, invece che lasciare che le forze del mercato agiscano proprio quando la tecnologia cambia le regole del gioco concorrenziale.

Ovviamente, questa soluzione, che avrebbe il pregio della chiarezza, rappresenta un colpo di spada rispetto a concezioni della RAI come strumento di consenso politico, concezioni che sono, inutile nasconderlo, ampiamente diffuse sia nella attuale maggioranza sia in frange non trascurabili dell’opposizione. Tuttavia, qualora dovesse invece prevalere l’ipotesi di procedere alla nomina di un nuovo CdA lasciando per il resto tutto così com’è, sarà innanzitutto il calor bianco cui è ridotta l’atmosfera politica a solo un anno e mezzo dalle ultime elezioni, e l’inevitabile sommarsi e ripercuotersi sulla RAI di tutte le polemiche aperte sui maggiori temi della vita nazionale, a impedire all’azienda pubblica di potersi garantire quella che ai suoi difensori sembra una onorevole continuità, vulnerata solo da un presidente e da un direttore generale non all’altezza. Come sempre è avvenuto dal 1975 in avanti, è la RAI, il “laboratorio RAI”, a rappresentare il banco di prova della crisi della politica. Prima che quest’ultima la riduca a un’azienda ancor più povera di valori e competenze, è nel mercato, non in Parlamento, che va cercata la sua àncora di salvezza.

Franco Debenedetti

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