di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi
Se consideriamo i conti pubblici al netto degli interessi sul debito – il miglior indicatore della politica fiscale di un Paese – nel 2012 la Francia avrà un disavanzo pari al 2,4% del Prodotto interno lordo, l’Italia un avanzo del 2%. L’avanzo italiano sarebbe addirittura superiore a quello tedesco, stimato all’1,4%. Perché allora, se i nostri conti pubblici stanno tanto meglio di quelli francesi, Moody’s sta considerando di declassare l’Italia e non la Francia? E perché i mercati sono tanto preoccupati per il nostro Paese?
Una risposta è che il debito italiano è molto più elevato di quello francese: 120% del Pil, contro 85 in Francia. Ma è una risposta solo in parte convincente. Quando un Paese ha accumulato molto debito non può ridurlo in pochi anni. Nessuno chiede all’Italia di fare miracoli: l’importante è che anno dopo anno il livello del debito scenda, e che la riduzione non si interrompa.
Ciò che conta non è il debito in sé, ma il rapporto fra il debito pubblico e il Pil. Anche se il debito rimane stabile, ma l’economia non cresce, il rapporto aumenta: la crescita (al denominatore) è importante quanto i conti pubblici (al numeratore). È la nostra incapacità di crescere e di attuare politiche che favoriscano la crescita ciò che davvero preoccupa le agenzie di rating e gli investitori. La storia dà loro ragione.
Tra il 1993 e il 1998 l’Italia attuò una manovra di bilancio di dimensione analoga a quella varata in questi giorni dal governo Berlusconi: una correzione dei conti pari a circa 6 punti di Pil. Anche quella fu una manovra prevalentemente dal lato delle tasse. Che cosa accadde? Nel 1993, dopo la famosa legge finanziaria del governo Amato, le famiglie italiane ridussero i loro consumi del 3%. E non si ripresero più: negli anni successivi i consumi, che prima crescevano in linea con il resto d’Europa, crebbero della metà. Anche gli investimenti rallentarono, non solo in assoluto (dal 3% l’anno all’1,8), ma anche nel confronto europeo. Ciò che crebbe fu la spesa pubblica: era il 43,2% del Pil nel 1990, oggi è il 46,7%. La lezione è che usare solo la leva delle tasse significa farsi del male: si ammazza l’economia, non si riduce il rapporto debito-Pil e si crea lo spazio per far lievitare la spesa pubblica.
Molti oggi auspicano un’altra tassa, la patrimoniale: sarebbe, nella migliore delle ipotesi, un’imposta inutile, nella peggiore fatale. Se l’Italia riprendesse a crescere il rapporto debito-Pil comincerebbe a scendere, anche senza patrimoniale.
Questo è ciò che si chiede all’Italia, non di dimezzare il debito di colpo. Una patrimoniale che riducesse il debito anche al 100% del Pil sarebbe totalmente inutile se non cambiasse il ritmo di crescita dell’economia. Ma una patrimoniale sarebbe esiziale per la crescita perché diffonderebbe la falsa impressione che le riforme non sono poi tanto urgenti. È proprio ciò che spera chi le riforme non le vuole perché metterebbero a rischio i propri piccoli e grandi privilegi. È questo il motivo per cui anche la Confindustria sta convertendosi alla patrimoniale?
Tweet
settembre 19, 2011