di Michele Masneri
Il bestseller di Thomas Piketty non crea scompiglio solo nel campo liberista ma scuote anche, meno prevedibilmente, il mondo keynesiano. “Le Capital au XXIe siècle” è arrivato da meno di un mese negli Stati Uniti e sta provocando ampio dibattito e celebrazioni tra gli economisti liberal, primo fra tutti il premio Nobel Paul Krugman. Non è stato invece accolto con particolare entusiasmo dalle vestali del culto keynesiano, che ne sottolineano le lacune.
Due nomi su tutti: James Kenneth Galbraith, erede del più celebre John Kenneth, mette in risalto le mancanze teoriche del volume, oltre a condannare come “utopica” l’ormai celebre imposta progressiva su quell’élite dell’1 per cento che controlla l’economia mondiale. Dall’altra parte nemmeno Lord Robert Skidelsky, professore emerito dell’Università di Warwick e autore di una leggendaria biografia in tre volumi di John Maynard Keynes, è entusiasta dell’opera del collega francese. Il primo, Galbraith, è uno stimato economista molto di sinistra, direttore del “progetto diseguaglianze” dell’Università del Texas dove insegna, editorialista del New York Times e del Washington Post; nei giorni scorsi ha scritto una recensione-monstre sul trimestrale The Dissent, in cui fa a pezzi il volume di Piketty, suggerendo che il collega fa confusione tra reddito e capitale, e tra quest’ultimo e le sue diverse forme, finanziario e immobiliare. Galbraith denuncia poi la debolezza delle ricette pikettiane, a partire dall’idea centrale di una patrimoniale globale; “come fare a scovare questi capitali?”, si chiede; “neanche i servizi segreti riuscirebbero”.
E poi, se lo stesso Piketty ritiene “utopica” la patrimoniale, “per me utopico è sinonimo di futile, e se è futile, perché dedicarvi un intero capitolo? – scrive Galbraith – Solo per fomentare i lettori più sempliciotti?”. In conclusione, il libro “nonostante le sue grandi ambizioni non è l’opera di alta teoria che il suo titolo, la sua lunghezza, e l’accoglienza che gli è stata finora riservata suggeriscono” (da notare la perfidia dell’avverbio finora). Meno acida, ma severa, la critica di Skidelsky, tutore delle memorie keynesiane, che per la sua biografia è stato insignito della laurea honoris causa all’Università Tor Vergata. In una lunga recensione sul magazine inglese Prospect, Skidelsky sottolinea come quello dell’economista francese sia un “puntuale intervento sul dibattito sulle diseguaglianze” e un’opera “profondamente interessante per lo stile e il contenuto”: e tuttavia, opera “incompleta”. Secondo Skidelsky a non funzionare è soprattutto la parte in cui si spiega il fenomeno della nuova casta dei super manager; fenomeno che Piketty attribuisce semplicemente al cambiamento delle norme sociali, per cui è ormai accettato che i grandi funzionari privati si decidono da soli gli stipendi, ed “è ragionevole pensare che persone nella posizione di decidere i propri stipendi abbiano un naturale incentivo a trattarsi in maniera generosa”.
Nonostante lo humour, Skidelsky non condivide questa spiegazione perché non tiene conto dell’impatto della new economy: secondo l’economista inglese, le nuove élite globali non sono tali solo perché si decidono da sole le paghe, bensì perché hanno una produttività marginale molto più alta che in passato. I vari capi delle grandi corporation sono in grado di produrre più denaro di quanto fosse possibile ai loro colleghi del passato, denaro che si riverbera più velocemente e si moltiplica nella nostra società digitalizzata e globalizzata. E non si sa se è merito del loro talento o del loro potere, e probabilmente tutto questo denaro formerà nuove dinastie di rentier. Ma questo è tutto un altro discorso.
maggio 3, 2014