di Francesco Forte
Secondo Massimo Mucchetti, firma economica del Corriere della Sera, Fiat Auto non sarebbe una vera multinazionale. Quelle vere sarebbero solo Toyota, Volkswagen, Ford, General Motors, Mercedes, Bmw e Renault. La ragione di ciò sarebbe che Fiat non possiede stabilimenti fuori dall’Italia di marca europea. Non si capisce la logica di questa affermazione perché Fiat è sposata con Chrysler, che è una multinazionale statunitense come Ford e Gm.
D’altra parte Fiat Automobiles Group è di per sé una multinazionale in quanto produce anche in Polonia, Serbia, Brasile e Argentina. Inoltre, Fiat Auto oltre a Fiat Automobiles controlla anche la Magneti Marelli, che ha stabilimenti in vari paesi del mondo. Secondo Mucchetti un’impresa come Fiat Auto – che con Chrysler è il terzo produttore degli Stati Uniti e del Canada – non sarebbe comunque una multinazionale, perché le auto le sappiamo fare solo in Europa.
In America si fabbricherebbero solo “baracconi”. Ma allora, secondo questo principio, neanche Ford e Gm sarebbero multinazionali serie perché tradizionalmente concepiscono negli Stati Uniti i propri modelli.
Quanto a Chrysler, che produce anche Jeep e Dodge, perché definirla come una fabbrica di baracconi? Se fosse vero come mai ha successo? L’auto poi è il principale mezzo di trasporto terrestre degli Stati Uniti, le città non sembrano costruite a misura d’uomo ma a misura d’auto, al punto che per le famiglie l’auto ha sostituito il carro dei pionieri. Perché gli americani non dovrebbero sentire l’industria automotive nella loro cultura? L’altro argomento che Mucchetti usa per sostenere che Fiat-Chrysler non ha capacità di competere sui mercati mondiali è che il mercato dell’auto si basa sul cambio dei modelli e che Fiat ha saltato questo ciclo. Ma l’integrazione tra Fiat e Chrysler genera nuovi modelli tramite l’ibridazione di quelli delle due Case. Dalla grande depressione in poi, il rinnovo delle auto è stato determinato in larga misura dal mutamento dei modelli. Ma ora è subentrato il progresso tecnologico per il risparmio energetico e il basso inquinamento. Per ora Fiat gode di alcuni vantaggi con Fiat Powertrain Technologies, la divisione che raggruppa le attività relative ai motopropulsori e alle trasmissioni. L’unica politica industriale seria che un governo può fare in economia di mercato è cofinanziare la ricerca innovativa delle imprese.
Nell’Eurozona c’è un eccesso di capacità produttiva, ma dalla Germania si esportano fuori dall’area euro auto ad alto valore aggiunto. La tesi di Guido Viale, espressa sul Foglio e sul manifesto, per cui l’auto in Italia non ha futuro, è contraddetta dunque dal modello tedesco, che si basa sui contratti di lavoro aziendali. Dall’Eurozona per essere competitivi si possono esportare prodotti ad alto valore aggiunto come auto di qualità e componentistica sofisticate, ma si debbono avere contratti di lavoro efficienti.
Appare perciò opinabile anche la tesi centrale di Mucchetti secondo cui Fiat, per salvare l’occupazione degli stabilimenti pericolanti, dovrà vendere ai tedeschi l’Alfa Romeo. Essi presumibilmente ne comprerebbero marchio e know how, ma andrebbero a produrre altrove. Infatti il vero problema che né Viale né Mucchetti affrontano è che Marchionne ha visto approvare in fabbrica il suo modello contrattuale ma, in pratica, non può ancora gestirlo appieno, come dimostrano le cause pendenti Fiom e l’esito di alcuni ricorsi giudiziari sui licenziamenti disciplinari. E’ di ciò che si dovrebbe discutere, essendo utile a tutta l’industria, invece di trasformarsi tutti in novelli esperti di ciò che deve fare o non fare Fiat.
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