Caro Direttore, “sarà bene riconoscere una volta per tutte che Berlusconi […] non è un’anomalia, un incidente di percorso, una parentesi nella storia politica italiana, destinata a chiudersi senza lasciare grande traccia di sé. Al contrario.” Ha ragione Enrico Morando, questo é il punto di partenza se si vuole capire “perché Berlusconi vince” (il Riformista 23 Agosto 2009). Questa è anche la base per una risposta politica a Berlusconi: lo era ieri quando era al culmine della sua parabola politica, lo è ancora di più oggi che si intravede la fine del suo ciclo politico.
“Perché in un anno, si chiede Morando, il Pd ha perso quattro milioni di voti, mentre il Pdl non ne ha guadagnati, anzi ne ha persi a sua volta un bel po’?” Questa è la “anomalia” con cui si confronta l’opposizione: e non si può rispondere che è così perché Berlusconi è un’anomalia, non si spiega un’anomalia con un’anomalia.
Non è invece questo il punto di vista di chi considera che l’anomalia basti descriverla, enumerarne le manifestazioni, convinto che allungandosi l’elenco aumenti la probabilità di chiudere questa “brutta parentesi”. La descrizione è più facile e più consolatoria della spiegazione, ma non la sostituisce. E invece è quello che è successo fin dall’inizio, col giudizio di ”unfit” sparato dalla copertina dell’Economist; quello che poi è continuato con la ricca pubblicistica dei Gomez e Travaglio; quello recentemente dilagato, tra le recriminazioni dei congiunti, le domande di D’Avanzo, i pezzi di colore su giornali e rotocalchi stranieri. L’andazzo sembra contagiare perfino un intellettuale come Michele Salvati nelle sue sconsolate riflessioni sul futuro del centrosinistra, e, più recentemente, sui rapporti tra maggioranza e opposizione: rimarrebbero così conflittuali, si chiede, “con un leader dello schieramento di centrodestra meno «speciale»?” (Il bipolarismo all’italiana, Corriere della Sera del 24 Agosto). Certo, “speciale” è già meglio di “anomalo”, ma resta l’idea che Berlusconi possa non essere il risultato di un processo iniziato almeno 15 anni prima, ma un epifenomeno casuale, un’escrescenza sostanzialmente estranea alla nostra struttura politica, e che senza di essa centrodestra e centrosinistra italiani avrebbero tra di loro rapporti di tipo europeo, e potrebbero così attendere alla soluzione dei “grandi problemi che ostacolano la crescita o la qualità civile del nostro Paese”.
Morando fa politica attiva, e quindi passa ad indicare le linee programmatiche di una sinistra che non consideri Berlusconi come un’anomalia, che, scrollatisi di dosso i tabù che la ingessano (immodificabilità della prima parte della costituzione, rapporto con la magistratura, difesa del parlamentarismo ecc.), lo incalzi sulle sue ambiguità (dalla sicurezza, al welfare, al mercato del lavoro e, aggiungo io, alle tasse). E sinteticamente rispondere che la ragione per cui “Berlusconi vince” è che egli ha “saputo interpretare la crisi italiana post ’89 meglio di quanto abbiamo saputo fare noi del centrosinistra e [ha] fornito una risposta di tipo populistico – conservatore ai principali problemi del Paese.”
Chi ormai politica attiva non la fa più si concede il lusso di approfondire. La tesi dell’anomalia ha radici antiche. Ricordo la campagna elettorale del ’94: parlavamo di partito di plastica, dell’imprenditore, anzi impresario, che entra in politica per salvare le sue televisioni; e non coglievamo la novità del suo irrompere nelle sclerotiche giaculatorie di Paese iperstatalista dominato dai grandi collettivi (Partito, Stato, Corporazione), della sua proposta di “una via individualista alla felicità”. (Angelo Panebianco). Non capivamo che la sua entrata in campo metteva fuori uso quasi tutto l’armamentario ideologico che, con la breve parentesi del primo craxismo, definiva il campo di gioco e le regole del gioco della politica italiana, la difesa della Costituzione e del parlamentarismo, il potere del sindacato, la discrezionalità della magistratura. E che così anche i nobili principi su rapporto fiscale, solidarietà verso il Mezzogiorno, aperture solidariste si sarebbero rivelati ipocrite coperture di realtà affatto diverse. Era almeno dagli anni ’80 che “altruismo e collettivismo non sono più concetti spendibili nelle moderne società del benessere” (come scrivevi ieri): ma per molti di noi quello era neo-liberismo.
Berlusconi nel ’94 era credibile: per merito suo, e per ottusità dei suoi avversari, era percepito come migliore interprete della richiesta di modernità e di libertà che veniva dal Paese. A metà di questa “guerra dei trent’anni”, ne aveva già vinto le battaglie decisive. Oggi, un po’ per gli scandali, assai più per la distanza tra promesse e realizzazioni, la sua credibilità è diminuita; l’odierno Berlusconi “situazionista” fatica a coprire con una politica degli annunci il suo sostanziale immobilismo. Ma non è cresciuta per nulla la credibilità della sinistra: avrebbe dovuto procedere a una revisione radicale dei propri fondamenti ideologici, e invece è stata timida, lenta, contraddittoria. Lo è stata nel suo nucleo centrale, quello degli eredi del PCI e della sinistra DC: le voci di Prodi, di Visco, di Veltroni, volevano solo rassicurare che la parentesi era chiusa, e che l’anomalia era rientrata. Non si accorgevano che così finivano per proporre la continuità a un Paese che voleva cambiamenti.
Caro Direttore, il guaio è che così continua. Lo scrivevi nel tuo editoriale di ieri, partendo dal titolo del nuovo romanzo di Veltroni e dalle riflessioni di Prodi sulle cause dell’insuccesso del suo Governo. “Ogni volta che si esalta un Noi si indica implicitamente anche un Voi, e quel Noi generico e aulico diventa allora un noi-noi, la nostra parte politica, quelli che la pensano come me, la nobile minoranza che condivide la mia stessa nostalgia.”
La tesi della superiorità morale, della diversità, è speculare a quella dell’anomalia, da cui é partita questa riflessione. Il cerchio si chiude: non stupiamoci se il campo che esso recinge si fa sempre più piccolo.
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agosto 27, 2009