Con un testo di soli 36 articoli e tutti scritti con chiarezza, codificò diritti costati decenni di lotte sindacali
Se si considera la sua attività di studioso prima, e quella di politico poi, illuminata dall’accordo del 1993 firmato in qualità di ministro del Governo Ciampi, e che si sarebbe potuta concludere anche al Quirinale, aveva ragione Gino Giugni nel provare un po’ di noia ad essere così strettamente associato allo Statuto dei Lavoratori. Un riconoscimento peraltro dovuto: la legge 300 non ha solo codificato diritti costati decenni di lotte, ma ha fatto improvvisamente acquistare a tutto il Paese la cultura del diritto del lavoro. E questo grazie anche alla limpidezza di quel testo, 36 articoli comprensibili da tutti senza bisogno di specialisti.
Accanto alla raffinata semplicità giuridica, la raffinata abilità politica con cui Giugni realizzò il compromesso tra la CGIL, che voleva rapporti di lavoro tutelati da una legge dello Stato, e la CISL che voleva che scaturissero dalla contrattazione tra le parti. Una scelta obbligata da rapporti politici – quelli del primo centro-sinistra – e dal clima sociale – gli anni seguenti l’autunno caldo e il ’68. Ma Gino Giugni era consapevole del pericolo che la rigidità avesse il sopravvento sull’innovazione, e che, imboccata la strada della tutela a mezzo di leggi, la superfetazione legislativa oscurasse la comprensibilità del suo articolato. Tant’è che al congresso didirito del lavoro del 1982 ammoniva di non considerare lo Statuto intoccabile, ma di costantemente adeguarlo. Scrivere chiaro, innovare: sembrano due indicazioni appropriate per ricordare Gino Giugni.
Perché il seguito è stato ben diverso. Oggi un codice del lavoro occupa più di 2000 pagine, illeggibili senza un consulente. La disciplina del part time è sparsa in 13 articoli, quella dell’apprendistato in 45, quella del lavoro intermittente in 8; il licenziamento è normato da 4 leggi, la cassa integrazione da 34. La negata comprensibilità è una forma legale di negata giustizia. Lo è per gli interessati, che divengono oggetti poco consapevoli nelle mani di specialisti. Ma lo è per tutti, presi in questa trappola legislativa. Su norme che nessuno è in grado di conoscere nella loro interezza, si esercitano esperti sindacali, direzioni del personale, consulenti del lavoro, magistrati, accademici, editori. Ora è proprio da questi ceti professionali che nasce la sorda resistenza verso progetti di semplificazione, come quello degli studiosi guidati da Pietro Ichino, che riducono l’intero corpus di leggi ad un’unica legge di 64 articoli comprensibili da tutti: ci sono ragioni evidenti per questa “trahison des clercs”.
In 40 anni si è rivoluzionato il contributo al PIL di manifatture e servizi; l’informatica macinava dati per grandi organizzazioni, oggi amplia a dismisura i rapporti di produttività all’interno della stessa azienda tra chi sa e chi non sa servirsene; la concorrenza era di qua o di là della frontiera, oggi è migliaia di chilometri “vicina”. E’ un altro mondo del lavoro. Ma l’art 18 dello Statuto, quello sui licenziamenti individuali è diventato simbolo e sinonimo di tabù. Rispettare il tabù non dà garanzie, e quando ce se ne accorge ci si trova disperati. Sistemi che accompagnino e accelerino il reinserimento del lavoratore funzionano in molti paesi, con costi inferiori alla somma dei sussidi di disoccupazione “passiva” , delle inefficienze aziendali, dell’attrito che frena gli adattamenti di strategie. Di tabù è costellato anche il modo di organizzare il lavoro: anche se grazie a Marco Biagi disponiamo di una molteplicità di forme contrattuali, non ci sarebbero limiti ai modi in cui lavoratori e imprenditori potrebbero accordarsi per condividere parte dei rischi e dei guadagni della scommessa in che consiste ogni nuova iniziativa.
Nei decenni a venire, i valori più preziosi, su cui ci sarà concorrenza globale, saranno capitale umano e capitale sociale. I Paesi si giocheranno il futuro sulla possibilità dei lavoratori di istruirsi e di acquisire competenze, sulla mobilità sociale, sulla flessibilità e la sicurezza. Aprire verso questi orizzonti è la sfida da raccogliere per i prosecutori dell’opera di Gino Giugni.
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ottobre 7, 2009